Approfondimenti

Riflettere sul mondo attraverso i corpi

LA STAGIONE DEI TEATRI 2022-2023

In occasione di Pragma. Studio sul mito di Demetra di Teatro Akropolis, in scena venerdì 31 marzo 2023 al Teatro Rasi, pubblichiamo l’articolo L’oscura radice dell’animalità (1) di Clemente Tafuri e David Berlonio.

 

L’OSCURA RADICE DELL’ANIMALITÀ

La sostituzione progressiva di comunità virtuali alle forme tradizionali di aggregazione, o la virtualizzazione di tali forme, ha ridefinito l’intera collettività a partire dalla suddivisione in piccoli gruppi tendenzialmente isolati fra loro. I processi di aggregazione avvengono ormai per contagio, senza confronti reali. La possibilità concessa a chiunque di dare una forma, sia essa scritta o per immagini ma comunque in un contesto virtuale, alla propria visione del mondo, si è rivelata una velenosa e falsa interpretazione della democrazia che sta corrodendo la necessità di mettere a confronto le differenze e di elaborare la consapevolezza della propria condizione considerando scenari complessi. Le comunità virtuali sono circoli, covi per chi la pensa allo stesso modo, non-luoghi in cui annichilire il senso critico, supermercati in cui sfogare la propria bulimia e la propria isteria.
La presenza fisica di cui sembra si avverta sempre più il bisogno è quella dell’immagine fotografica o filmata (quella cioè di una rappresentazione parziale per sommari aggregati di forme e colori), che tralascia inevitabilmente gli aspetti connessi a una esperienza sensoriale condivisa, non solo cioè quelli relativi ai sensi che non vengono coinvolti nella visione, ma anche quelli emotivi legati direttamente alla presenza reale.
Si è instaurato il primato di una pangrafia, una condizione in cui ogni azione e ogni individuo vengono riprodotti e descritti, e l’interazione sociale, come la percezione di sé, prescindono dal corpo. L’azione è relegata alla dimensione virtuale, e anche quando essa prende una forma reale viene immediatamente destituita dello stato di accadimento per essere ricondotta alla sua rappresentazione. Ogni azione viene riconosciuta come tale solo se è filmata, solo cioè nel suo stato di riproducibilità. L’azione diventa atrofica e rischia di compromettere la natura politica di ogni lotta in quanto il suo evolversi produce conseguenze su un piano innanzitutto astratto, separato, protetto. Ed è proprio questa separazione a ridurre il corpo a immagine, infinitamente condivisibile, portatrice di un’identità moltiplicata da un lato, ma irrimediabilmente narcisistica dall’altro.
Ma quale corpo è andato perduto? La risposta che dobbiamo dare a questa domanda non può che essere un’ulteriore altra domanda: quale significato di corpo dobbiamo tentare di recuperare per restituire una direzione ad un percorso di consapevolezza di noi stessi tornando a praticare, o quantomeno a elaborare, un’azione non più ridotta a un’ombra di se stessa?
Un fondamentale aspetto con cui abbiamo perso ogni familiarità è il corpo-materia, il sṓma, il corpo cioè che ci consente di essere un elemento intramondano solidale con gli aspetti della realtà che ci circonda. Che ci consente quindi di occupare uno spazio e di affermare una presenza. Ma altrettanto perduto è il corpo nel suo significato di estensione, chrṓs, che raccoglie il nostro aspetto e si fa portatore del nostro sembiante attraverso il volto. È il corpo-identità.
Infine il corpo-struttura, il démas, la forma vitale attraverso cui si instaura una relazionalità funzionale con l’ambiente. Anch’esso perduto, e rimpiazzato, proprio come il corpo negli altri suoi significati, dal corpo-immagine.
In merito al corpo-immagine giova citare quelle forme che Bachtin attribuisce al nuovo canone corporeo che si oppone e si sostituisce, a partire da una certa epoca, alla concezione precedente di corpo:
un corpo perfettamente dato, formato, rigorosamente delimitato, chiuso, mostrato dall’esterno, omogeneo ed espresso nella sua individualità. […] Nel nuovo canone corporeo, il ruolo predominante passa alle parti del corpo che hanno individualmente un valore caratterologico ed espressivo: la testa, il volto, gli occhi, le labbra, il sistema muscolare, la posizione individuale che il corpo occupa nel mondo esterno. Al primo posto si distinguono le posizioni e i movimenti opportuni
di un corpo formato in un mondo esteriore parimenti formato, in presenza dei quali le frontiere fra il corpo e il mondo non si indeboliscono affatto.(2)
Si tratta del trionfo del principio di individuazione celebrato attraverso il trionfo dell’individualismo (3). Ma i significati perduti possono continuare ad esercitare una funzione. Non solo, possono mostrarsi nella loro processualità imponendo una inequivocabile affermazione del corpo che metta in crisi la pangrafia nell’ambito della quale ne percepiamo, ormai abitualmente, l’immagine […]

  1. Il presente contributo è la versione ampliata di C. Tafuri, D. Beronio, Fenomenologia del corpo perduto, pubblicato in «Luoghi comuni – Corpo», a. I, n. 2, maggio-giugno 2019.
  2. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, Einaudi, 2011, pp. 350-352.
  3. Per una breve analisi del rapporto fra atto teatrale e principio di individuazione in Nietzsche cfr. C. Tafuri, D. Beronio, Morte di Zarathustra, Genova, AkropolisLibri, 2016, pp. 44-45. 

L’amica geniale a fumetti: storia di una doppia amicizia

LA STAGIONE DEI TEATRI 2022-2023

 

L’amica geniale a fumetti è il nome del recital di Fanny & Alexander tratto dalla Graphic Novel di Chiara Lagani e Mara Cerri (Coconino Press) che andrà in scena il 23 e 24 febbraio, alle 21.00, al Teatro Rasi.

 

Alla collaborazione artistica tra Chiara Lagani e Mara Cerri dobbiamo il prezioso volume I libri di Oz, di L. Frank Baum, che hanno rispettivamente tradotto e illustrato per Einaudi, prima di incrociare ancora il loro cammino per l’adattamento in graphic novel de L’amica geniale, pubblicato da Coconino Press. La traduzione in spettacolo – prima dei Libri di Oz e poi de L’amica geniale – vede l’importante intervento di Luigi De Angelis alla regia, al video e alle musiche intersecarsi con le due artiste, che avevano già singolarmente percorso l’universo di Elena Ferrante. Un universo che ora le porta a sprigionare un’alleanza speciale, fatta di immersione reciproca, di ciò che si vede e di ciò che non si vede, nel segno di una potenza tutta femminile, come racconta Chiara nel diario che ha pubblicato sulla rivista culturale online Doppiozero e che riportiamo di seguito.

“«Sorbole ricevute?» È un whatsapp di Mara. Vado di corsa a controllare la mail. Eccola. La scena delle sorbe è arrivata. Quando arrivano le tavole di Mara sento sempre il cuore in gola. È così fin dal principio, da quando lavoravamo ai Libri di Oz. So che lei vede quello che io non sono capace di vedere o, almeno, lo vede meglio e prima di me. Apro il pdf. Ed ecco che Enzo porge a Lila un rametto di sorbe. Lila lo guarda stupita e gli dice qualcosa. I balloon sono ancora vuoti, bianchi. Attendono. E lasciali attendere, mi dico. Interrogo le espressioni. Questo è il modo di scrivere più strano che abbia mai sperimentato: poroso, stratificato, più ancora che a teatro. Gli strati qui si compongono, ma ben presto si sfalderanno, si sgretoleranno, sono fatti di materia molto friabile. Non c’è battuta, non c’è didascalia progettata che resti indifferente al sisma delle immagini, delle espressioni, delle pennellate di colore. Nell’ultima vignetta c’è Lila, nella sua stanza, seduta sul letto. Ha appeso a un chiodo le sorbe e le guarda. Potrei sostare un giorno intero, penso, su quest’immagine.È come se le figure mi lanciassero degli ami a cui si aggrappano le parole dette e le parole non dette. Devo soltanto affidarmi alle figure, penso, trovare un equilibrio tra i pieni e i vuoti, i suoni e il silenzio. Un po’ come in scena, quando affido tutto ai corpi degli attori: al di là dei corpi ogni cosa è spaventosa. I corpi sono le mie Colonne d’Ercole. I pilastri che sostengono il Mondo.
(…) Notifica mail. Nuova serie di tavole. «Il libro». Così si chiama il pdf in allegato. «Il libro» è Piccole donne. Le amiche l’hanno comprato coi soldi di Don Achille, l’orco della loro infanzia. Lo leggono assieme e assieme progettano di scriverne uno tutto loro, per realizzare un sogno di libertà. Le tavole di Mara sono bellissime. Mentre mi incanto a guardare i dettagli, «il libro» del titolo si trasforma: adesso è «la fata blu», il capolavoro (illustrato!) di Lila bambina. L’ha scritto, alla fine, da sola. Io, però, non sono sola, siamo due, e siamo tante. Questa è un’altra cosa potente che sa fare Ferrante, penso, mettere insieme le donne”.

Chiara Lagani, doppiozero.com, 11 gennaio 2022

 

Un museo per riscoprire Pasolini e esplorare il ‘900

LA STAGIONE DEI TEATRI 2022-2023

 

L’affabulatore romano Ascanio Celestini è il protagonista di Museo Pasolini, spettacolo che rappresenta una sorta di affresco dell’Italia del secondo Novecento tracciato attraverso le tante e diverse opere che l’intellettuale bolognese ci ha lasciato. Qui di seguito un suo video e un’intervista a cura di Federica Ferruzzi.

 

Celestini, qual è l’immagine dell’Italia che emerge da questo lavoro? Cosa ci dice, di noi e del Paese?

“Vincenzo Cerami ha detto: ‘se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini, dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, e la ordiniamo secondo cronologia, avremo il ritratto, il disegno della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni’. Io non ho fatto altro che accostare la sua opera a quello che accadeva in Italia in quel determinato periodo. Ad esempio, mi sono chiesto: cosa succedeva, in Italia, quando usciva al cinema Accattoni? E verificavo che in quegli anni si andava verso i primi governi di centro sinistra. Un modo per leggere la storia attraverso il punto di vista di una persona particolarmente preparata e anche un po’ folle. Ritengo sia uno sguardo più interessante rispetto a quello degli storici, che fanno una cernita più scientifica che emotiva”.

Al di là della celebrazione dei cento anni dalla nascita, come nasce questo spettacolo?

“Un momento importante nella costruzione di questo spettacolo è stato nel 2015, in occasione dell’anniversario della morte di Pasolini, quando feci un’intervista a Graziella Chiarcossi, filologa, cugina di Pier Paolo, la persona che oggi lo conosce meglio. Tramite lei ho scoperto un aspetto poco noto, ovvero che il padre, militare fascista, era molto legato al figlio, omossessuale comunista. Gli faceva da segretario, lo seguiva passo passo. La lettura che invece abbiamo avuto, in questi anni, del loro rapporto era di forte conflitto, per questo occorre approfondire. I motivi di questo spettacolo sono tanti: nel 2020 mi sono recato, per la prima volta, nel cimitero di Casarsa della Delizia, dove è sepolta tutta la famiglia Pasolini. Spesso sento dire che Pier Paolo era friulano: in realtà, come sappiamo, era nato a Bologna, anche se è pur vero che non si sceglie dove nascere e che lui è sempre rimasto molto legato alla sua parte friulana. Al cimitero sono tutti lì, è una sorta di album di famiglia e credo che questo aspetto vada recuperato. Credo che, quando si parla di Pasolini, non si debba aver paura di entrare nel personale: lo facciamo con tutti e non capisco perché non lo si debba fare con lui, che ha riversato tutta la sua vita nelle sue opere senza mai nascondersi”.

Se questo ipotetico museo esistesse, cosa dovrebbe contenere?

“Io penso davvero che esista (ride, ndr). Al giorno d’oggi, nessuno penserebbe di allestire un Louvre o una struttura come gli Uffizi, oggi si prediligono percorsi brevi ma sensati e nel mio museo c’è un filo preciso. Ogni museo ha una sua logica, dunque uno o più fili che servono a tessere un racconto. Qui gli oggetti contenuti sono cinque. C’è la prima poesia che Pasolini scrisse all’età di sette anni. Quella che gli fece comprendere che la poesia non è solo un oggetto di studio o consumo, ma anche qualcosa che si può produrre, che tu stesso puoi scrivere. C’è il piccolo cimitero di Casarsa della Delizia nel quale riposano il poeta, la madre e le zie, il padre, il fratello e i partigiani uccisi con lui. Come dicevo, è un album di famiglia. C’è l’innocenza perduta dei comunisti dopo l’invasione dell’Ungheria nel 1956. C’è la borsa in similpelle che contiene l’esplosivo della strage di Piazza Fontana e, pezzo più importante, c’è il corpo massacrato del poeta. Questo museo si trova ovunque venga rappresentato lo spettacolo, ma è anche in un luogo preciso. Un luogo del delitto: il ‘900”.

Cosa è stato, il Novecento?

“Un secolo pieno di utopie, di gioia e di tragedie. Per far visitare il museo bisogna spalancare le porte del ‘900 e metterlo in mostra, esporlo senza censure, senza lasciare pezzi preziosi chiusi negli scantinati. Bisogna esporsi. Il ‘900 è il luogo del delitto di Pasolini: il narratore della storia e guida del museo ci dice che il luogo del delitto non è l’Idroscalo di Ostia, ma il secolo appena trascorso. Ci dice che siamo noi i colpevoli. Noi che abbiamo vissuto questo secolo. E la pena da scontare consiste proprio nell’aprire la porta e mostrare le contraddizioni, i delitti, le speranze. Ma anche le analogie, le relazioni tra l’opera di Pasolini, la sua vita e gli avvenimenti grandi e piccoli che hanno caratterizzato 53 anni di storia dal 1922 al 1975. I 53 anni di vita del poeta”.