Approfondimenti

Il lato oscuro della Storia

FÈSTA 2021
OTTANTANOVE DI FROSINI/TIMPANO
martedì 7 dicembre 2021 ore 21.00, ARTIFICERIE ALMAGIà

In occasione di Ottantanove, per Fèsta (a cura di E Production e Ravenna Teatro), ripubblichiamo l’articolo di Elvira Frosini e Daniele Timpano, apparso sul numero 21 dello speciale di Domani «DopoDomani» del 12 Ottobre 2021.

Fotografia di Ilaria Scarpa

Le origini della democrazia e il colonialismo dentro di noi. Due facce di una questione aperta.

“ELVIRA – Lo vedi come sono ridotti? Hanno fatto un disastro a casa loro e poi vengono qua. Addio Africa!
DANIELE – Si, va bene, vengono qua a ubriacarsi, pisciano sui portoni, ma non è colpa loro. Questi africani egiziani arabi cinesi indiani pachistani senegalesi marocchini uzbeki, sono così, poveracci. Non è colpa loro.
ELVIRA – È che non sono intelligenti come noi, l’ha detto pure il barista sotto casa.
DANIELE – Sì, proprio non ce l’hanno nel dna, non ci arrivano.
ELVIRA – Hanno un problema con la modernità.
DANIELE – È vero.
ELVIRA – “I Negri d’Africa non hanno ricevuto dalla natura nessun sentimento che si elevi al di sopra della stupidità”
DANIELE – Sempre il barista sotto casa?
ELVIRA – No, Immanuel Kant. E poi sono ingovernabili, “Moriranno sempre di fame. Sempre. Sono destinati. Se qualcuno non li governa, non ce la faranno mai”.
DANIELE – Anche questo è Kant?
ELVIRA – No, è mia cugina Veronica. “Si ostinano a non entrare nella storia”. “Zoologicamente e non storicamente sono uomini. Si cerca di addomesticarli e addestrarli, ci si sforza di svegliarli ad uomini, è ciò che si chiama l’incivilimento dei barbari e l’umanamento dei selvaggi”.
DANIELE – Ma tua cugina è filosofa?
ELVIRA – No, questo l’ha detto Benedetto Croce. E poi sono corrotti, violenti, si ammazzano tra di loro, c’hanno i dittatori. Per loro la vita mica vale come per noi. Per loro la vita non vale niente. Sono abituati a morire.
DANIELE – Sempre Croce?
ELVIRA – No, mio papà. “Ai negri non viene neppure in mente di aspettarsi per sé quel rispetto che noi possiamo esigere dal prossimo”. Hegel.
DANIELE – Hegel?
ELVIRA – “Per natura elemento barbaro ed elemento servile sono la stessa cosa”.
DANIELE – Sempre Hegel?
ELVIRA – No, Aristotele. “Ma guardali Non hanno voglia di lavorare, come i napoletani, i calabresi, i siciliani, sono simili. Uguali”.
DANIELE – Dai, questo però è il mio papà…
ELVIRA – No, l’ha detto Rousseau. Insomma sono RAS.
DANIELE – Ras come i Rasta, i Ras abissini, Ras Tafari…?
ELVIRA – No R-A-S. È un acronimo. Ridotte Attitudini Sociali. RAS. Mio padre aveva un ragazzetto che lavorava per lui, un tuttofare che si arrangiava a fare tanti lavoretti. Scuro scuro di carnagione, del suo paese vicino Roma. Burinozzo. Beh lo chiamava il Ras.
DANIELE – È tutta colpa del colonialismo!
ELVIRA – E che è?
DANIELE – Boh.
[da Acqua di colonia, 2016]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Siamo al bar, come tanti, a prendere l’aperitivo, e passano intanto quelli che ti vendono gli accendini, gli oggettini, afrodiscendenti, africani, asiatici, uomini e qualche volta donne. Tu non li vedi bene, cerchi di ignorarli, cerchi di non sentire il tuo fastidio, ti senti in trappola tra il tuo fastidio e il tuo senso di colpa. Sì, perché tu ti senti una vittima e nello stesso tempo parte di un mondo ingiusto, hai i tuoi problemi, grandi e piccoli, e non è che puoi farti carico di tutte le ingiustizie. E poi da sola che cosa puoi fare? Dietro tutto c’è un rimosso, sempre. Si rimuove tutto. Si rimuovono le domande: perché siamo così? Perché guardiamo e pensiamo il mondo così?

E intorno a te, dietro e davanti, in questi anni, ci sono le cose che accadono, il flusso di migranti in aumento, il mare diventato una tomba, la costruzione della paura di quelli che arrivano, la costruzione di onde emotive collettive che oscillano invariabilmente tra la paura e la commozione. E poi il Black Lives Matter, il discorso sul colonialismo e post-colonialismo e neocolonialismo, i tentativi di aprire discorsi sulla decolonizzazione dei corpi, della cultura. E poi l’Europa, che percepisci immobile e impaurita, i muri costruiti, i patti per arginare i flussi migratori. L’Europa – e l’Italia in cui sei nata – nella cui cultura “democratica” sei cresciuta, con le sue democrazie e i suoi principi. La vedi là, circondata di campi profughi, di detenzione, abusi e torture, che fa finta di niente, mentre continua a pensarsi come il baluardo dei diritti universali. E senti uno stridore ed uno svuotamento. La politica non ti parla, non pensa un mondo nuovo ma tende a mantenere questo come il migliore e l’unico possibile. La politica, che non ha più sogni ed orizzonti da proporre. La nostra epoca, nata con l’abbattimento di un muro (il muro di Berlino, 1989), costruisce di nuovo muri.

“A- L’Europa! Che meraviglia. Un modello per il mondo. Così credevo da bambina. Tutto nasce allora. Coi Lumi. Con la Rivoluzione. È come un’infanzia. È la che nasce il mondo, questo, in cui viviamo. È un po’ tutta un’infanzia e una giovinezza lontana, la nostra, che ci raccontano. Ce la raccontiamo. Che l’infanzia te la racconti con gli occhi di adesso, la avvolgi di una luce dorata, di tristezza, e malinconia, e di eroismo e di gloria. Ti ricordi quando hai preso l’autobus da solo per la prima volta per andare a scuola, o quella volta che hai salvato tuo fratello piccolo che era caduto in una fontana…
C – E allora andiamo a scavare in questa infanzia, in questa rivoluzione, in questa archeologia di democrazia, riportiamo alla luce qualche scavo. Qualche reperto. Qualche pezzo di muro. Sì. Pezzi di macerie, di muri crollati, o pezzi di muri in costruzione. Stiamo in piedi su macerie, come su piedistalli. Ecco, questo è un pezzo di muro della Bastiglia, 1789.
A – È un pezzo di Muro di Berlino, 1989.
B – Un pezzo di muro delle Tuileries, la Convenzione, distrutta durante la Comune di Parigi, 1871.
C  – Un pezzo di muro delle Torri Gemelle di New York, 2001.
B – Un pezzo di muro di una casa di Aleppo in Siria.
A – Un pezzo di muro del sito di Palmira.
C  – Un pezzo di muro degli Stati Uniti al confine con il Messico.
A – Un pezzo di muro di Ventimiglia, del Brennero, del confine dell’Ungheria, della Turchia, un pezzo di muro di casa mia, a Roma, che cade a pezzi. Un sampietrino de Roma, che ce lo siamo portati da Roma.
C –  Resti, reperti, ricordi che rigiriamo tra le mani, reliquie, reliquie sacre, come il sacro cuore di Marat, ecco, potremmo farci un funerale, sì, il funerale della nostra convivenza, della nostra democrazia
A,B,C – Un bellissimo funerale.”
[da Ottantanove, 2021]

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Torniamo quest’anno al Romaeuropa Festival con Ottantanove, un lavoro che si interroga sulla democrazia, sulla sua crisi, sulla possibilità di pensare oggi una rivoluzione, o un cambiamento. Cosa resta oggi nei nostri sistemi democratici delle aspirazioni di universalità che sono alle origini della modernità? Ottantanove si ricongiunge e continua così il discorso aperto con Acqua di colonia, presentato a Romaeuropa nel 2016, in cui era centrale il tentativo di ri-conoscere e guardare in faccia le origini coloniali e razziste della nostra cultura occidentale.
Il nostro lavoro procede sempre per domande. Domande che facciamo a noi stessi, domande implicite, questioni che rivolgiamo al pubblico, che condividiamo. E guardiamo spesso alla Storia, per far luce sul presente, sulle questioni irrisolte che viviamo oggi. Cominciamo sempre da una presa di distanza, dalla consapevolezza – o da un tentativo di consapevolezza – di dove siamo.
Da che punto – geografico, storico, culturale – stiamo parlando?
Si tratta anche – per noi – di un continuo tentativo di reagire alla semplificazione, accettando la complessità. Viviamo in un mondo non binario, non schematico, ma tutto, intorno a noi, sembra costringere – anche nei discorsi “antagonisti” – ad una lettura ottusamente conformista e identitaria, e perciò rassicurante, del presente.
Queste domande all’origine dei nostri lavori nascono dalla nostra vita, personale e collettiva.
Le domande che ci siamo posti in Acqua di colonia erano: “Siamo colonialisti? Lo siamo stati? Siamo razzisti? “. Le domande da cui ci siamo mossi per Ottantanove erano: “Cosa ne è stato della Rivoluzione? È qualcosa a cui possiamo ancora pensare? Cosa rimane oggi della Rivoluzione francese, mito fondativo della democrazia occidentale, dei diritti universali?”

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Ecco, queste questioni si rispecchiano e si rispondono da un lavoro all’altro. È stato un po’ come guardare o scavare dentro di noi, e dietro di noi, nelle due facce di una stessa questione, di un groviglio che fatichiamo a leggere.

Con Acqua di colonia abbiamo così guardato in faccia il colonialismo ed il razzismo costitutivo della nostra cultura, italiana ed occidentale. Abbiamo tentato una rivoluzione copernicana del nostro sguardo, del nostro modo di guardare il mondo. In Ottantanove parliamo dello svuotamento della democrazia, che viviamo oggi – tutte e tutti – sulla nostra pelle ed arriviamo al nodo di una contraddizione evidente e mai risolta: la pretesa di universalità e di dettare ritmi e modi della democrazia nel mondo e la sua continua negazione nei fatti, duecentotrenta anni fa come nel 2021.

Le nostre vite democratiche, i nostri corpi democratici, i nostri occhi, orecchie e pensieri democratici sono stati costruiti a partire da là. Dalla Rivoluzione. La Rivoluzione, figlia dell’Illuminismo, è alle origini delle nostre democrazie mature e stanche. La Rivoluzione ha a che fare con la nostra identità cosiddetta europea, assunta già da allora a modello assoluto di civiltà. Eh sì perché è nel ‘700, nel secolo dei lumi e della Rivoluzione, che si precisa e teorizza – e mette in pratica – l’idea che sia l’Europa (l’Occidente) a dettare tempi e modi al mondo: economicamente (con l’industrializzazione), socialmente (con la modernizzazione), politicamente (con la democratizzazione), culturalmente (con la secolarizzazione). Da allora a dominare il mondo siamo noi. Un “noi” che è forse un po’ più Stati Uniti, Francia, Germania che l’Italia ma che è pur sempre un “noi” e non un “loro”: la parte giusta della barricata contro la barbarie, dicono, contro un mondo diventato nel frattempo forse abbastanza forte da buttarci giù dal piedistallo.

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Il nostro mondo, l’Europa, piccolo mondo antico e asserragliato su sé stesso, è un’entità contraddittoria, in evidente crisi politica e democratica, che sottrae la politica ai suoi stati, in cui domina lo stato d’eccezione, il securitarismo, il condizionamento delle costituzioni nazionali con il pareggio di bilancio, ma che continua a proclamare come suoi fondamenti identitari i diritti civili, la partecipazione, la sovranità popolare, la separazione dei poteri, la cittadinanza, le libertà di stampa, riunione, culto, associazione, la democrazia. Idee che conosciamo, le riconosciamo, sono i nostri più alti valori, ci ripetono ogni giorno, ciò che farebbe l’Occidente ancora oggi superiore rispetto al mondo sinora (e tuttora) dominato. Concetti nati durante la Rivoluzione e in essa già traditi, ancora oggi sbandierati e utilizzati in qualunque discorso pubblico europeo, nonostante suonino ormai svuotati di senso, di sostanza, come gusci vuoti lasciati sulla spiaggia. Cose nate allora la cui carcassa ci ritroviamo oggi tra i piedi, ma svuotata di ogni contenuto, come le mummie imbalsamate degli egizi, con tutti gli organi chiusi in un vaso canopo – la milza, gli intestini, il cuore, il fegato – e la vuota forma del corpo glorioso che fu, tuttora affascinante e persistente come un deodorante, ormai definitivamente morta.
Che fine ha fatto, non diciamo la vita, ma almeno il canopo?

 

Fotografia di Ilaria Scarpa

 

Questo testo è il primo che abbiamo scritto per Ottantanove, contiene un’evocazione di immagini della Rivoluzione francese.

Ricordare. La cipria, le parrucche, i balli a corte, le candele, il clavicembalo, gli automi meccanici, Voltaire, Rousseau, Diderot, D’Alembert, Oscar François de Jarjayes, e le calze, le culottes, gli amori di Maria Antonietta col Conte di Fersen, lo scandalo della collana, il popolo ha fame dategli le brioche e poi Parigi, la Bastiglia, e primo, secondo e terzo stato (ma non il quarto), i berretti frigi e i sanculotti, le picche, le coccarde, le bandiere, le teste sulle picche, e cittadino, e cittadina, i giacobini, la Gironda, la Palude, la Montagna, l’Illuminismo, la Ragione, i discorsi per la strada, alla tribuna, dal balcone, e Robespierre, Danton, Saint-Just, la Convenzione, il Re ghigliottinato, Marat ucciso nella vasca, Jacques-Louis David, la Pallacorda, i diritti dell’uomo (ma non della donna, né dell’uomo o donna negri) e il Ça ira, la Carmagnole, la Marsigliese, il Direttorio, e poi l’abolizione della schiavitù, e il ripristino della schiavitù, la rivoluzione nelle Antille, e Haiti indipendente, prima repubblica nera nella storia, e poi brumaio, frimaio, termidoro, messidoro, fruttidoro, germinale, vendemmiaio e tutti i mesi del calendario rivoluzionario, e la Costituzione, la Dea Ragione, l’Essere supremo, le repubbliche sorelle, Foscolo in esilio, Napoleone, Campoformio, Vittorio Alfieri, Vincenzo Monti, la Repubblica di Napoli, la Repubblica Romana, la Repubblica Batava, Transpadana, Cispadana, Subalpina, Cisalpina, Cisrenana, Anconitana, la Repubblica Ligure, Elvetica, Astese, e gli alberi della libertà, il Papa arrestato e deportato e morto in Francia, e Lavoisier, i Montgolfier, Alessandro Volta, Fahrenheit, Linneo, e poi assemblea, democrazia, libertà, voto, popolo, Terrore, terrorismo, ghigliottina e teste mozze, teste mozze, teste mozze, teste mozze. “Liberté, Egalité, Sexualité”.

Lo abbiamo letto su una vetrina di Gucci a Parigi in centro.
[da Ottantanove, 2021]

 

Azzardo: se è legale non fa male? I dati dicono il contrario

Al Socjale

martedì 30 novembre 2021 ore 20.30 Slot Machine, di Marco Martinelli, con Alessandro Argnani e Christian Ravaglioli
mercoledì 1 dicembre 2021 ore 20.30 Partita aperta – Il modo più sicuro di ottenere nulla da qualcosa, Anime Specchianti

In occasione degli ultimi due spettacoli della rassegna Al Socjale, con due lavori incentrati sul tema del gioco d’azzardo, ripubblichiamo un recente articolo di approfondimento sul tema uscito su Vita a firma di Marco Dotti.

Azzardo: se è legale non fa male? I dati dicono il contrario
di Marco Dotti,  24 settembre 2021, Vita.it

 

Il Ministero dell’Economia e delle Finanza ha pubblicato i dati del consumo di azzardo nel 2020. La spesa per slot e macchinette è scesa del 47%. Al di là del lockdown, come ammettono i Monopoli di Stato, la riduzione della spesa degli italiani, con le conseguenti riduzioni di problematiche criminali e sociali, è maggiore dove vi sono leggi regionali e regolamenti comunali che limitano gli orari di apertura e impongono distanze dai luoghi sensibili. Recenti studi dimostrano che il nesso legalizzazione -riduzione del consumo ergo diminuzione del business in mano alle mafie è falso

 

L’azzardo è solo una merce. Una tra le tante. Ma quando diventa di massa, legale, somministrato direttamente o a mezzo terzisti con il “bollino” pubblico allora quella merce diventa del tutto particolare.
La sua innata tossicità viene celata, percepita come “naturale”, forse inevitabile. Il pesce, d’altronde, non si accorge di vivere in una boccia d’acqua finché il vetro si rompe e comincia a soffocare.

 

La legalizzazione: strumento per creare mercati manipolati

Accade così che la “naturalizzazione” di un fenomeno altamente distorsivo delle economie di mercato porti a un inevitabile rigged market, un mercato manipolato dove gli unici a vincere sono i big boys che, attraverso il loro comprimario statale, riescono sempre e comunque a socializzare le perdite (sanitarie, sociali, relazionali, commerciali, persino industriali). Privatizzando i profitti.

A ben vedere, tralasciando aspetti tossicologici e limitandoci alle scelte di politica pubblica e di economia civile, il nesso tra azzardo legale e ipotesi di legalizzazione delle sostanze stupefacenti di cui si sta dibattendo in questi giorni è tutto qui: creare un mercato, aprirlo a eventuali concorrenti privati, scaricando sulla collettività i costi di quel mercato. Recenti studi dimostrano che il nesso legalizzazione -riduzione del consumo ergo diminuzione del business in mano alle mafie è falso.

«Se è legale non fa male» era il claim di uno spot pro-azzardo dei Monopoli di Stato. Sono passati alcuni anni, ma il bias istituzionale e concettuale è sempre quello.

La spesa in azzardo degli italiani nel 2020
Fonte: ADM

Il resto – «se non legalizziamo lasciamo mano libera alla criminalità» – è retorica per anime belle. Non si tratta, infatti, di porre il dilemma fallace tra “proibizionismo” e “antiproibizionismo”. Si tratta di comprendere, fuori e lontano da ogni ingenuità, di che cosa parliamo quando parliamo di rigged markets, mercati manipolati. E di che cosa parliamo, dunque, quando parliamo di mercati manipolati? Parliamo di offerte che inducono e creano la loro domanda, ampliando la platea di consumatori con prodotti ad alto potenziale di addiction.

Dal lato industriale, parliamo sostanzialmente di oligopoli: pochi, grossi gruppi per lo più finanziari che operano in concessione, ma sono in grado di dettare al concessionario (lo Stato) le loro regole. Tutto qua.

 

I dati 2020 del rigged market dell’azzardo legale italiano

Vediamo allora i dati del mercato legale dell’azzardo in Italia relativi al 2020, ricordando che dietro questi dati ci sono vite sconvolte, relazioni segnate da debiti, malattia, usura. Milioni di persone: quante non sappiamo, l’Italia al netto di farsesche ricerche di sentiment non ha mai realizzato una seria indagine epidemiologica sul fenomeno, restando indietro rispetto agli altri Stati europei.

Quanto incassa l’Erario dalla spesa in azzardo
Fonte: ADM

Resi pubblici la settimana scorsa dall’Agenzia Dogane e Monopoli (ADM), l’ente di scopo del Ministero dell’Economia che presiede al controllo del settore, i dati sul consumo di azzardo segnano una parziale discesa dopo anni di incremento costante: – 33% complessivo sul consumo/spesa (che l’ADM è tornata a chiamare “raccolta”) in azzardo.

In particolare, per le “macchinette (slot machine da bar e da sala giochi), il decremento nella spesa è stato del 47,20%. La spesa complessiva degli italiani è stata di 88,38 miliardi di euro (venti in meno rispetto al pre-Covid). Lo Stato, in tutto questo, incassa 7,2 miliardi.

 

Le leggi regionali no slot funzionano, lo ammette lo Stato!

Va detto, come si legge nel report dell’ADM, il cosiddetto “Libro Blu” (che alleghiamo in calce all’articolo), che la riduzione del 47,20% rispetto al 2019, non corrisponde a un calo del gettito proporzionale, visto che «il gettito erariale derivante dal gioco fisico è diminuito del 39,05% fra il 2019 e il 2020, a testimonianza da un lato di una fiscalità che incide di più sul gioco fisico piuttosto che su quello on-line e, dall’altro, dell’aumento generale della pressione fiscale sul settore».

A livello regionale, inoltre, i dati dimostrano che, al di là dell’emergenza Covid e del lockdown, già dal 2019 si era registrata una flessione del dato relativo alla spesa in azzardo in alcune Regioni (su tutte Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige, Calabria, Emilia-Romagna, Marche e Lazio). Riduzione dovuta, da un lato, alla presenza di leggi regionali e regolamenti comunali più restrittivi e a tutela della salute (anziché del business) e – ammettono onestamente dall’Agenzia – «all’entrata in vigore delle regolamentazioni comunali in materia di orari di apertura dei punti gioco», dall’altro dalla conseguente riduzione del numero di macchinette presenti sul territorio.

Gli stessi regolamenti e le stesse leggi che, oggi, sono sottoposte a un duro attacco. Perché in un rigged market la legalità fa comodo, solo a patto che il controllato detti le regole al controllore.

 

PS. Una piccola nota. A margine della presentazione del Libro Blu, alla presenza dei Ministri Luigi Di Maio, Roberto Speranza e Giuseppe Guerini e del moderatore Fabio Fazio, si è ricordata l’iniziativa “Disegniamo la fortuna”: l’iniziativa pensata per «coinvolgere il Terzo Settore» che già avevamo segnalato nella sua ambiguità. Si tratta di una call «per disegnare il biglietto della lotteria italia 2021». Una call rivolta ad «artisti disabili».

La commissione artistica chiamata a giudicare tra i 150 bozzetti arrivati, presieduta da Gianni Letta, è composta da Renzo Arbore, Claudio Baglioni, Stefano Boeri, Milly Carlucci, Cristiana Collu, Pierfrancesco Favino, Gianluca Lioni e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo pare abbia scelto il bozzetto vincente. A perdere, però, sarà ancora una volta la povera gente.

Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato
25-28 novembre 2021, Teatro Alighieri

In occasione di Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato, in apertura de La Stagione dei Teatri 2021/2022, riportiamo qui di seguito l’articolo “Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato.” di Marco Sciotto, pubblicato in Arabeschi n. 17, gennaio-giugno 2021.

Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato

Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

A interrompere, tuttavia, l’elaborazione del progetto – meglio, a non permetterne neppure un vero e proprio avvio – lo scoppio dell’emergenza sanitaria e i conseguenti due mesi di confinamento a cavallo tra l’inverno e la primavera del 2020. Mesi nei quali l’abbandono dell’idea iniziale non frena il desiderio di tenere in vita e in attività, seppure a distanza, quel gruppo di lavoro su un progetto differente ma che mantenga le medesime premesse e aspirazioni.

È così che, abbandonato il Traumtexte di Müller, Marco Martinelli dà vita, in pochi giorni, al testo di Madre. Drammaturgia in versi liberi, poemetto scenico a due voci, dittico vertiginoso per due figure che, più che ingaggiare un dialogo, sembrano muoversi su due soliloqui che sanciscono un colloquio impossibile. Da un lato, un figlio che, in affanno e attraversando di corsa i campi, arriva al bordo di un pozzo nel quale pare sia caduta sua madre; dall’altro la madre, appunto, finita laggiù in fondo al pozzo dal quale non riesce più a venir fuori. Il primo rinchiuso ben presto nella ricerca di pretesti e alibi per differire una reale assunzione di responsabilità e ogni intervento di soccorso in prima persona; la seconda isolata nella sua condizione apparentemente irrimediabile, a interrogarsi sulle reali cause di essa, a rammaricarsi per la connaturata noncuranza del figlio che sconfina nella colpevolezza, a raccontare misteriose leggende a lui che sembra precipitato a sua volta nell’assenza e, infine, a implorarlo invano di scendere a salvarla senza ulteriori pretesti o esitazioni. Una mancanza di relazione effettiva tra le due voci che permette tuttavia, a esse e alle figure da cui scaturiscono, di moltiplicare le loro stesse possibilità di senso e di direzione, senza restare imbrigliate nell’univocità data da un reale contatto e dalla trama che ne scaturirebbe. Proprio come l’assenza di dettagli specifici o dei nomi delle due figure, che appaiono solo come ‘figlio’ e ‘madre’.

Un testo che sembra quasi il sogno del sogno di Müller. Così come i volti, i ruoli, i luoghi e gli eventi della vita vissuta vengono nei sogni confusi e ribaltati, allo stesso modo sembra che Traumtexte abbia a sua volta attraversato uno stravolgimento onirico che ha generato Madre. Stravolgimento nel quale la cisterna si deforma e si dilata nelle profondità di un pozzo, il rapporto tra padre e figlia si torce in quello tra una madre e un figlio e nel quale, soprattutto, s’è già realizzata e conclusa la scissione, la separazione che tanto angosciava l’uomo di Traumtexte: quella ferita della perdita, dell’abbandono e dell’assenza forse irreversibile, il cui timore segnava ogni suo passo sul bordo della cisterna.

Se, come scriveva Clarice Lispector, «scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»,[1] Martinelli sembra aver gettato Müller nel pozzo profondo della propria scrittura, generando uno smottamento di piani, uno slittamento dal sogno al trauma, potremmo dire. Due termini – ‘trauma’ e ‘sogno’ – che la lingua tedesca lega, d’altronde, in un’etimologia comune[2] che, provenendo dall’idea del perforare e insieme del ‘passare al di là’, pare chiamare in causa, in un certo senso, anche il pozzo stesso, nel suo essere un passaggio a un altrove attraverso un abissale perforamento. Come Martinelli fa dire al figlio in questa sua ultima opera:

«Che un pozzo come questo
non è mica un pozzo normale
cosa credi?
Non ce n’è uno così sfondo
in tutta la pianura!
Dicono che arriva così giù
ma così giù
chilometri e chilometri
che a un certo punto dall’altra parte
si vedono le montagne!»[3]

Una parentela, quella del trauma di Madre con il sogno di Traumtexte, che si mostra già, ancor prima che sulla scena, sul manifesto realizzato da Stefano Ricci per lo spettacolo che, dopo un lavoro di ricerca condotto dapprima a distanza e poi in residenza al Teatro Rasi di Ravenna, ha debuttato, nell’ottobre 2020, nell’ambito del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Premessa visiva, questo manifesto, che, come un ponte tra il testo di Martinelli e l’opera che ne è scaturita, accompagna gli spettatori fin dentro quel pozzo senza fondo in cui ‘madre’ e ‘dream’ perdono i confini che li separano, al punto da poter essere una cosa sola. Un buco nero in cui tutto sprofonda e tutto emerge e nel quale sembrano fondersi insieme l’abbandono del mondo intero e dell’affetto più intimo, della Madre come della madre, l’infanzia del mondo e la sua apocalisse, nell’indecidibilità di un enigma pronto a moltiplicarsi all’infinito sulla scena.

Locandina realizzata da Stefano Ricci per il debutto di Madre

 

2. Tornare alla creazione dopo l’abisso: Madre sulla scena, tra sguardo e ascolto

Lo spazio della scena è accessibile allo sguardo dello spettatore già al suo ingresso ma, illuminato solo di riflesso dalle luci di sala, è come disattivato, disinnescato. In quella penombra, tuttavia, si intravede già come spazio sezionato e ripartito in una moltiplicazione di elementi circolari di dimensioni, fatture e disposizioni differenti. Come avesse fatto posto al disseminarsi di tanti possibili pozzi diversi o dell’idea stessa di pozzo osservata, come in una sorta di proiezione ortogonale, da più punti di vista, su differenti piani. Un’invasione della scena attraverso la quale il pozzo stesso si sottrae a un ruolo meramente scenografico e, scomponendosi e ridistribuendosi, si configura già, piuttosto, come funzione che condizionerà l’intera opera.

Come presi nella forza d’attrazione di questa moltiplicazione di pozzi, le tre figure fanno il loro ingresso una dopo l’altra, trovando ognuna la porzione di scena che sarà la propria per l’intera performance. A ciascuna il proprio differente pozzo, legato al ruolo che deterrà all’interno dell’opera. Così come la pedana rotonda nella sezione sinistra della scena, sulla quale, a leggio, prende posto Ermanna Montanari e che sosterrà l’avvento e il prodursi della parola; o come il grande disco che, in verticale, riempie il centro dello spazio, sotto cui si colloca Stefano Ricci e sulla cui superficie prenderanno vita le proiezioni dei suoi disegni; ancora, come la struttura circolare sulla destra del palco, al centro della quale, come in un ideale golfo mistico, si dispone Daniele Roccato e sulla quale sono installati i monitor e la strumentazione elettronica che farà tutt’uno con il suo contrabbasso.

Differenti configurazioni di pozzi cui corrispondono, al contempo, differenti disposizioni del corpo umano, punti di vista diversi sul corpo scenico dipendenti dalle rispettive posture delle tre figure: Montanari in piedi, in ginocchio Ricci e seduto Roccato. Quasi fossero un unico corpo colto, come in una sequenza fotografica di Muybridge, in tre istanti consecutivi del suo cader giù verso l’abisso del pozzo stesso. Ed è questo precipitare cristallizzato ad attivare finalmente la scena, avvio sancito dal sopraggiungere del buio, quell’oscurità nella quale sembriamo condividere la sorte di questa madre finita nelle profondità più remote e dalla quale riemergere. Una madre che pare incarnare l’idea stessa della creazione, del dare la vita, e la cui sparizione ci getta da subito in un avvio nel segno della generazione o, meglio, della sua messa in discussione, del suo radicale ripensamento. Come se la necessità fosse quella di ripartire, attraverso la scena, dal grado zero della generazione stessa. La parola, il suono, il visibile, tutto il reale che essi incarnano, sembrano da ripensare e rifondare come non fossero mai esistiti. E la scena pare essere il luogo di una loro nuova possibile genesi.

Scriveva Max Kommerell che il gesto racchiude l’indicibile della parola.[4] E così in principio, in questo nuovo principio, non è più il verbo ma, appunto, la sua impossibilità che si converte in gesto. A solcare il buio è infatti il gesto di Stefano Ricci, la sua mano che traccia lenta una linea di gesso bianco sul nero del disco di cartoncino sistemato davanti a lui, sulle assi del palcoscenico. Linea bianca che, ingigantita e proiettata sull’altro disco sospeso in verticale sopra la sua testa, sarà la fenditura originaria da cui poco a poco si genererà il mondo stratificato della scena teatrale. Gesto sonoro, innanzitutto: l’attrito del gesso sul cartoncino è il primo suono percepibile nell’invisibilità di questo universo in formazione. Un suono quasi inavvertibile che si fa subito immagine, la quale, a sua volta, solleciterà il generarsi degli altri suoni che invaderanno progressivamente la scena. A partire da quelli del contrabbasso di Roccato, nella loro nudità e insieme nel loro plasmarsi attraverso i dispositivi elettronici che li rielaborano, in accordo con la preziosa e sapiente regia del suono di Marco Olivieri.

Mentre i gesti di Ricci si fanno via via più concitati e delineano forme sempre più riconoscibili, i suoni di Roccato crescono, facendosi consistenti e impetuosi. Il generarsi dell’immagine dal gesto originario e sonoro ha permesso lo scaturire dei suoni che, a loro volta, creeranno la parola. Una lingua che adesso, quasi impercettibilmente, sentiamo formarsi gradualmente all’ascolto.

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Fotografia di Enrico Fedrigoli

La voce di Ermanna Montanari pare faticare a levarsi, come nascesse per la prima volta e con essa il linguaggio stesso. Come scrive Agamben, commentando proprio Kommerell, «il gesto è sempre gesto di non raccapezzarsi nella parola»,[5] ed è questo arrancare della voce incapace ancora di dire, questo suo farsi gesto che la fa sbuffare, gorgogliare, che la stira e la raschia, che udiamo inizialmente. Una lunga introduzione nella quale ogni forma – quella visiva, quella sonora e quella linguistica – combatte e ribolle per emergere e affermarsi, in conseguenza del trauma della caduta che ha azzerato la creazione stessa. Ed è il figlio, ossia l’idea stessa di ciò che è creato, a costituirsi pian piano attraverso la scena: la madre è perduta in fondo al pozzo e sta allora alla scena, ai suoi tre creatori-performer, dare a lui una nuova nascita. Ricci ne immagina in modo sempre più dettagliato il profilo in corsa attraverso i campi, Roccato ne inventa il tessuto sonoro in cui è immerso nella sua corsa e Montanari ne scopre la voce che in quella corsa impreca, geme, protesta, si lagna.

È solo a seguito di questo riconfigurarsi del reale attraverso un suo inabissamento nel pozzo più profondo e di una nuova, differente nascita, che sembra si possa tornare ad accostarsi al mondo, modificando sguardo e prospettiva. Soltanto dopo questo sforzo penoso e sfiancante, sembra dirci Madre già nel suo incipit, si può prendere parola e ricominciare a vedere e ascoltare come fosse la prima volta. Ed è proprio ‘madre’ la prima parola riconoscibile che sentiamo soffiare tra le labbra di Montanari. La parola che racchiude in sé l’opera e questa nuova dimensione della nascita attraverso la scena. Un sibilo che è insieme il grido che apre il poemetto di Martinelli.

Lungo tutta la prima sezione del dittico, Ermanna Montanari inventa questo figlio in voce. Una voce che non tenta di rappresentarlo come personaggio, ma che intercetta e gli offre le sonorità necessarie all’articolazione dei versi di Martinelli, che sono qui un groviglio di timore, smarrimento, stoltezza e ansia di deresponsabilizzarsi. Così, nelle pieghe di timbri che ne fanno risuonare tutta l’ottusità e la grettezza, lo ascoltiamo innanzitutto rimproverare la madre per quell’incidente, per non essere rimasta a casa a guardare la TV come avrebbe dovuto fare alla sua età, per essersi affacciata e sporta troppo di là dal bordo. «Madre! / Cosa ci sarà mai da vedere / laggiù in fondo?»,[6] domanda, ma, attraverso le sue stesse parole, apprendiamo la risposta di lei, che sembra chiarire fin da subito come il pozzo non sia riconducibile tanto alla possibilità del vedere, allo sguardo, che infatti è abolito per tramite dell’oscurità che lo riempie, quanto a una dimensione legata all’udito, al solo ascolto: «Cosa? / Non ti sento / parla più forte! / Non ti sento / cosa stai dicendo? / Che era buio? / Cosa c’entra che era buio? / Hai sentito delle voci?».[7] Risposta subito derisa dal figlio stesso che, appunto, alla sfera dell’ascolto pare del tutto estraneo, come emerge anche dalla sua reiterata ammissione di non riuscire a sentire la voce della madre da quel fondo.

Accecare il creato per ripensarlo e rigenerarlo significherebbe, insomma, riaccostarsi a esso in attento ascolto e non in semplice osservazione distaccata. È per questo che tutto Madre non si mette in scena, ma in voce e suono. La rappresentazione, la sua osservabilità attraverso la distanza tra il palco e la sala, è abolita e riconvertita nell’intimità senza mediazione della sua udibilità, del suono che si genera già nella prossimità – che l’amplificazione favorisce – tra fonte e orecchio.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Questo contrasto apparentemente insanabile tra la vista e l’udito, tra sguardo e ascolto, tra i limiti del primo e le possibilità del secondo, sembra davvero rappresentare l’essenza centrale di Madre e custodirne i tanti enigmi, nella loro insolubilità. A partire dalla figura stessa di Ermanna Montanari e dalla sua presenza in scena che esige, qui, una ritrattazione di ciò che vediamo – ossia le sue fattezze femminili – per accordare fiducia a ciò che udiamo, al suo divenire, in voce, la figura maschile del figlio. Ma l’enigma, appunto, non si esaurisce qui. È solo un’attrice che interpreta un ragazzo, quella che vediamo e udiamo? O, piuttosto, è già la madre nel suo definitivo abbandono in fondo al pozzo, che si finge la speranza della presenza d’un figlio che possa salvarla? È davvero una sequenza di ruoli differenti a comporre il dittico di Martinelli o è piuttosto un’unica figura attraversata da alterazioni e mutazioni che concretizzano questo disperato intreccio di generazione, abbandono e distruzione? E, ancora, cosa vediamo attraverso l’ininterrotto fluire delle immagini in costruzione di Stefano Ricci e cosa ascoltiamo nei suoni di Daniele Roccato, nel loro nascere dal silenzio e risprofondare in esso non appena si sono generati?

Questioni che, in quanto enigmi, appunto, non ammettono risposte univoche o definitive soluzioni, ma che proprio nella loro inestricabilità e multiformità compongono l’opera e la sua tensione irrisolta tra creazione e creato, tra chi genera e chi distrugge ciò che l’ha generato. Tensione che si riverbera, appunto, in quella tra visibile e udibile, tra sguardo e ascolto. Tra ‘immaginario’ e ‘acustinario’, potremmo dire, ricorrendo a una distinzione fondamentale proposta da Roberto Barbanti in un volume di recente pubblicazione,[8] che con Madre sembra trovare sorprendenti punti di contatto e congiunzione. Se, scrive Barbanti, «l’immaginario occidentale, ormai in un certo qual modo propagatosi a livello planetario, si è costruito in un processo […] nel quale le diverse modalità del relazionarsi alla realtà […] sono state progressivamente plasmate dall’universo visivo, strutturandosi attorno ad esso»,[9] si pone in modo sempre più stringente la necessità di «attivare e favorire un processo di rinnovamento dell’immaginario che integrando e superando questa dinamica retinica monodimensionale possa “ri-conoscersi” nel mondo differentemente».[10] Un processo che ricorra dunque a una polisensorialità o, meglio, polifonicità. Un ribaltamento di paradigma dall’osservazione distaccata e riduttiva dell’‘immaginario’ a una sua ‘decolonizzazione’ attraverso l’immersione relazionale e irriducibilmente complessa dell’‘acustinario’, seguendo il termine coniato da Barbanti stesso già negli anni Ottanta.

E nell’Occidente che «ha fondamentalmente osservato il mondo distaccandosene progressivamente»[11] descritto da Barbanti, pare proprio di ritrovare quel figlio che, relegato a una dimensione fondamentalmente retinica, visiva, cerca invano di scorgere la madre nel buio del pozzo, incapace di sentirla e di porsi in suo ascolto. Quel figlio che, sordo a ogni empatia e capacità di assumersi le proprie responsabilità, finge di cercare una soluzione per tirarla fuori da laggiù, salvo poi trovare una scusa buona per non voler coinvolgere chiunque gli venga in mente – i polacchi, gli albanesi, le donne nei campi.

Una deresponsabilizzazione che sfocia, poi, in un lungo, pretestuoso elenco di strumenti, congegni e dispositivi tecnici all’avanguardia che dovrebbero costituire la task force che gli permetterebbe di salvarla da solo, senza ricorrere all’ausilio di nessuno. Ulteriore presa di distanza che delega alla sola tecnosfera un ormai impossibile rapporto diretto con la biosfera e che si farà finalmente definitiva grazie alla minaccia di un imminente, violento temporale che offrirà al figlio l’alibi per fuggire via, pur promettendo di ritornare una volta trovato aiuto.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Un pozzo che ruota su se stesso facendosi forse portale tra mondi differenti, passaggio tra identità inconciliabili: precipitandovi dentro, Montanari dissiperà definitivamente la figura del figlio, per riemergerne poi attraverso quella della madre, alla quale è affidato il resto dello spettacolo. Una madre che avanza lenta, quasi in trance a prendere il proprio posto sulla sua pedana-pozzo. Una figura incorniciata da una lunga parrucca bianca che pare rinnovare e moltiplicare gli enigmi della vista: è il figlio con in dosso una parrucca che sprofonda nell’illusione di una possibile sopravvivenza di ciò che non è sopravvissuto? È allora forse solo il figlio l’unica presenza a fingersi tutte le altre?

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Anche qui, una risposta è impossibile e questo infittirsi della dimensione enigmatica di Madre ci inabissa nel flusso di versi affidati alla voce di lei e alla sua dimensione sempre più rarefatta. Quasi dovessimo – noi tutti prendendo il posto del figlio che non ne è stato in grado – affinare l’udito, raggiungerla nei suoi sussurri, nei suoi microscopici o evidenti cambi di tono o di timbro, in un regime della voce che pare davvero sorgere già nella ricezione più profonda e recondita dell’udito, farsi orecchio ancor prima che bocca.

La madre è tutta ascolto. È la dimensione acustinaria infinitamente stratificata del mondo che sfida quella ristretta e circoscritta dell’immaginario, tornando a Barbanti. Lo percepiamo innanzitutto nel suo ossessivo domandare al figlio, che è già andato via, se la sente, se riesce a udirla. Una richiesta reiterata nella totale assenza di speranza, formulata com’è senza il minimo sollevarsi di volume, quasi rivolta a se stessa e alla propria consapevolezza dell’impossibilità d’una risposta. Così come senza risposta è lo scorrere delle ipotesi da lei formulate sulle possibili cause della sua caduta, arrivando a supporre che possa essere stato addirittura il figlio stesso a spingerla, magari per la distrazione e la fretta che lo contraddistinguono: quel suo veder solo se stesso che gli impedisce di ascoltare tanto gli altri quanto le cose che gli stanno intorno. Come le calle che lei tanto ama e che lui finisce, noncurante, per calpestare ogni volta che entra nel suo orto, o come gli alberi e le piante d’ogni genere e famiglia che estirpa e abbatte senza riconoscerne il valore e l’inestimabilità e senza comprendere la gravità di simili azioni.

Le ipotesi e le recriminazioni lasciano improvvisamente il posto, però, nelle parole della madre, a un misterioso, enigmatico racconto. Una sorta di fiaba, di leggenda che richiama il Borges di Animali degli specchi[12] e che narra di un tempo in cui ogni specchio era una sorta di passaggio tra un mondo e un altro. Mondi che si scontrarono in una guerra della quale si sarebbero perse origine e ragioni e che si concluse con la prigionia degli individui di là dagli specchi e con la condanna, per loro, a ripetere per sempre, come schiavi, azioni e forme del mondo di qua. Una fiaba raccontata a nessuno, a un’assenza, a un figlio che non c’è più, un farsi suono senza destinatario. Suono che svela qualcosa su questo attraversamento di identità per tramite del pozzo-portale alle spalle di Montanari. Quello specchio che sfida dunque la dimensione meramente mimetica e rappresentazionale – speculare appunto – del teatro, per recuperarne una originaria, nella quale la scena torni a essere un campo nel quale ciò che è lì evocato possa combattere ancora la propria battaglia contro il reale e l’ordine delle cose e non limitarsi a imitarlo assoggettandosi a esso.

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Fotografia di Enrico Fedrigoli

E questo momento di Madre, tanto ermetico quanto essenziale nell’intero schema dell’opera, è anche l’unico nel quale Stefano Ricci sospende la propria incessante attività, smette temporaneamente di disegnare per fissare Montanari, rimanendo lì in ginocchio proprio come un bambino, un figlio, che abbandoni i propri giochi per ascoltare una verità, una rivelazione vitale. Perché è uno svelamento, questo, che chiama in causa un equivalente doppio regime possibile dell’immagine, una sua dimensione differente, anch’essa originaria e seminale, svincolata dalla mera rappresentazione. Uno svelamento che evoca la natura stessa dello scontro tra immaginario e acustinario, condotto qui in seno all’immagine stessa.

«VEDERE SIGNIFICA UCCIDERE LE IMMAGINI»,[13] scriveva Heiner Müller in uno dei commenti innestati lungo la drammaturgia del suo Anatomia Tito Fall of Rome. L’occhio rappresenterebbe infatti l’organo imperialistico dell’autorità, spiegherà più giù.[14] E proprio questo strapotere dello sguardo, rimarcato tanto da Müller quanto da Barbanti, pare essere messo radicalmente in crisi, sulla scena di Madre, anche e soprattutto dall’intervento di Ricci. Malgrado alla sua arte sia affidata la dimensione visuale dell’opera, che riempie gran parte dello spazio scenico, il suo procedere sembra muoversi proprio nella direzione di una decostruzione del potere dell’occhio, nel regno stesso dell’immagine. I suoi disegni – che si susseguono ininterrottamente –, piuttosto che ricondurre, addomesticandola, la dimensione uditiva dell’opera a quella visiva, paiono operare all’opposto: contaminando l’immagine e la sua aspirazione alla stabilità della forma con la natura stratificata e multiforme del suono impossibile da fissare in una fisionomia finita e invariabile.

Ciò che di questi disegni vediamo, infatti, è solo il loro farsi, il loro prodursi alla vista, un processo di generazione che si ripete senza sosta, non appena un’immagine, che apparirebbe compiuta, viene gettata da Ricci nel pozzo nero dal quale era sorta, senza che si abbia il tempo di osservarla e dominarla con lo sguardo. Esattamente come avviene per le parole e per i suoni, il cui nascere e svanire coincidono in un fluire incessante.

Fotografia di Enrico Fedrigoli

Forme soltanto nascenti e mai costituite davvero, in un bianco su nero che pare richiamare i negativi fotografici, il loro essere la promessa di un’immagine ancora di là da venire. Ricci uccide l’immagine prima che possa farlo l’occhio appropriandosi di essa e, in questo modo, mina il paradigma retinico in modo ancor più radicale, facendolo nell’ambito che gli è proprio. Pare volerci far vedere, per l’intera opera, proprio quest’impossibilità di vedere; voler ribadire sempre e soltanto l’illusorietà di ogni inalterabile acquisizione dell’occhio e dello sguardo, dentro e fuori l’opera. D’altronde, è importante sottolineare, contro ogni riduzione semplicistica, che in Barbanti stesso l’opporsi dell’acustinario all’immaginario non equivale ad «affermare una priorità dell’orecchio sull’occhio», bensì, in un «modello […] inclusivo e non selettivo […] indurre fattualmente la trasformazione del modello dominante».[15] Una trasformazione, quella dell’assetto visivo di Madre attraverso il suo corrispettivo sonoro, che permette una funzione antillustrativa dell’immagine, che appare ancor più evidente nei passaggi in cui essa non nasce a partire dalle parole di Ermanna Montanari ma, al contrario, le anticipa, le previene. Momenti nei quali sembra generarsi una sorta di cortocircuito, uno sfasamento in cui il visivo si svela come già pervaso della multisensorialità del sonoro, come sua parte integrante, come una delle sue possibili ‘sfere d’ascolto’ che soppiantano l’idea dei ‘punti di vista’.[16]

Fino al finale dell’opera, in cui ‘sfera d’ascolto’ è proprio ciò che la madre auspica per il figlio, unica possibilità perché possa davvero raggiungerla e salvarla. Sporcandosi le mani in prima persona, senza ulteriori aiuti, senza alibi o scuse, affrontando le proprie responsabilità, che gli si presenterebbero se solo si mettesse davvero in ascolto, appunto:

«aprile bene le orecchie
in ascolto del più piccolo rumore
di ogni fremito di vento!
Nel pozzo sentirai
la voce del giuggiolo
e quella dell’acacia
la voce del noce e del melograno
e sentirai anche le grida dei boschi
di tutte le foreste che hai segato
di tutti i fiumi che hai avvelenato
oh sì
dovrai ascoltarli tutti quei lamenti
se no qua giù
in fondo
non ci arrivi!»[17]

Ugualmente sonora è la ‘bisciolina’ che con lei vive quel fondo oscuro e che ormai le è entrata dentro, come un male che scava e dal quale non potrà mai liberarsi davvero. La madre, infatti, dopo l’invocazione al figlio che pare perdersi nel vuoto, nel silenzio dell’ormai definitiva assenza di lui, si abbandona all’ascolto di quella, che canta e «dice delle cose»,[18] che guida ormai i suoi movimenti, la dirige attraverso un suono al quale lei si abbandona con una sorta di rassegnata disperazione. La stessa con la quale, incalzata dal «ziraaaa / ziraaaa… / ziraaaa…»[19] che le ingiunge la bisciolina, abbandona per la prima volta la propria immobilità dietro al leggio per lasciarsi andare a una lenta danza con la quale, roteando, guadagna il centro della scena. Uno spezzarsi della fissità e una perdita delle parole che coincidono con il dissolversi finale dell’opera, con la conclusione di Madre.

A rimanere da questa parte, però, in quel reale da modificare e da mettere in crisi così come Madre intendeva fare già nella sua vocazione originaria, è una piccola traccia tangibile, un’orma. Un quadernetto che richiama quelli di scuola di molti anni fa. Nessun ordinario libretto di sala per Madre: Stefano Ricci ha dato vita a quello che pare essere piuttosto un oggetto di scena rimasto impigliato tra le maglie del mondo reale al dissolversi di quello della finzione artistica.

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Copertina e pagine tratte dal quaderno realizzato da Stefano Ricci per Madre

Un quaderno interamente nero come il pozzo che si è chiuso alle nostre spalle ma che pare quasi schiudersi nuovamente ogni volta che ne sfogliamo le pagine sulle quali, tracciati con i medesimi gessetti bianchi, tanto i disegni di Ricci quanto le parole di Martinelli rinnovano le stratificazioni e gli enigmi che Madre ha generato. Anzi, li moltiplicano ancora. Le domande e le possibilità si disseminano: chi ha perso quel quadernetto? Di chi è la grafia che, come fossero appunti o memorie, ha tracciato quei versi bianco su nero? Della madre, come un racconto scritto per il figlio come monito o promemoria? Del figlio, come ricordo o esorcismo attraverso la scrittura delle proprie responsabilità? Un oggetto che sopravvive non come testimonianza e documentazione di uno spettacolo, ma come un frammento di esso, come un segno del suo essere tutto finto e insieme tutto assolutamente reale. Come un passaggio di testimone che, finito adesso nelle nostre mani, ci forza a non eludere quel manifestarsi delle immagini in suono, delle parole in ascolto, quello straziante «T’am sent?»,[20] il ‘Mi senti?’ al quale dare risposta, prima che sia troppo tardi.

Note
[1] C. Lispector, Un soffio di vita (pulsazioni) [1978], trad. it. di R. Francavilla, Milano, Adelphi, 2019, p. 18.
[2] In tedesco, infatti, i due rispettivi termini sono ‘Trauma’ e ‘Traum’.
[3] M. Martinelli, Madre, Ravenna, Ravenna Teatro, 2020, p. 6.
[4] Cfr. M. Kommerell, Il poeta e l’indicibile, Macerata, Giometti&Antonello, 2020.
[5] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 237.
[6] M. Martinelli, Madre, p. 2.
[7] Ivi, pp. 2-3.
[8] Cfr. R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario. Prolegomeni a un’ecosofia sonora, Giulianova (TE), Galaad Edizioni, 2020.
[9] Ivi, p. 21.
[10] Ivi, p. 23.
[11] Ivi, p. 93.
[12] Cfr. J.L. Borges, M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica [1957], trad. it. di F. Lucentini, Torino, Einaudi, 1979, pp. 19-20.
[13] H. Müller, Anatomia Tito Fall of Rome. Un commento shakespeariano [2002], trad. it. di F. Fiorentino, Roma, L’orma editore, 2017, p. 70.
[14] Cfr. Ivi, p. 145.
[15] R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario, pp. 97-98.
[16] Cfr. ivi, p. 86.
[17] M. Martinelli, Madre, p. 17.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 19.

Vladimir Majakovskij: il caso è aperto

note di regia, materiali e appunti di Gianni Farina sul “caso Majakovskij”

Raccontare gli ultimi giorni di Vladimir Majakovskij significa raccontare la fine di una generazione straordinaria, la rapidissima parabola di un manipolo di ragazzi che si riunirono sotto il vessillo della Rivoluzione d’Ottobre, trasformarono radicalmente il modo di concepire le rispettive discipline e, soffocati dalla deriva autoritaria della loro utopia, terminarono con violenza la produzione artistica o la vita stessa.

Majakovskij fu il massimo esponente di quella generazione, il primo della classe, il più in vista, il poeta più amato, idolatrato, invidiato, deriso. Negli ultimi due anni della sua breve esistenza disseminò poemi e commedie con rimandi al viaggio nel tempo. Decise di rivolgersi direttamente ed esplicitamente ai posteri, escludendo i propri contemporanei, come se volesse ignorare il presente per inviare messaggi, preghiere e moniti agli “uomini del futuro”. La resurrezione – un altro modo di viaggiare nel tempo, a ben guardare – divenne un tema ricorrente. Perché? A nostro avviso Majakovskij stava già rinunciando a vivere nel suo mondo e nel suo tempo, stava demandando la propria felicità a un mondo a venire, un mondo popolato da uomini e donne fosforescenti.

Nel poema Di questo Majakovskij descrive il “Laboratorio delle resurrezioni umane”, nebuloso edificio abitato da un “chimico del XXX secolo”, in grado di resuscitarlo. Questo passaggio è meravigliosamente restituito da Carmelo Bene.

La trasformazione alchemica – dalla carta del libro alle tavole del palco – ci ha condotti all’ideazione di un giallo fantastico che adotta alcuni stilemi di Mejerchol’d e che utilizza la ripetizione e il time-shift per restituire le molteplici prospettive che ricalcano le testimonianze legate al mistero della morte di Majakovskij. La sua produzione poetica si intrecciò alla biografia al punto che è impossibile confrontarsi con uno solo dei due aspetti; cercare dimettere ordine agli ultimi frenetici giorni del poeta significa inquinare le prove con altre dimensioni narrative, occorre rimodulare il linguaggio ogni volta che si incontra un nuovo punto di vista e occorre rapportarsi ogni volta in maniera diversa con la nostra giuria: il pubblico.
Majakovskij, Lili, Jansin, Nora e gli altri protagonisti di questa triste vicenda presero parte nel conflitto tutto teatrale tra le sperimentazioni di Mejerchol’d e le tecniche ormai consolidate del Teatro d’Arte; l’eredità di queste blasonate scuole si alterna nel nostro progetto come se Naturalismo e Biomeccanica fossero due modi alternativi di concepire non solo l’arte drammatica ma la storia russa.È possibile osservare il cordoglio – non sempre genuino a mio avviso – di alcune figure chiave dello spettacolo nel video commemorativo che venne girato in occasione dei funerali di Majakovskij, il 17 Aprile 1930.
Il dispositivo scenico che alterna differenti linee narrative; un meccanismo che rimescola gli elementi del sistema per rimettere ogni volta in discussione la verità sfocata che muove l’indagine dell’autrice. Come è morto Majakovskij? Perché?

L’interrogatorio

In questo campo di azione vengono interrogati i principali testimoni: Veronika Polonskaja, attrice e musa erotica del poeta, che ebbe un alterco con il poeta pochi secondi prima del fatale colpo di pistola; Lili Brik, amica, amante e guida politica del protagonista, qui sotto immortalata dall’amico Rodchenko in una foto che ha fatto la storia.

Oltre alle due donne, i vicini di casa e altre persone vengono chiamati a testimoniare, ribaltando ogni volta la versione dei fatti. Tra pettegolezzi e complottismi si fanno largo alcune parole importanti, indelebili; sono i commenti di colleghi e amici che sinceramente stimarono il poeta. Artisti, registi, intellettuali e scrittori che ci offrono un ritratto crudo e sublime.

La stanza-barchetta

In questa linea narrativa, ambientata nello studio del poeta tra il 12 e il 14 aprile 1930, gli stessi attori (più Majakovskij) mettono ripetutamente in scena gli eventi salienti, cambiando ogni volta un dettaglio, una parola, uno sguardo, seguendo le molteplici ricostruzioni frutto dell’interrogatorio. A volte però si assiste a qualcosa che forse era sfuggito all’indagine…

Majakovskij chiamava il suo studio “stanza barchetta”. Qui si tolse la vita la mattina del 14 aprile 1930. Nel museo a lui dedicato, chiuso da quasi dieci anni per lavori in corso (sic!), è possibile vedere la stanza-barchetta, ferma nel tempo.

Il teatro

Pochi giorni prima del decesso, il poeta viene chiamato a leggere e commentare in pubblico alcune opere. Già profondamente segnato dalla crisi, Majakovskij si esibirà per l’ultima volta davanti a una platea particolarmente ostile. Cos’è successo? La sua voce, meno “piena” ora, non riesce a scalfire la sala; la sua tagliente ironia viene a mancare e non riesce a ribattere alle continue provocazioni e offese che provengono dagli spettatori. Qualcuno parla di congiura, non si capisce tanta malevolenza, le opere lette in quell’occasione sono tra le composizioni più belle della sua produzione.

Questa situazione viene replicata nel nostro tempo, nel nostro teatro e abbiamo modo di assistere alla lettura di alcuni capolavori che parlano di morte, resurrezione e viaggi nel tempo.
Per farsi un’idea della forza espressiva e della voce di Majakovskij è possibile consultare questa rara incisione degli anni ‘20, in cui il poeta legge il suo componimento giovanile Ascoltate!

I testimoni sono concordi nel lodare l’efficacia scenica di Majakovskij, che fu anche attore. La signorina e il teppista (Барышня и хулиган, 1918) è l’unico film che lo vede protagonista e che è giunto fino a noi in versione integrale. Bizzarramente non siamo di fronte a un soggetto del poeta-sceneggiatore; ha invece superato il crinale del secolo un’opera tratta da “La signorina e il teppista” di E. De Amicis, girato da Evgenij I. Slavinskij nel 1918.

Il bagno

Banja, la Commedia con fuochi d’artificio che ha debuttato un mese prima degli eventi narrati, segna una svolta nella vita del cantore della rivoluzione: “è un fiasco colossale” si dirà. Anche in questo caso circolano voci sul sabotaggio della critica, della RAPP, ma nulla è dato per scontato (e noi come Serena Vitale siamo allergici ai complottismi). Certo è che le figure stralunate dell’opera fantascientifica popolarono la mente del protagonista in quei giorni, portando apparizioni ora visibili anche a noi: la donna fosforescente, in particolare, capace di viaggiare nel tempo e condurre lo spettatore nel cuore della storia.

Banja fu scritto da Majakovskij nell’inverno tra il ‘29 il ‘30, e venne messo in scena dall’amico e sodale Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d.

E proprio la Donna Fosforescente, ultima sorprendente fantasia teatrale dell’autore sovietico, si emancipa nel nostro lavoro dal “dramma con circo e fuochi d’artificio” per guidare lo spettatore attraverso quell’intrico di prospettive e ricostruzioni raccolte da Serena Vitale.
La Donna Fosforescente ci chiede di osservare e ascoltare con attenzione qualche frammento di una vita speciale, la vita di un poeta che decise di proiettarsi nel futuro e chiedere asilo agli “spettabili discendenti”, ai “compagni posteri”.
Noi siamo quegli uomini del futuro, e siamo convinti che si debba prestare attenzione alle sue parole.
Qui sotto due foto dedicate alla meravigliosa Zinaida Reich, moglie del regista (morta assassinata come il marito dopo l’arresto da parte dell’OGPU) che interpretava la Donna Fosforescente.

Il presidente del globo terrestre, sezione musica

Sergej Prokof’ev e Dmitri Shostakovich furono i due musicisti più amati dal defunto. Il primo venne nominato “presidente del globo terrestre per la sezione musica” in una dedica, al secondo vennero affidate le musiche di scena per La cimice.

Il progetto sonoro che ho curato per lo spettacolo segue due linee che possiamo definire regole compositive.
Per prima cosa ho utilizzato (trasformandoli e riadattandoli) solo brani di compositori sovietici, dagli anni ‘30 fino all’89. Oltre ai due autori già citati, sono presenti in particolare Galina Ustvol’skaja e il più recente talento russo Sergey Kuryokhin, che amo moltissimo.
Oltre alla parte musicale, balza all’orecchio un paesaggio sonoro composto prevalentemente da intercettazioni militari sovietiche, il misterioso fenomeno chiamato UVB-67.

In Siberia e altrove sono state individuate enigmatiche stazioni radio che emettono un “buzz” regolare dagli anni ‘60 fino ai nostri giorni, e non se ne comprende bene la funzione. Per ulteriori approfondimenti rimando al paragrafo “i Segnali radio” di questo articolo pubblicato su Il post. Questo invece un link a una delle raccolte di questi suoni; io ho utilizzato principalmente “the buzzer”, “katok65”, “the pip”, e “the Squeaky wheel”.

Buon ascolto…

Il femminismo radicale di Oz

di Chiara Lagani
illustrazioni di Mara Cerri

Dorothy non è la sola eroina che abita a Oz. C’è anche Betsy Bobbin, la ragazzetta dell’Oklahoma, che sopra una zattera alla deriva sull’oceano, in compagnia di un mulo e priva d’ogni altra cosa, finanche della paura, vaga raminga per un mondo sconosciuto alla ricerca di un posto in cui stabilirsi. C’è Trot, la piccola californiana protetta dalle fate che, affamata di conoscenza, in groppa a un Elicano si schiererà a difesa dell’amore oltraggiato. Poi c’è Ozma, la saggia sovrana; Glinda, la maga-madre; le streghe, buone o cattive che siano, tutte potenti; eserciti di fanciulle; stuoli di principesse…
Insomma, un plotone di personaggi femminili agguerriti e meravigliosi, a paragone del quale i protagonisti maschili appaiono assai più fragili e manchevoli. Siamo dunque in presenza di un autore radicalmente femminista?  La questione è molto più complessa, quel che è certo è che i personaggi femminili sono spesso indimenticabili e sempre forieri di mille domande. Pubblichiamo qui due piccoli ritratti per approfondire due tra i tanti personaggi-donne che compaiono nel labirinto delle storie di OZ: Jinjur, la rivoluzionaria e Glinda, la grande Madre del Regno.

Jinjur e la Città delle Donne.

disegno di Mara Cerri

 

Non tutte le donne sono felici a Oz, il più felice possibile dei regni. Un nutrito manipolo di giovanissime, capeggiato da un’amazzone fanciulla, il Generale Jinjur, è molto insoddisfatto del governo del Re Spaventapasseri, nominato sovrano dal Mago alla fine del primo libro.
L’apparizione di Jinjur nel racconto è folgorante: una ragazzetta, seduta sul bordo della strada, magnificamente vestita con una «barbarica» uniforme colorata, intenta a consumare la sua colazione di uova sode e panini. La placida teoria rivoluzionaria che Jinjur espone a Tip, il ragazzetto protagonista di questa storia, è uno spiazzante andirivieni di luoghi comuni, femministi e maschilisti al contempo.
Il colpo d’occhio delle amazzoni, colorate e armate di ferri da calza infilati nelle acconciature e sedute sul prato del loro raduno di guerra come a uno stravagante pic-nic, è un’immagine davvero seducente. Quando Jinjur si arrampica sull’albero da cui terrà il suo discorso motivazionale, per un attimo potrebbe perfino riaccendere alla causa femminista il cuore del lettore:

Amiche, cittadine, ragazze! – disse. – Stiamo per accingerci alla Grande Ribellione contro gli uomini di Oz! Marceremo alla conquista della Città di Smeraldo per detronizzare il Re Spaventapasseri [… ] e prender potere sui nostri oppressori d’un tempo. – Urrà! – dissero quelle tra loro che avevano ascoltato.

Il buon Guardiano dei Cancelli del Regno accoglie da vero galantuomo le sgrammaticate invasore, che si presentano come “rivoltanti”, definizione alla quale l’ammirato custode, sensibile al fascino muliebre, non aderisce affatto. Quando poi le fanciulle brandiranno i loro ferri aguzzi intimandogli la resa, l’uomo le supplicherà sconsolato:

Tornate a casa dalla mamma, ragazze, mungete le mucche, fate il pane. Non sapete che è pericoloso conquistare una città?

Le ragazze naturalmente non lo ascoltano: assediano il Palazzo e conquistano indisturbate il Regno.
Il sentimento più notevole che le donne in rivolta suscitano negli uomini, subito dopo lo stupore, è la paura, anzi il terrore: i maschi temono quelle femmine scalmanate e fuggono a gambe levate per non doverle affrontare.
Ma, a guardar bene, la più “ferrea” di loro, Jinjur, è soltanto una bambina capricciosa che trascorre il tempo a mangiare caramelle e a scartare cioccolatini verdi, dondolandosi nell’amaca del suo giardino d’infanzia. In certo senso, sebbene insceni una specie di resistenza, è pronta fin dal principio a essere punita e a farsi rispedire dalla mamma. Non appena Glinda, la potente Maga, stabilirà che il momento è venuto, come una bimba che sa d’averla fatta grossa, se ne tornerà di buon grado dai genitori. Ritroveremo Jinjur solo alla fine del racconto: una ragazzina umile e dimessa, che di fiero conserva solo lo sguardo: tra la folla porge una tazza di latte a Ozma, Regina di Oz. Nel frattempo ha sposato un fattore e si occupa dell’azienda di famiglia. Ozma s’informa sul marito della ragazza: come mai non è con lei?

È a casa a curarsi un occhio nero, – rispose Jinjur tranquillamente. – Quello stupido insisteva a voler mungere la mucca rossa, mentre io volevo che mungesse quella bianca; ma la prossima volta ci penserà due volte, ne sono certa.

Il lupo perde il pelo ma non il vizio, sembra dirci Baum divertito, ma l’ironica, e in fondo amara, parabola femminista di Jinjur ci suggerisce anche un’altra possibilità. Il problema della piccola ribelle non era affatto quello d’esser donna, dopotutto anche Glinda, la Maga e Ozma, sovrana di Oz, sono donne e nessuno contesta il loro potere; la questione era ed è più semplicemente quella del buon governo, che ha a cuore gli altri, in opposizione al cattivo governo, che ha a cuore i vantaggi individuali. La ragione, cioè, che spinge Jinjur a voler essere regina poco ha a che fare con l’emancipazione e il femminismo, in fondo, ma è infantile, egoista e frivola. Ancor più, riguarda le due debolezze che a Oz in assoluto sono considerate un vizio capitale: l’egoismo e la vanità.

 

Glinda, la Grande Madre.

disegno di Mara Cerri

 

Alla fine del primo libro di Oz, che è anche quello più famoso, Dorothy, partito il Mago, non ha più alcuna speranza di ritrovare la via di casa. È a quel punto che interviene Glinda.

Glinda, la Maga buona, a Oz è la Buona Madre di tutti, declinazione possibile dell’archetipo della Grande Madre. Il Castello di Glinda, nella regione del Sud ha infatti struttura prevalentemente matriarcale. Viene descritto con dovizia di dettagli nella Principessa perduta di Oz. È di marmo e d’argento

e la Maga vi abita, attorniata da uno stuolo di splendide fanciulle, che vengono dalle quattro regioni della terra fatata e dalla magnifica Città di Smeraldo.

Alla fine del primo libro, dunque, quando Dorothy andrà a cercare Glinda, ultima speme, troverà ad attenderla, di fronte al castello, tre «ragazze, vestite con bellissime uniformi rosse ricamate d’oro» che l’annunciano alla loro signora e la preparano ritualmente al sacro incontro lavandola, pettinandola e vestendola. Glinda siede su un trono di rubini

e agli occhi della bambina era bellissima e giovane. Aveva capelli di un rosso profondo, che le scendevano sulle spalle in una cascata di piccoli ricci. La sua veste era bianco puro, ma gli occhi erano blu e la guardavano con dolcezza. – Cosa posso fare per te, bambina mia? – chiese la Strega.

Chi non desidererebbe incontrare un se stesso più grande, più saggio, più bello, con tutte le risposte che cercava? Ma gli specchi delle favole forniscono solo soluzioni magiche e non offrono alternative.

Le tue Scarpette d’Argento ti trasporteranno oltre il deserto, – disse Glinda. – Se solo tu avessi conosciuto il loro potere, saresti potuta ritornare dalla Zia Em anche il primo giorno che arrivasti in questo paese.

La Strega buona che Dorothy incontra quando ormai dispera nel ritorno, è una specie di specchio estremo nella storia, il più dolcemente misterioso. Quel che rivela è grande e spaventoso. Il passo lieve e triplice, tre colpi come un battito di ciglia, è un gesto elementare e compatto, ma anche inconoscibile: è dentro di noi, ma non riesce davvero ad appartenerci. Cos’è allora? È un gesto creativo? O solo magico? È una semplice soluzione narrativa? Nella “parabola eternamente femminina” di Oz, forse è proprio Glinda, dolce madre e misteriosa fanciulla, a suggerirci che l’uscita dal Regno è una cosa irrevocabile che mette in crisi la nostra stessa visione del mondo con le sue più contraddittorie e potenti immagini.

 

 

 

Intervista a Maurizio Rippa

Attore sensibile e armonioso cantante, Maurizio Rippa dà vita in Piccoli Funerali – in scena al Teatro Socjale di Piangipane sabato 13 novembre alle 21 – a una partitura drammaturgica e musicale dedicata a coloro che ci hanno lasciato. È un atto d’amore, un dono, un saluto; un momento intimo e personale che trova forza nella musica. È uno spettacolo che – in dodici movimenti – si fa strumento di memoria affettiva e di elaborazione del lutto, creando uno spazio poetico e sottile per il tema della morte in una società che ne esercita la rimozione. Ogni brano – da “Love me tender” di Elvis Presley a “Moon river” di Johnny Mercer e Henry Mancini, da “In the end” di Scott Matthew al traditional “Oh Danny boy” – è un gesto che riporta a una memoria. Ogni funerale è raccontato da di chi se ne va e attraversa una vita appena vissuta. Piccoli Funerali è uno spettacolo commovente e dolcissimo capace di accogliere il dolore e trasformarlo in rinascita. Rippa ha avuto una carriera molto particolare, tra musica e teatro, e ha lavorato, tra gli altri, con Carmelo Bene, Armando Punzo, Antonio Latella, Roberto De Simone, Vincenzo Pirrotta e cantato con direttori del calibro di Alan Curtis e René Clemencic. Piccoli Funerali ha vinto nel 2019 la VI edizione de “I Teatri del Sacro” di Ascoli Piceno.

Rippa, il suo metodo per eliminare la paura e l’ansia nell’esibirsi in pubblico, ossia dedicare ciò che fa sul palco a qualcuno, sembra, a posteriori, una sorta di “uovo di Colombo”. Come si è accorto che la dedica ha un potere catartico enorme?

«Ho iniziato dalla seconda replica del mio primo spettacolo (credo nell’86) a dedicare il mio lavoro sul palco a qualcuno. Devo ammettere che all’inizio per me era solo un escamotage per superare l’ansia di prestazione, poi una sorta di rito scaramantico, poi ho sentito che questa era una vera necessità, l’ingrediente fondamentale non per fare una buona performance, ma per sentire che il mio lavoro avesse sempre come motore principale l’affetto, e non una semplice esibizione di un mio presunto talento. Negli anni ho capito che ogni “performer” si esibisce con motivazioni e modi diversi: chi per dimostrare le proprie abilità, chi per egocentrismo, chi per sentirsi amato, chi per un “fuoco sacro”, chi per sfuggire alla realtà. Per quel che mi riguarda ho capito quasi subito che soffrivo molto a esibirmi davanti a un pubblico “generico”, inteso come insieme indistinto di persone che mi osservavano fare cose. Lo trovavo estremamente egoistico da parte mia, e soprattutto mi facevo sempre la stessa domanda: ma perché tutte queste persone dovrebbero stare qui ferme e zitte ad ascoltare e vedere me? Trovo molto più onesto per me, forse banalmente, esibire quello che è il risultato di prove, esercizio, imposizioni registiche, paure e gioie dirigendo il mio pensiero e affetto verso qualcuno, e “offrire” questo al pubblico, quasi come una confidenza, come quando si confessa a un amico che ci siamo innamorati. Sono cose non facilissime per me da spiegare razionalmente, ma credo che abbiano a che fare con l’intimità tra me le persone presenti».

E, a maggior ragione in uno spettacolo come Piccoli Funerali, vien da pensare che il dedicare il lavoro a qualcuno si sia trasformato in una grande forza lirica e creatrice, quasi un elemento drammaturgico…

«È stato come mettere le carte in tavola, svelare il trucco di un gioco di prestigio, in maniera talmente semplice che credo possa anche spiazzare. Ho capito subito che se volevo fare un lavoro del genere avrei dovuto essere chiaro dall’inizio, spiegare cose avrei voluto fare (che fin dalle prime lezioni di teatro ti dicono tutti che non va mai fatto). Per me rivelare la mia modalità di esibirmi è come se mi denudassi davanti al pubblico, per questo direi che la dedica è forse l’unico elemento drammaturgico».

Anche le canzoni che accompagnano ogni episodio dello spettacolo creano quasi una narrazione a sé. È stato difficile arrivare alla loro scelta?

«In realtà sono canzoni che mi sono venuto in mente già mentre scrivevo il testo, quasi come colonna sonora, e la cosa in comune di tutte le canzoni è che volevo che fossero in un’altra lingua, per non aggiungere testo al testo parlato. Il fatto che io parli malissimo lingue straniere mi fa vivere le parole delle canzoni più come suono che come significato. Per me Piccoli Funerali ha come protagonisti delle persone che si raccontano accompagnati da suoni, e ho la fortuna di essere accompagnato da Amedeo Monda, che è un musicista molto sensibile, capace di ascoltare e assecondare tutte variazione che il mio stato emotivo della sera gli propone».

Cosa ha rappresentato Piccoli Funerali per la sua vita artistica? Penso anche all’intimissimo contatto con il pubblico prima dell’ultima canzone…

«In generale sono terrorizzato dal “pubblico”, inteso come insieme di persone indistinte. Soprattutto guardare i visi. Nella maggior parte degli spettacoli le luci creano una barriera che non ti permette di vedere il pubblico; non lo vedi ma sai che c’è. In Piccoli Funerali trovo fondamentale guardare le persone, vedere gli sguardi, guardarle negli occhi, è una cosa che mi terrorizza ma la trovo necessaria, è una questione di onestà. In qualche modo penso che potrebbe essere il mio ultimo spettacolo, dove lo stare in scena è una dedica a ogni singola persona presente. Per me rappresenta il mio modo di espormi in tutta la mia fragilità e imperfezione. L’ultima canzone e quello che accade prima sono tra le cose più intime ed emotivamente forti che ho mai provato in scena. Come se ogni persona presente venisse a darmi un bacio».

Ci sono differenze tra il porsi sulla scena per uno spettacolo teatrale e un concerto?

«È una domanda che meriterebbe una risposta lunghissima. Il mio primo testo (con un moto di orgoglio e narcisismo dico che ho vinto una menzione speciale alla prima edizione del premio Dante Cappelletti) si chiamava “Nella musica c’è tutto, meglio stare fermi”, dove mi esibivo in un vero concerto ma tra una canzone e un’altra dicevo ad alta voce tutti i pensieri, i dubbi, le paure di un cantante durante un concerto. Le differenze fondamentali sono per lo più fisiche: un attore sa non solo cosa dire ma anche come deve muoversi, fosse anche come imposizione registica. Il cantante in genere sa come cantare, ma il più delle volte si barcamena per gestire piedi, mani, corpo, attingendo spesso a convenzioni e stereotipi. Direi, per banalizzare, che recitare è molto corporeo, cantare è molto etereo. Essendo sia attore che cantante spesso dico che quando canto penso da attore, e quando recito penso da cantante, che potrebbe sembrare una cosa fantastica, ma in realtà è solo un modo mio per mettermi a disagio, perché credo che la comodità non si adatti al palco e perché credo di essere bravissimo a complicarmi la vita».

Intervista di Alessandro Fogli.

La mappa del cuore

Ha fatto scuola questa corrispondenza fra una femminista come Lea Melandri e le sue lettrici e i suoi lettori sulle pagine di Ragazza In. Uno spazio di reciproca interpretazione, un dialogo bizzarro e profondo che rivela l’universalità di interrogativi, istanze, desideri che appartengono a tutte le giovani persone alle prese con le grandi sfide del crescere e del comprendere. Una selezione degli articoli raccolti in quella rubrica sono stati scelti e pubblicati in un volume, riproposto con una nuova introduzione dell’autrice. L’attualità di questo libro è stata messa in evidenza anche nello spettacolo che ne hanno tratto Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi La mappa del cuore di Lea Melandri.

Pubblichiamo qui di seguito l’introduzione di Lea Melandri a La mappa del cuore. 
Lettere di adolescenti a una femminista. (Enciclopedia delle Donne, 2021)

La ristampa di un libro a cui si è particolarmente affezionati fa sempre piacere, soprattutto se è legato a un’esperienza e a un passaggio significativo della propria storia. Tale è stata la rubrica sul settimanale Ragazza In – Inquietudini -, a cui sono approdata, con sorpresa e incredulità, grazie all’invito di una coppia di amici, Sandra Novelli e Daniele Ionio, nel momento in cui mi lasciavo alle spalle il decennio degli anni Settanta, il movimento non autoritario nella scuola, la rivista L’erba voglio e il femminismo, per un viaggio analitico che sarebbe durato a lungo e che avrebbe portato il mio pensiero e la mia scrittura vicino a ciò che resta “impresentabile” del corpo e delle passioni che l’attraversano. La rottura improvvisa di una relazione amorosa aveva già aperto la strada a ferite ben più profonde, tanto dolorose da non poter diventare neppure ricordi, e le lettere delle ragazze arrivavano come inattese compagne di un viaggio che avremmo percorso insieme, tra sogno e lucidità di analisi. Non volendo usare i luoghi comuni della consolazione, e tanto meno la dogmaticità del linguaggio professionale, interpretativo, non mi restava che affidarmi, per le risposte, alla parentela che sentivo con quell’esploratore di paesaggi interni che è l’adolescente. Non c’è voluto molto per capire che, nell’angolo della posta, arrivava quella che Sibilla Aleramo, scoperta tardivamente come coscienza femminile anticipatrice attraverso i suoi Diari, definiva «una segreta, sotterranea vita», intraducibile persino in poesia.

Occorreva un’altra lingua per dare voce a esperienze, le più universali dell’umano, come l’innamoramento, gli abbandoni, la solitudine, lasciate dalla vita sociale in una sorta di esilio, costrette a muoversi tra una “stanza” tenuta gelosamente “privata” e la pagina della “confidenza” di un giornale. Per addentrarsi nel territorio inesplorato che conserva immutati nel tempo i sogni, i desideri, le paure che si accompagnano all’ingresso nella vita sociale, anche la parola doveva assottigliarsi, non temere di lasciarsi incantare da figure indeterminate, riconoscibili solo nella “mappa” del sentimento umano. È accaduto cosi, quasi per magia, che ogni rubrica si aprisse con i nomi di lettrici trasognate, sospese tra il mito e il disincanto di un mondo respingente come una “macchina di ferro”: “Lacrima nera”, “Leonessa ’66”, “Inquietudine ’71”, “Lacrima ’68”, “Un granello di polvere sull’argenteria”, “Illusione ’67”, “Goccia”. “Angelo Bianco”, “Una foglia di autunno pronta a cadere”.

Incurante delle domande, per le quali non c’era risposta – «Ho visto un ragazzo, mi ha guardato. Secondo te mi ama?» – ho creduto di potermi avvicinare a loro sottolineando e trascrivendo frammenti, andando fino a perdermi in un corpo a corpo con un materiale che mi toccava profondamente, per poi staccarmi con la scrittura e tracciare un sottile confine tra me e loro, tra il sogno d’amore che ci accomunava, al di là della distanza di età, e la consapevolezza con cui la mia appassionata partecipazione al movimento delle donne mi aveva insegnato a interrogarlo.

Ho scoperto a poco a poco il rapporto inconfondibile che si stabilisce tra la lettrice e la figura che si profila dietro le risposte, un rapporto in cui si mescolano fedeltà, attese, idealizzazione, come nelle relazioni famigliari e amorose, ma dove è anche possibile accorgersi con sorpresa che la stanza, da cui parte la lettera “non è vuota”: «Nella stanza c’è il profumo del passato, della solitudine, del dolore, della speranza. Apro finalmente quella finestra e un fascio di luce la illumina: non c’è nulla di anormale. Ora posso accorgermi che non è vuota».

Una conferma analoga della sintonia che si era venuta creando lungo il solco leggero degli stralci delle loro lettere, amplificati dalla mia scrittura enigmatica, riflessiva e poetante, la ebbi poco oltre nel tempo: «Non ti chiedo frasi del tipo “hai molto bisogno di affetto, devi farti coraggio”, “L’amore è grande, quando lo incontrerai, sarai felice”. Queste sono le cose ovvie che ho già sentito mille volte. Se me le dici anche tu sono al punto di partenza. Da te aspetto una risposta che venga dal tuo cuore e che mi faccia sentire parte di un mondo che non ho inventato io». In breve tempo, i frammenti accuratamente scelti per tema, hanno preso, come mi auguravo, il centro della scena, hanno cominciato a dialogare tra loro, non senza aver fatto prima un affettuoso saluto alla donna che, pur non rispondendo alle domande e limitandosi ad analisi per loro incomprensibili, sembrava aver accolto il loro bisogno di ascoltare e essere ascoltate nei loro «sogni lunghi e romantici», così come nelle loro tristezze: «Dolcissima Lea, siamo due ragazze che desiderano ardentemente rispondere alla lettera di Gloria».

A rendere cosi appassionante l’insolita collaborazione dopo un percorso decennale di lotte femministe, ho motivo di penare che sia stata una “inquietudine” che veniva da lontano, dai vent’anni passati in una famiglia contadina, dove fatica, pover; e violenza sulle donne si confondevano, agli occhi di una figlia con la sessualità, gli affetti, e le cure, dall’esperienza traumatica di un primo tema in quarta ginnasio in cui avevo tentato di dare parola a un vissuto doloroso e che era stato giudicata “scritto benissimo, ma fuori tema”. Fuori e intraducibile nelle lingue colte rimaneva gran parte della mia condizione sociale, dell’appartenenza a un sesso a cui per millenni era stato negato il beneficio della cultura. Considero tuttora un privilegio aver incontrato nel mio arrivo a Milano, in fuga dalla provincia, movimenti per i quali il “fuori tema” era considerato ” Il tema” la vita riscoperta come riserva inesplorata di saperi, di “storie non registrate”, per citare Virginia Woolf. Il femminismo molto aveva detto del corpo, della sessualità, della maternità, dei legami famigliari, del maschile e del femminile come costruzioni del sesso vincente, ma era rimasto in ombra, forse per la sua ambigua confusione con rapporti di potere, l’amore come sogno di appartenenza intima a un altro essere, fusione armoniosa di natura diverse. Era così che lo avevo sentito tornare, esaltante e doloroso, all’inizio degli anni Ottanta e, paradossalmente, non era nel movimento delle donne che potevo farne parola ma con le tante “ragazze In” che mi scrivevano, con quella sintonia che hanno le esperienze più universali dell’umano quando escono dal confinamento nel privato, «Sento il bisogno di avere un ragazzo accanto, una persona che mi ami e mi conforti. Vorrei avere qualcuno che sia sempre li quando lo cerco, a cui aggrapparmi e per cui vivere, uno che mi porti via da dove mi trovo, che mi conduca lontano dove poter dimenticare e rifarmi una vita. Ma sento che ne ho troppo bisogno, troppa ansia di possederlo in modo assoluto».

Se la mia rubrica non fosse stata chiusa improvvisamente, come altre della rivista, per un cambiamento della redazione, forse avrei continuato ancora a passare i miei fine settimana ad annaspare tra la valanga delle buste istoriate che si ammucchiavano sul mio letto e che mi strappavano a volte una lacrima: «Corri postino, non ti fermare, che la mia Lea non può aspettare». A distanza di tanti anni, non mi ricordavo più di quanto fossero “scritte” quelle buste colorate, dai loro “Help me?’, dalle mie sottolineature e notazioni. A farmene tornare memoria e commossa riscoperta sono stati Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi del gruppo teatrale di Bologna AtelierSi, quando sono venuti a propormi l’idea di fare uno spettacolo con le lettere e le mie risposte: parole che tornavano ad essere voce, corpo, per un dialogo tra “generazioni e generi”, ripresa di quella che era stata l’intuizione più radicale del femminismo, il “partire da sé”, la restituzione alla storia, alla cultura e alla politica, di una materia di vita consegnata inspiegabilmente alla “natura”. «Un tesoro – ha detto Andrea intervistato da Anna Stefi per Doppiozero – abbiamo tirato giù dal soppalco questo pacco contenente tutta la corrispondenza e, rovesciandola al centro della stanza, abbiamo cominciato a guardarla insieme». Nonostante la pubblicazione di una raccolta di rubriche nel libro La mappa del cuore per l’editore Rubbettino, incontrato in una felice vacanza in Sila, ospite della mia amica Renate Siebert, non avevo gettato nulla, né le riviste, che compravo regolarmente ogni martedì, sempre stupita di quanto poco fossero comprensibili le mie risposte, né le lettere e le buste che le contenevano. Se il libro può tornare ad essere letto è merito loro e di Rossana Di Fazio e Margherita Marcheselli che si sono offerte di accoglierlo nella loro casa editrice: enciclopediadelledonne.itRingraziamento e gratitudine.

Lea Melandri, 25 febbraio 2021

L’oceano in una bacinella

Da bambino amavo, durante i mesi estivi, giocare spesso nel cortile di casa all’ombra di un piccolo melograno. Riempivo di acqua una grande bacinella di plastica azzurra, di quelle che si usavano per lavare i panni, e quella subito diventava il mio oceano. E in quell’oceano animavo avventure fantastiche, facendo coesistere personaggi e storie diverse legate ai giocattoli che in quel momento occupavano la mia immaginazione. Ricordo un sottomarino nero, un grande squalo bianco (gli squali sono stati a lungo una mia grande passione, tanto da voler diventare, da grande, un biologo marino) e un demone dalla pelle bluastra con un teschio al posto del viso. Figure che formavano la mia personale cosmogonia di un universo acquatico.

Fotografia di Claire Pasquier

Il mio primissimo esperimento teatrale in solitaria – allestito un’unica volta, nel 2006, nell’abside del Teatro Rasi, di fronte al resto dei miei compagni del Teatro delle Albe – s’intitolava Il mondo dei squali, come recitava il titolo sgrammaticato su un poster pubblicitario di un circo acquatico, usato come unico elemento scenografico. Ero partito da La predica agli squali, un frammento di dialogo estrapolato dal capitolo LXIV di Moby Dick intitolato La cena di Stubb e, su suggerimento di Marco Martinelli, avevo provato a costruirgli intorno una serie di scene che avevano come unico fil rouge, appunto, gli squali.

Moby Dick è da sempre, da quando l’ho letto per la prima volta poco più che ventenne, il mio livre de chevet. Il più grande libro di mare mai scritto, forse il più bel romanzo americano, un caposaldo della cultura occidentale. Un libro sulla rovina, sul tramonto della nostra società, canto straziante e psicotico, mistico e delirante. Leggerlo provoca lo stesso effetto che deve aver sperimentato chi ha potuto ascoltare Jimi Hendrix suonare dal vivo, a Woodstock, The Star Spangled Banner nel 1969. L’ho letto oramai diverse volte, ci torno spesso e, come un libro magico, aprendolo a caso ottengo indicazioni sul futuro. Credo che non esaurirò mai il mio rapporto con questo libro, continuerò a lavorarci per tutta la vita, come una fonte di inesauribile sapienza.

Questo lavoro, però, è nato da una precisa richiesta: Giacomo Piermatti, sopraffino contrabbassista allievo di Daniele Roccato e di Stefano Scodanibbio, dopo aver collaborato con noi Albe in Purgatorio, chiamata pubblica per la “Divina Commedia” di Dante Alighieri, mi ha proposto un percorso di lavoro a due che, dopo qualche esperimento, si è concretizzato attorno a una prima selezione di brani tratti proprio da Moby Dick. Data l’impronta musicale e sonora del lavoro di voce e contrabbasso si è unito alla squadra, con un contributo prezioso e fondamentale, Andrea Veneri, giovanissimo regista del suono allievo di Luigi Ceccarelli (storico collaboratore del Teatro delle Albe), anche lui conosciuto e apprezzato durante il nostro pluriennale lavoro su Dante.

Fotografia di Marco Parollo

Il Pequod, la baleniera capitanata da Achab, è in Melville un affollarsi di voci e di razze, una vera nave americana, una nave di folli agli ordini di un folle capitano in una folle caccia a un fantasma. E in questa nostra sinfonia, il contrabbasso – amplificato in modo da creare piani sonori ben differenziati e con l’aggiunta di elaborazioni basate sul ritardo e la moltiplicazione del suono che ne modificano e incrementano l’espressività – diventa la voce dell’intero Pequod, pervaso dagli scricchiolii del ponte sotto i piedi dell’equipaggio come dal furioso sbattere di code degli squali affamati contro la prua. Una sinfonia in cui la musica, creando uno spazio sia emotivo che fisico, tenta di manifestare tutto quello che le parole lasciano solo intuire, mentre le variazioni timbriche della voce, che si succedono durante la performance, vengono amplificate attraverso l’uso di riverberazioni digitali che ne variano la spazialità, l’enfasi o la crudezza.

Il tempo della scena è misterioso: siamo tornati indietro o siamo all’inizio di una nuova umanità? E altrettanto misterioso è lo spazio scenico: relitto adagiato sul fondo dell’oceano o magari cimitero di navi, oppure, ancora, antro oscuro (il ventre della balena, come Geppetto e Pinocchio? O forse solo un teatro?) in cui, come totem, sorgono frammenti, lastre metalliche piegate, corrose, consumate dal tempo. Su queste, la mano del giovane artista ravennate Bacco Artolini ha disegnato segni antichi, geroglifici, rappresentazioni di antiche o nuove divinità.

I capolavori della letteratura formano sempre una specie di lingua straniera nella lingua in cui sono scritti. Penso a Foglie d’erba di Whitman o a Pinocchio di Collodi. Melville ne inventa una – la “lingua della Balena”, la chiama Deleuze – che stravolge l’inglese. Lingua inumana o sovrumana. Da qui, la scelta di ricorrere alla traduzione di Cesare Pavese. Non solo perché fu il primo traduttore del romanzo in Italia o per l’esperienza d’abisso che l’autore de Il mestiere di vivere si portava addosso, ma soprattutto per la musica della sua lingua non databile, sospesa nel tempo come può esserlo la grande poesia. Un italiano che non è più solo italiano ma lingua originale e originaria proprio come quella di Melville. Una lingua-mondo, una sorta di Bibbia segreta e magica.

Nelle prime pagine del suo capolavoro, Melville ci consegna la chiave d’oro per leggere il romanzo: “E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto”.

Fotografia di Marco Parollo

Mito tragico, quello di Narciso, che parla della ricerca del “chi siamo?” e del “chi sono io?”. Una ricerca che, nel mito, ha come soluzione la morte, l’andare letteralmente a fondo. Fare esperienza dell’abisso, esperienza fisica del fondo oscuro che abita in ognuno di noi. Essere ammaliati dalla musica incantatoria che proviene dal fondo del burrone, camminarci accanto, rischiando più volte di scivolare e poi precipitare, inabissarsi definitivamente, non vedere più la luce e la possibilità di risalire.

Secondo i miti orfici, Dioniso fu ucciso dai Titani mentre si guardava allo specchio.

Specchiandoti crei il mondo, ma la creazione e la conoscenza di questo mondo non rispondono alla realtà. La fonte d’acqua agisce come uno specchio, mettendo insieme, dunque, superficie riflettente e profondità oscura.

Così, nel gioco del Teatro, una bacinella può per incanto tornare a trasformarsi in uno specchio d’acqua che raccoglie in sé tutti gli oceani del mondo.

Roberto Magnani

Occhi

Le immagini che quest’anno accompagnano La Stagione dei Teatri e delle altre “ante”, Al Socjale (in collaborazione con Teatro Socjale di Piangipane) e Fèsta (a cura di E Production e Ravenna Teatro) e che caratterizzeranno altri momenti della stagione, sono fotografie di Enrico Fedrigoli. 

Il teatro è un luogo dal quale attinge la visionarietà che caratterizza ogni suo progetto fotografico. Fedrigoli porta frequentemente il banco ottico davanti al palcoscenico, costruendo una nuova architettura delle scenografie, del gesto attoriale e del volto, “radiografando” corpi, luci, materie. Tante sono le compagnie che si sono mostrate attraverso il suo sguardo. E lungo è il rapporto di Fedrigoli con la Romagna (vedi i lavori con Teatro delle Albe, Fanny&Alexander, Motus, Menoventi…)

Abbiamo scelto queste sue fotografie enigmatiche, costruite proprio nell’arco di questo anno e mezzo pandemico, perché ci sembra di vedere immagini che già si fanno Teatro. Sono occhi che cercano bellezza, come quelli poggiati sui fiori, ma che mostrano sfaccettature di stati d’animo e ci sorprendono, come l’immagine del pezzo di stalattite appuntito ma sospeso tra le nuvole. Negli ultimi tempi gli occhi sono diventati un centro di attenzione per tutti noi nell’incontro con il prossimo, con i volti costretti dalle mascherine. Gli occhi di Enrico Fedrigoli ci invitano a non perdere lo spirito di osservazione, mantenendo costante una tensione verso la curiosità e il bello. Prendendo in prestito le parole da Carmelo Bene: “Amami! È tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi!”

INTERVISTA A ENRICO FEDRIGOLI a cura di Alessandro Fogli

Fedrigoli, qual è la genesi delle immagini, realizzate durante il lockdown che connoteranno la stagione teatrale ravennate? Da dove arrivano questi occhi enigmatici?

«Occorre una premessa, ossia la mia grande passione per la fotografia dadaista e per l’avanguardia fotografica tedesca – dal 1919 al 1939 – da cui parte un po’ tutto il mio lavoro, il mio viaggio di vita in pratica. L’origine dell’occhio, molto prima del lockdown, questa attrazione, nasce da una mia questione fisica, perché in tenerissima età ho dovuto portare gli occhiali in quanto affetto da strabismo; degli occhiali correttivi che per un sacco di anni mi hanno costretto a guardare con un occhio solo. Con queste nuove immagini ho trasposto questa cosa di un occhio solo fuori dalla mia testa, e così, avvalendomi di tecniche tipo collage, ritaglio, o le immagini di Raoul Hausmann e della fotografia dadaista, ho voluto portar fuori questo occhio solo, quello col quale vedevo, e ciò mi ha appassionato, perché in un periodo come quello del lockdown occorreva che guardassi all’esterno, il “fuori”, un po’ come spiando da un buco. Dovevo portare lo sguardo fuori dalla camera oscura e dallo studio, in quanto, come tutti, costretto a stare in casa, ho approfittato di questo periodo per portare il mio sguardo all’esterno. Ho poi aggiunto elementi che in quel momento mi interessavano, tipo la conchiglia come lacrima, il fiore come sguardo sulla natura e così via. Esemplificativo di tutto il lavoro è ciò che ho fatto con l’attrice Consuelo Battiston: le ho appoggiato un occhio finto al suo vero, e questa è l’essenza del lavoro, rendere una percezione molto vecchia, di quando avevo tre anni e non esistevano operazioni chirurgiche, quindi occorreva per forza guardare con occhio solo per lunghi periodi. Questo occhio solo mi è rimasto in mente, consciamente o inconsciamente». 

Questo occhio scrutatore, riferito al teatro, che messaggio pensa che potrà trasmettere?

«Potrebbe essere il messaggio di un “terzo occhio”, cioè di qualcuno che viene da fuori, visto che io sono della provincia di Verona, quindi un altro sguardo, un’altra vita, un altro pensiero, e quindi un occhio esterno, fuori dal mio contesto geografico. La percezione, credo, sarà quasi di rilassatezza di sguardo, con quest’occhio che viene collocato in mezzo a oggetti, a situazioni particolari, in volo, in mezzo alle nuvole. È il terzo occhio che ci guarda, ma un occhio umano, non divino».

La tecnica che ha utilizzato è sempre quella del banco ottico?

«Sì, lavoro sempre con quella, per tanti motivi. Per la qualità, in primis, poi per questa scatola che lavora per te: tu non vedi finché fotografi ma è proprio un filo diretto che passa dal cervello alla mano, allo scatto flessibile, e lo scatto flessibile si congiunge all’otturatore dell’obbiettivo, quindi è un po’ come ammaestrare un animale, impossessarsi di una cosa esterna al tuo sguardo ma che costruisci proprio con lo sguardo».

Ha sempre avuto un rapporto privilegiato con gli attori di teatro, che ha fotografato tantissime volte, cos’ha in più un attore quando lo fotografa?

«Più che altro che cos’ha in più il rapporto che si instaura tra chi lavora nel teatro e chi ci sta davanti. Le cose che ci legano sono una forte stima e la conoscenza, una conoscenza che è per forza di lunga data, visto che io non potrei mai lavorare con una persona che non conosco, non ce la farei né fisicamente né psicologicamente. È una sorta di legame quasi matrimoniale, e infatti lavoro con pochissime compagnie, compagnie che mi hanno dato la possibilità di estrapolare dei percorsi personali. Ho attinto molto da questo fertilissimo humus che è il teatro ravennate, soprattutto con Fanny & Alexander e Teatro delle Albe, che sono le due realtà che seguo principalmente e con cui ho il rapporto più intenso. Un legame quindi di forte sentimento, se non ci fosse questo non ci sarebbe nemmeno la volontà degli attori di stare tre o quattro ore in una seduta, di star fermi in posa per trenta secondi, di intuire quello che il tuo cervello intende come tempo meccanico per far sì che avvengano le immagini, per far sì che si veda quello che l’occhio non percepisce. In pratica io e gli attori costruiamo insieme le immagini, non c’è nessuno che costruisce da solo, il 50 percento lo faccio io, l’altro 50 lo fa chi mi sta davanti, e questo è lo spirito col quale lavoro da sempre, non sono io che realizzo l’immagine ma siamo insieme per fare questa cosa che ci fa vincere o perdere. Tanto che a volte ho un po’ di ansie nel realizzare certi ritratti, perché non so mai cosa l’attore percepisca una mia immagine: magari va a scavare troppo sotto pelle? Va a scavare troppo nella psiche?».

BIO

Enrico Fedrigoli è un fotografo professionista dal 1981. Lavora con un banco ottico Linhof 10×12 e cura personalmente la stampa in bianco e nero delle opere, su carta baritata di alta qualità.
“10×12 significa lentezza, riflessione e grande risoluzione dell’immagine, significa architettura di scena, architettura del corpo, pensiero sull’invisibile e sulla dinamica. 10×12 significa pesantezza, fatica e l’uso di un dispositivo che funziona scollegato dalla visione ottica diretta ma coinvolge la costruzione mentale e la progettazione.”

www.enricofedrigoli.it

RAVENNA TEATRO SEGNALA

MEME Festival
Faenza
23 ottobre – 13 novembre
Enrico Fedrigoli

ALBEDO
A cura di Simone Azzoni
Museo Carlo Zauli – Via della Croce 6
Inaugurazione e incontro ore 18:30; con Enrico Fedrigoli e Simone Azzoni, introduce Matteo Zauli
Apertura mostra: martedì e giovedì ore 14-17; mercoledì, venerdì e sabato ore 10-13
Ingresso gratuito

L’albedo è una tappa del processo alchemico. Segue la nigredo. Anticipa la rubedo. Il coagula informe si raffina, il caos si fa cosmo e l’ordine separa i pieni dai vuoti distillando forme. Albedo è stazione di transito. In un passaggio trasformativo del processo ascensionale abbiamo pensato l’incontro tra lo sviluppo creativo della ceramica e quello della fotografia. Cambi di stato in un processo di combustione e svelamento. Sacchi di argilla, forni, calchi e infine la purezza dell’equilibrio tra pieno e vuoto: questo è il cammino alchemico del Museo Carlo Zauli, nel quale agisce la fotografia di Enrico Fedrigoli. Fotografia e ceramica risalgono assieme il loro cammino: dalla materia reale a quella formale. Nel mezzo la teca sospesa è l’albedo di un canone di ritrovata bellezza.

Gli spettatori dovranno essere muniti di green pass secondo le normative vigenti

Informazioni:

349 7629249/ 349 5824266

organizzazione@e-production.org

www.menoventi.com

Il pensiero-cattedrale

di Marco Martinelli

Gli anni passano. Passano anche i decenni. E così, se si vuole guardare alla storia del teatro ravennate degli ultimi 40 anni, ecco che ci si trova davanti a una significativa mutazione. Il teatro della città ha scommesso sul fare spazio a un teatro “della città futura”. Come è potuto accadere?

Alla fine degli anni Settanta, dal punto di vista della creazione teatrale, Ravenna era un deserto. Sottolineo: dal punto di vista della creazione. Sul piano dell’ospitalità invece no, perché Mario Salvagiani, alla direzione dei teatri cittadini, aveva sempre riempito le sue stagioni di artisti: Carmelo Bene, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Franco Parenti, Mariangela Melato i nomi di eccellenza. Aveva quindi “nutrito” i giovani attori e registi che, alla fine di quel decennio, in maniera testarda, anarchica e autodidatta, a Ravenna e lontano da Ravenna, avevano cominciato a praticare il teatro. Testa bassa, disciplina quotidiana: creazione. Si arriva all’inizio degli anni Novanta, Salvagiani deve andare in pensione, ma non intende cedere il suo ruolo a chi non ha la passione della scena: perché questo prima di tutto è stato Mario Salvagiani, un ammalato di teatro sotto le vesti del funzionario. “In ogni artista c’è un ramo di follia”, sentenziava Aristotele: è consolante sapere che lo stesso ramo lo si può trovare anche in un dipendente comunale. La sua “follia” è stata lungimirante, ha fatto storia: da una parte convoca Cristina Muti e dall’altra il sottoscritto. Nascono Ravenna Festival e Ravenna Teatro, fusione quest’ultima del Teatro delle Albe e della Drammatico Vegetale.

Tale “mossa”, per usare la terminologia degli scacchi, ha consegnato la cultura scenica della città in mano agli artisti. Onere e onore. Il “programmatore” Salvagiani ha passato il testimone ai “creatori”. E i creatori hanno creato, con pazienza, stagione dopo stagione, opere e drammaturgie e spettacoli che hanno portato nei cinque continenti il nome della nostra città. Ma i creatori non si sono limitati a questo. Hanno fatto quello che altrove, e non solo in Italia, accade assai raramente. Hanno portato avanti l’idea di un tessuto culturale che riesca a viversi come una collettività: un gesto politico. In altri termini: non si sono rinchiusi nel la loro fortezza. Non hanno guardato dall’alto in basso le nuove generazioni, le hanno ascoltate, hanno trovato i modi più diversi per sostenerle, anche materialmente, e spesso le hanno fatte nascere attraverso la fucina della non-scuola, fucina che ha tenuto a battesimo tanti nuovi attori, registi, critici teatrali, organizzatori, cineasti. Hanno firmato (nei cuori) una sorta di patto intergenerazionale, come quello che motivava i costruttori di cattedrali del Medioevo, il “cathedral thinking” di cui oggi scrive Roman Krznaric, un filosofo tra i più influenti dell’area anglosassone: quei costruttori sapevano che avrebbero iniziato qualcosa che avrebbero forse finito i loro nipoti o pronipoti. O qualcosa che non sarebbe finito mai, come la Sagrada Familia di Anton Gaudì. Ravenna Festival e Ravenna Teatro hanno fatto dialogare la città con i suoi germogli senza guardare a raccomandazioni di nessun genere. “Tutti è una parola sacra” scriveva Aldo Capitini, e per “tutti “le porte dei teatri cittadini sono rimaste aperte. E così lo spazio vuoto di 40 anni prima si è popolato: è quello che vedo, leggendo i nomi di questo programma di Ravenna viso-in-aria, e nel riassumerne gli estremi prendo i Fanny e Alexander, tra i primi frutti di questa fioritura, gruppo di eccellenza artistica a livello internazionale, e le Anime Specchianti, gruppo tutto al femminile di giovanissima e entusiastica formazione.
Noterete tra loro grandi diversità: è un dato di cui si può andare orgogliosi. Diversità generazionale, diversità di poetiche, diversità di condizione (professionisti e non): tutti accomunati dalla passione della scena, tutti con eguale dignità di essere accolti, ascoltati, criticati, amati.

Li abbiamo chiamati a raccolta, in vista delle celebrazioni dantesche del 2021. Nel farlo ho ripensato alle parole di Walt Whitman, quando nel 1885 presenta il suo Leaves of grass:

Passato e presente e futuro non sono disgiunti ma congiunti. Il poeta sommo forma la consistenza di ciò che ha da essere da ciò che è stato ed è. Egli trascina i morti fuor dalle bare e li rimette in piedi… egli dice al passato, Alzati e cammina davanti a me affinché io possa attuarti. Egli impara la lezione… si pone dove il futuro diventa presente.

Onorare i morti significa proprio questo: trascinarli fuori dai musei e rimetterli in piedi. E per farlo ci vogliono i vivi.
Questo “prologo ravennate” alla stagione 20-21 approfitta dell’occasione del centenario dantesco per intessere un nuovo capitolo del dialogo della città con le sue energie. Sotto il nome di un ribelle, di un poeta condannato a morte dalla politica del suo tempo, capace con la sua arte di legare cielo e terra, fanghi del mondo e desiderio di Assoluto. E in questa trama, a partire dall’Inferno dell’estate 2017, e poi ancora nel Purgatorio del 2019, stanno entrando anche i tantissimi cittadini che si sono messi in gioco, correndo ogni giorno al Rasi dopo una sfiancante giornata di lavoro per diventare arpia o avaro, diavolo o serpente, Paolo e Francesca o Pia de’ Tolomei. Accanto a questo dialogo cittadino, come Comitato dantesco abbiamo chiamato e chiameremo nel triennio a venire alcuni protagonisti della scena internazionale. La scelta di questi artisti non deriverà dal fatto che abbiano o meno lavorato sull’opera dantesca, ma dal loro essere intellettuali radicalmente danteschi. Alla radice: là dove l’impegno etico non lo si può separare dalla temperie estetica, là dove il discorso del sacro coinvolge visceralmente il discorso politico. Resteranno in città per una settimana, con i loro film e spettacoli, con la loro presenza: e con loro i gruppi, se vorranno, potranno dialogare. Spero per conto mio che lo desiderino: incontrare chi sa volare alto, aiuta a rafforzare le ali.

Cosa resta, alla fine del Candido di Voltaire, scritto nel cuore di un’epoca buia e segnata da guerre e pestilenze, cinica e indifferente come la nostra? Candido lo ripete più volte come un mantra: “il faut cultiver notre jardin”.
Dobbiamo coltivare il nostro giardino: fuor di metafora, la nostra anima, la nostra arte, la nostra famiglia, la nostra comunità, la nostra città, la nostra nazione, la nostra fragile democrazia, e infine l’universo mondo. Tutto è giardino, tutto ci riguarda, quello che accade davanti al nostro balcone come le tragedie che avvengono in un mare lontano, come la catastrofe ambientale che rischia di travolgere il pianeta. Là dove arriva il nostro ascolto. Là dove arriva il nostro grido.