Drammaturgo, regista, attore, pedagogo, romanziere e affabulatore, Giuliano Scabia è stato soprattutto un poeta. A raccontarlo, con un libro dal titolo Il Poeta d’oro (La Casa Usher), è il critico teatrale Massimo Marino.
attenzione L’evento di mercoledì 24 maggio, alle 18:00 organizzato da Ravenna Teatro insieme al festival Arrivano dal mare! è annullato
“Scabia cercava di decifrare la lingua, – spiega il critico Massimo Marino – le lingue dei nostri tempi confusi, di scavarle e portarle a consapevolezza. Lo ha fatto trascrivendo in poesia per musicisti come Luigi Nono agli inizi degli anni Sessanta il mondo dell’alienazione e dello sfruttamento della fabbrica; mettendo a punto testi teatrali come sguardo profondo sulla nostra società e su come cambiarla; inventando azioni di partecipazione con abitanti di quartieri periferici e di paesini, con studenti e con i ‘matti’, in mille situazioni”.
Il poeta d’oro racconta la storia e le opere di Scabia, restituendo una figura complessa, ma risplendente nel panorama culturale e artistico italiano, in viaggio continuo nelle trasformazioni della lingua e della società. All’interno delle esperienze condotte a Trieste da Franco Basaglia nel 1973, Scabia ha inoltre costruito con altri artisti, con medici, infermieri e pazienti, quel grande animale azzurro di cartapesta chiamato Marco Cavallo, simbolo della liberazione dall’oppressione manicomiale, contribuendo al processo che portò alla Legge 180 e alla chiusura degli ospedali psichiatrici.
Marino, perché un libro su Scabia? Come nasce?
“Ho iniziato a seguire Giuliano Scabia nel 1972, quando arrivò al Dams, e l’ho fatto intensamente fino a metà degli anni Ottanta. Successivamente ho continuato a seguirlo a distanza, ma il rapporto è stato sempre molto forte. Quando morì, nel maggio 2021, insieme ad amici e parenti ci siamo resi conto che, nonostante avesse rappresentato momenti importanti nel campo della letteratura, del teatro e della poesia tra fine Novecento e primi anni Duemila, la sua figura era ancora marginale. Mancava uno sguardo complessivo che ne facesse conoscere, prima ancora che apprezzare, la ricchezza. Così è nato il libro”.
Qual è il lascito di Scabia? Cosa rimane oggi, della sua lezione?
“Rimangono molte cose, e rimane tutto quello che ha lasciato negli studenti in trent’anni di corsi al Dams. Dopo la sua morte è stato creato un gruppo whatsapp in cui una novantina di persone, che lo hanno seguito intensamente, si scambiano informazioni. A Firenze rimane un archivio di suoi documenti che si costituirà in Fondazione; rimane un cavallo – anzi, per la verità ce ne sono diciotto copie, dal Brasile alla Russia – simbolo della liberazione teatrale nei manicomi; rimangono opere teatrali di grande rilevanza, alcune variamente riprese; rimangono i romanzi e le poesie. È stato il padre della cosiddetta ‘animazione teatrale’ e di esperienze specifiche: da poco tempo è stato pubblicato Forse un Drago nascerà ad opera di Babalibri insieme a studiosi e docenti dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e si sta costruendo un laboratorio Scabia che attraversa i vari istituti universitari per rivedere un lavoro pedagogico ancora fortemente attuale”.
A cosa si deve il titolo?
“Il poeta d’oro è il titolo di un suo testo che racconta in modo favolistico l’infarto che lo colpì. È la storia della malattia che, a cavallo dei 40 anni, gli ha cambiato la vita e mi è sembrato particolarmente adatto anche perché Giuliano si portava sempre appresso un sole di cartapesta. L’infarto ha inoltre segnato il passaggio dal teatro alla narrazione”.
Com’era lo Scabia insegnante?
“L’attività al Dams lo ha impegnato dal 1972 al 2005: ad inizio anno presentava programmi molto affascinanti che però metteva da parte per esplorare il teatro. Chiedeva agli studenti di sondare i testi teatrali impegnandosi a creare con i corpi; il suo fare ha generato fortissimi coinvolgimenti che hanno segnato generazioni di studenti.
intervista a cura di Federica Ferruzzi