Lo abbiamo visto in una scena spoglia su un piccolo sgabello tratteggiare, con il solo uso delle parole, l’intera terra di Germania, tanto che se si chiudevano gli occhi si potevano perfino vedere lo junker, la moglie o il principe sassone che animano la vicenda di Kohlhaas, il primo spettacolo con cui Marco Baliani ha inaugurato La Stagione dei Teatri. Lo abbiamo sentito riprodurre il rumore degli zoccoli dei cavalli con il corpo in modo talmente convincente che pareva quasi di essere in sella con il protagonista, lui che a cavallo non c’è mai stato, e raccontarci una storia che ci ha fatto uscire da teatro pieni di interrogativi. A fine novembre Marco Baliani, tra i fondatori del teatro di narrazione, ha dato voce alla storia di un sopruso ambientata nel 1500, mentre oggi, a distanza di pochi mesi, torna per raccontarne una più recente, che promette di regalare le stesse inquietudini che solo una storia ben raccontata riesce a fare.
Come nasce Una notte sbagliata?
“Sono partito da un’esperienza personale: è la storia di una persona bipolare, disturbata, che porta il cane a pisciare in un quartiere periferico, di notte. Si tratta del classico caso di posto sbagliato al momento sbagliato. Sul luogo arriva una pattuglia di uomini dell’Arma: persone sottopagate, frustrate, che si ritrovano in un quartiere in cui non sono amate. Quando gli agenti incontrano Tano (il protagonista, ndr) cominciano a divertirsi, all’inizio quasi bonariamente, ma il ragazzo soffre di un disturbo mentale e quando qualcuno gli si avvicina troppo diventa violento. Fino a qui potrebbe sembrare la cronaca, molto comune, di un sopruso ai danni di un diverso che, purtroppo, accade spesso. A me, però, interessava sperimentare più linguaggi e indagare quel meccanismo di violenza che fa di una persona un capro espiatorio. Volevo capire non perché succede, ma come succede. C’è un paesaggio sonoro molto presente, vengono proiettati disegni infantili, attribuiti a Tano e che ho fatto io. Prima interpreto lui, poi cominciano ad entrare altre voci: sono la sorella che lo va a trovare quando ormai è sul lettino dell’obitorio, il medico che lo ha in cura, i poliziotti”.
Siamo sempre nell’ambito del teatro di narrazione? (a qualcuno, come è già capitato, verrebbe voglia di definirlo teatro civile…)
“No, questo è uno spettacolo anti-narrativo, è un esempio di post-narrazione, come se l’attore non avesse più la possibilità di raccontare la storia per intero: il racconto è spezzato, pieno di luoghi oscuri. Purtroppo l’aggettivo civile è spesso appiccato al teatro di narrazione. Anche quello filodrammatico è teatro civile, il teatro è sempre un fattore di civiltà, che ha a che fare con la civis, la polis. È come se il termine civile in qualche modo assolvesse, come se bastasse avere una spiegazione politica didascalica e fosse sufficiente mettere da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. Non sono contro il teatro civile, ma il mio non lo è, mi limito a stare dentro il ‘maelstrom’ dell’animo umano, che è aggrovigliato”.
La abbiamo vista in Kohlhaas con uno sgabello e nient’altro; anche qui la scena è spoglia, fatta eccezione per i disegni. Questo per dire che non serve tanto quando c’è la parola?
“Sì, anche se qui c’è qualcosa in più, perchè mi muovo. All’inizio sono il personaggio, non parlo in terza persona di Tano perché io sono Tano; poi però la luce cambia, ci sono stacchi luminosi e sonori, c’è una partitura che è anche una metafora di quella notte, di conseguenza non sono libero di andare dove voglio”.
Questo spettacolo è antecedente ai fatti che hanno coinvolto Stefano Cucchi, ma si intreccia alla sua storia, tanto che Ilaria Cucchi sarebbe dovuta essere presente alla serata e all’incontro. Come è nato questo rapporto?
“Non mi sono ispirato alla vicenda di Cucchi, lo spettacolo è nato prima di quel tragico episodio, purtroppo ce ne sono a bizzeffe di violenze di quel tipo. Si tratta di uno spettacolo universale che inevitabilmente richiama una vergogna di cui siamo venuti a conoscenza grazie al coraggio di Ilaria Cucchi”.
“Ho incontrato per la prima volta Oliva Denaro parecchio tempo fa, grazie al libro di Viola Ardone, che stava per essere pubblicato, conservo la copia unica che ho fatto solo recentemente firmare a Viola. Resto sempre quella che ‘non ci può credere’ e non per falsa umiltà, ma per consapevolezza della precarietà: finché c’è, voglio godermi tutti e poter chiedere anche gli autografi (rido seriamente).
La voglia di far conoscere questa storia è nata subito: leggi una pagina e dentro ci trovi tanto di quel posto che si chiama ‘coraggio’, che non vedi l’ora di prenderci la residenza. Quella volta però non è andata a buon fine la collaborazione, purtroppo stavo lottando per zittire delle chiacchiere sul mio privato… stavo comunque “lavorando” sul personaggio mio malgrado e nemmeno lo sapevo.
Il regista Giorgio Gallione ne acquista i diritti, qualche anno dopo, proprio lui con cui lavoro e torno sempre a casa, il primo folle che mi ha detto: ‘Ce la farai tu, con le tue risorse’ a partire dal mio battesimo teatrale con il monologo La misteriosa scomparsa di W di Stefano Benni. Così è nato questo progetto. Destino… nessuna magia, quella l’abbiamo messa tutta sul palco.
Oliva Denaro, ispirata alla vera storia di Franca Viola, racconta la storia di tante donne attraverso questa ragazza, che diventa una eroina grazie al valore del primo vero ‘no’. È ribelle e contraria ma con rispetto e gentilezza. La sua ribellione passa per il desiderio di conoscenza, per la sua curiosità. Oliva è un’eroina che come super potere ha anche quello di saper ascoltare gli altri. Quando non sa ascolta, quando non comprende chiede. E quando non le viene risposto… ‘io non sono favorevole’. È talmente bella da portare in scena questa piccola grande vita, che uno si sente meglio già solo a raccontarla, questa storia.
Ho lavorato insieme a Giorgio alla drammaturgia e gli sono grata per questo lavoro insieme perché non tutti i registi hanno voglia di aprirsi ad un confronto così bello e formativo. Amo molto il mio lavoro e amo scoprirlo come una matrioska in ogni suo aspetto. Abbiamo lavorato dal romanzo al testo teatrale cercando di preservarne la ricchezza e rispettandolo con attenzione e cura. Solo nel finale ho chiesto di poter inserire delle parole di Franca Viola tratte dalle sue interviste, sentivo il bisogno di una parte di verità legale.
Vado in ‘vacanza’ per tutta l’Italia fino al 21 aprile insieme ad Oliva: in questo momento le storie delle persone che con le loro scelte e il loro coraggio hanno cambiato il corso degli eventi anche per me, quelle che hanno tolto il prefisso negativo “in” dalla parola GIUSTIZIA… Mi piace farle vivere vicine”.
I Sacchi di sabbia nascono a Pisa nel 1995 e nel panorama della scena teatrale italiana si distinguono per la capacità di far incontrare tradizione popolare e ricerca culturale, spingendosi di volta in volta nell’esplorazione creativa di terreni diversi, dalla letteratura al cinema, dal fumetto all’opera.
Con questo spettacolo raccontate una delle tragedie più antiche utilizzando una chiave comica, che è poi la vostra cifra: cosa significa, per i Sacchi di sabbia, fare teatro?
“Il comico non lo scegli, te lo trovi addosso anche per caratteristiche attoriali, che fanno parte del Dna della compagnia. Come Sacchi di Sabbia abbiamo una fisionomia da circensi, da comici dell’arte, e ci siamo ritrovati questa peculiarità come bagaglio, prima di tutto umano, successivamente tecnico. È diventato il nostro tesoretto con cui abbiamo affrontato testi che in un determinato momento ci dicevano qualcosa. Abbiamo anche scritto, per il teatro, ma negli ultimi anni ci siamo dedicati alle rivisitazioni. Quando scrivi un testo tuo, ovviamente, dici quello che vuoi, mentre quando operi una rivisitazione, quello che vuoi dire ti scappa. Misurarsi con un’antica drammaturgia permette, prima di tutto, di conoscere cose che non si sapevano e, in seconda battuta, di proporle al pubblico. È questa la ragione per cui facciamo teatro. A volte il comico demolisce, è cattivo, altre, però, sa fungere da custode. Poter creare empatia attraverso una chiave comica su un testo come ‘7 contro Tebe’ non significa demolirlo, o farne una parodia, ma cercare un sentiero parallelo che avvicini lo spettacolo ad un pubblico contemporaneo. La soddisfazione più grande è quando i giovanissimi lo vedono e ridono, ma oltre alla risata riescono a trattenere anche qualcosa della poesia di Eschilo”.
‘7 contro Tebe’ è il terzo tassello di un lavoro portato avanti insieme a Massimiliano Civica: qual è la genesi del progetto e cosa ha portato all’opera questa collaborazione?
“Con Massimiliano ci siamo trovati nel 2016 per celebrare il festival Inequilibrio, di Fondazione Armunia, e abbiamo scelto un ambito, il mondo antico, in cui lui potesse farci da guida. Così è stato sia per ‘Dialoghi degli dei’, sia per ‘Andromaca’, mentre su ‘7 contro Tebe’ siamo stati più autonomi, pur avendo condiviso l’intera trilogia che nasceva da un percorso comune. Massimiliano è stato in grado di infonderci una scossa. Fino a quel momento eravamo concentrati su testi minori, come dimostra lo spettacolo ‘Sandokan, o la fine dell’avventura’, che ha segnato l’inizio di quel percorso ed era rivolto, in prima battuta, ad un pubblico adulto. Avevamo bisogno di cambiare rotta, di un iniziatore che ci conducesse in un mondo antico, e per noi Massimiliano è stato questo”.
In che modo, attraverso i classici, possiamo leggere l’oggi?
“Veniamo disabituati a ‘pescare’ la complessità delle storie che, proprio perchè ti intrigano e sono articolate, ti obbligano ad un lavoro che è fondamentale nel processo formativo di uno spettatore. Anche se, apparentemente, queste opere sembrano non rappresentare il presente, ci troviamo di fronte ad una modalità di porre i grandi problemi che è universale. Ad esempio, in questo testo emerge tutta la complessità degli antichi a partire dalle sinestesie: Eschilo ‘vede’ i rumori, aspetto che colpisce e scuote lo spettatore. Scatta un’intelligenza emotiva che, secondo noi, contribuisce a rendere attuali questi grandi capolavori, indipendentemente dall’argomento che trattano. In più in questo caso si parla di guerra, tema purtroppo attualissimo”.
Il giorno successivo, il 18 febbraio, porterete in scena lo spettacolo Sandokan, o la fine dell’avventura al Teatro Socjale, consigliato anche ai più piccoli. Com’è esibirsi per un pubblico adulto e com’è, invece, farlo per i bambini?
“Abbiamo iniziato ad esibirci per un pubblico adulto, che è certamente più competente. Nello specifico lo spettacolo ha debuttato al Festival ‘Primavera dei Teatri’ di Castrovillari, davanti a spettatori di teatro contemporaneo, capaci di cogliere tante sfumature, con un bagaglio di visione sconfinato. Ricordo, per dire, che c’era anche Franco Quadri. Inizialmente non avevamo pensato ai bambini, ma loro ci hanno aperto un mondo. Lo spettacolo è gioco allo stato puro, e quando va in scena si divertono allo stesso modo il compianto Franco Quadri e il bimbetto delle elementari. Quando ci esibiamo davanti ai piccoli abbiamo la serenità di non essere a cospetto di un giudice, cosa che il teatro dovrebbe un po’ ritrovare”.
Una curiosità: cosa scrisse Franco Quadri?
“Ci fece un titolone su Repubblica, ‘Gli ultimi Fuochi di Sandokan’, e quell’anno, era il 2008, vincemmo anche il Premio Speciale Ubu. Questo spettacolo ha compiuto un percorso anomalo, che è nato in quel contesto, ma che ha continuato la sua vita fuori, nell’ambito del teatro per ragazzi e per famiglie”.
Il percorso de La Faglia inizia nel luglio 2021 ad École Des Maîtres, che si è svolta al Teatro India durante il festival Short Theatre, quando alla compagnia Amendola / Malorni è stata commissionata una mise en éspace del testo di 25 minuti. Dopo questa prima elaborazione, il processo creativo è partito a dicembre 2021 con la prima residenza artistica a Vulkano, presso Ravenna Teatro, ed è poi proseguita a Lottounico, Roma, nell’aprile 2022, dove si è delineato ancor più chiaramente il progetto di messa in scena.
Simone Amendola, come è avvenuto l’adattamento del testo?
“Quello che è emerso dal lavoro di adattamento è una sintesi tra linguaggio e sguardo: il nostro teatro non è tanto incentrato sui temi, quanto sugli esseri umani e su come loro si pongono in relazione ad un determinato argomento che, in questo caso, è l’ambiente. Per la prima volta abbiamo abbandonato una scrittura nostra, anche perché dopo il lockdown c’era la necessità di raccontare le cose in modo diverso. Su questo ha influito anche il fatto che l’autrice fosse una donna, straniera, e di un’altra generazione rispetto alla nostra, con uno sguardo e con ambizioni tematiche diverse”.
Che tipo di lavoro è emerso?
“Il lavoro di questi due anni è stato particolare, dal testo sono emersi aspetti illuminanti: abbiamo cercato di compierne i contenuti anche attraverso un preciso adattamento scenico che partiva dall’idea di voler, prima di tutto, raccontare due esseri umani, e di farlo cercando di soffermarci su aspetti che non fossero ancora stati raccontati. Quello che per noi conta, indipendentemente dal tema, è un’angolazione per raccontare l’essere umano. Abbiamo fatto assorbire il testo dallo spettacolo evitando di scivolare nella propaganda”.
Il testo di Adèle Gascuel è molto ironico e solleva questioni diverse, anche di genere…
“Leggendo il testo ho avuto la percezione esatta che, se l’autrice lo avesse messo in scena, avrebbe fatto interpretare i due protagonisti maschili a due donne. Nonostante non ci fossero elementi per comprenderlo, ho capito quello che avrebbe voluto fare anche in seguito ad elementi di critica sul maschio che ho individuato tra le righe. Rispetto a questo aspetto, credo sia presente un elemento generazionale molto forte: un ragazzo di vent’anni mi diceva che, solo perché maschi, ci si debba sentire in colpa, e credo sia questo il pensiero che sta alla base di questo lavoro. C’è una rabbia che ancora dev’essere trasformata e credo che la nostra visione, come compagnia, abbia realizzato una mediazione assennata ed una rivendicazione nuova”.
In occasione di Antonio e Cleopatra, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 25 a sabato 27 gennaio alle 21:00 e domenica 28 alle 15:30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Valter Malosti, attore e direttore di ERT / Teatro Nazionale.
Dopo il debutto a Modena, e dopo gli spettacoli a Bologna, Valter Malosti porta il teatro di Shakespeare a Ravenna: una versione sfoltita del 50%, rispetto al testo originale, che promette di portare tutta l’essenza di Shakespeare al grande pubblico.
Malosti, come diceva Calvino, “Un classico è un testo che non ha mai finito di dire quello che ha da dire”: cosa ci dicono, oggi, Antonio e Cleopatra? Cosa fa dire, a loro, la sua regia?
“Antonio e Cleopatra è un classico, ma è sconosciuto: in genere il pubblico ha nella mente la figura di Cleopatra, chi è pratico di storia romana conosce il periodo legato a Marco Antonio, a Cesare, ma nell’immaginario collettivo esiste solo la figura della protagonista (qui interpretata da Anna Della Rosa, ndr). Il testo è complesso e Shakespeare, per scriverlo, prende spunto da due libri: La vita di Antonio, scritta da Plutarco, ne Le vite parallele, e Iside e Osiride. Emerge quindi una sorta di figura mitologica che, come sottolinea Enobarbo, un personaggio praticamente sconosciuto in Italia, ‘anche i santi e i sacerdoti benedicono quando pecca di lussuria’. Cleopatra mette insieme sacro e profano e l’eros è l’elemento principe di tutto il testo: per il pubblico si tratta di una estrema storia d’amore, pazza e libera. Come dice Nadia Fusini, per Antonio l’incontro con Cleopatra rappresenta una sorta di scoperta di sé, perché attraverso lei diventa se stesso”.
Il pubblico come lo ha accolto?
“Si tratta di un testo apparentemente molto popolare: in queste prime uscite tra Modena e Bologna abbiamo registrato un largo riscontro, è piaciuto a tutte e a tutti. È un testo molto diretto, popolare, ma al suo interno ci sono tante correnti sotterranee”.
Lei stesso è in scena nei panni di Antonio: qual è il contributo che dà a questo personaggio?
“La figura principale è indubbiamente quella di Cleopatra e solitamente gli attori italiani sono i primi a non voler vestire i panni di Antonio, in quanto è ritenuto un personaggio ‘tinca’ perché, così come il pesce, non sa di molto. Invece io lo ritengo un buffone tragico, una figura che permette di rendere estremo il pensiero. L’aspetto metateatrale, nel testo, è molto evidente, al punto che Antonio e Cleopatra sembrano due attori di Bernard, che si rinfacciano le cose in scena. Shakespeare era avanti anni luce: per lui la relazione con il pubblico è diretta, racconta una favola che però è più vera del vero. La cosa buffa che ho scoperto è che, avendo lavorato molto su Sogno di una notte di mezza estate, ho trovato parecchie parti in comune. Quando Antonio si dispera, ad esempio, sembra quasi Bottom, nonostante in lui viva anche una parte di Oberon”.
Antonio e Cleopatra è un’opera è molto partecipata: come è riuscito a operare questa riduzione?
“È stato un adattamento hard, ho tagliato quasi il 50% del testo, non sarebbe stato possibile fare altrimenti, lo spettacolo sarebbe durato 5 ore. Ritengo abbia fatto bene, al testo, essere sfoltito. Una cosa che ho evitato è stata quella di creare dei doppi: ogni attore fa un solo ruolo, un aspetto che sicuramente rende più difficile l’adattamento. Ne emerge un’opera scabra, quasi scultorea, che semplifica ma non lede le caratteristiche del testo”.
Tecnicamente l’opera di Shakespeare è una tragedia, ma pare che qui i registri si incrocino con grande facilità…
“Assolutamente: Shakespeare scrive in totale libertà, a lui non interessa rientrare in un genere, il tutto sta insieme e si tiene miracolosamente. Non c’è, per forza, un significato esposto, è l’insieme delle cose a darci la somma del tutto”.
In occasione di Trappola per topi, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 11 gennaio a sabato 13 gennaio alle 21:00 e domenica 14 alle 15.30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Ettore Bassi, attore e protagonista di questo nuovo debutto.
Volto televisivo degli anni ’90 – in molti ricorderanno il maresciallo Andrea Ferri, protagonista della serie tv Carabinieri – Ettore Bassi ha coltivato, in parallelo, la passione per il teatro che oggi lo porta a debuttare, a Ravenna, nello spettacolo Trappola per topi diretto da Giorgio Gallione.
Bassi, lei ha iniziato lavorando come attore e conduttore televisivo, frequentando anche il cinema. Quando ha incontrato il teatro?
In realtà è successo abbastanza presto: era il 1994, è stato un primo spettacolo con Enrico Maria Lamanna, poi due anni dopo ho debuttato con Uno sguardo dal ponte, insieme a Michele Placido, un vero debutto teatrale che ha aperto una strada soprattutto in me. Quella è stata la conferma che il teatro, pur avendo avuto un breve percorso di formazione teatrale, sarebbe dovuto essere presente nella mia strada.
Tra teatro, cinema e tv, chi vince?
Dipende dalla storia, dal tipo di avventura che viene proposta. Sono forme diverse di rappresentazione, anche dal punto di vista tecnico, ma tutte ugualmente affascinanti e complesse. La differenza la fa la storia, il personaggio da interpretare.
A proposito di personaggi, lei ne ha interpretati diversi: ce n’è uno che le è rimasto addosso?
Sono rimasto legato ad un personaggio che forse pochi ricordano, il pediatra Corrado Milani di Nati ieri, una serie tv a cui ho voluto molto bene, ma che è stata sfortunata non certo per ragioni di qualità. In quel contesto ho fatto tante ore di tirocinio in ospedale, nel reparto di Neonatologia. Poi non posso non citare la serie tv Chiara e Francesco, in cui ho indossato i panni di San Francesco, ma ricordo con affetto anche Giorgio Piromallo nella mini serie insieme a Beppe Fiorello, dove ho avuto la possibilità, non scontata, di giocare con il mio personaggio e di poter esprimere la mia creatività.
Oggi debutta a Ravenna con un classico di Agatha Christie: che rapporto ha con questa autrice?
Questa autrice mi ha sfiorato diverse volte, tra l’altro il traduttore della Christie in italia, Edoardo Erba, è un amico. Sono molto contento e curioso di confrontarmi con questo testo e con il mio personaggio, nell’ambito di una trama scritta da un caposaldo della letteratura gialla.
A Londra questo spettacolo va in scena all’Ambassador ininterrottamente da 70 anni, e ogni volta miete successi. Cosa lo rende attuale?
È lo stesso meccanismo che rende attuale Odissea e tutti i classici, come ad esempio Il Gattopardo. Queste opere sono eterne, riguardano tutti e sempre. Sono scritte con sapienza, attenzione e un’epica in grado di far immedesimare lo spettatore in ogni momento della vita.
Nel 2017 comincia a lavorare come insegnante in varie scuole di formazione per attori: come trova le nuove generazioni, quali sono, oggi, le aspirazioni di chi si approccia a questo mondo?
Sono aspirazioni di vario genere: spesso molte persone cavalcano l’onda dell’illusione, perché questo mondo viene rappresentato attraverso i media e i social come qualcosa che offre rapido successo ed esposizione anche con poche competenze. Molti aspiranti attori sono illusi, trovo che quasi tutti abbiano un distacco quasi totale con la consapevolezza di sé. Molti sono disabituati rispetto alla percezione del proprio corpo e del proprio sentire: non camminano, quindi cerco di compiere un percorso che li faccia partire dall’inizio molto più di quanto abbia fatto io anni fa. Per questo, spesso, cerco di disilluderli: quello che mi interessa è la formazione più profonda, quella che si sostanzia. La situazione è abbastanza preoccupante, anche se questo aspetto si coniuga ad un’enorme facilità di approccio rispetto a materie che entrano nella nostra quotidianità e di cui si parla tutti i giorni. Quello che serve è un luogo in cui rimettere in ordine le cose, ed è per questo che ho iniziato ad insegnare: il mio obiettivo non è formare attori, la recitazione è una costola della vita. Grazie al teatro si vive meglio perché ci si conosce meglio, si è più utili al mondo e a sé stessi.
In occasione di Kohlhaas, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 da giovedì 23 novembre a sabato 25 alle 21:00 e domenica 26 alle 15.30 al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Marco Baliani, attore e regista.
Marco Baliani è tante cose: un attore, un regista, uno scrittore. Alla base di tutto c’è una fine capacità di narrazione che lo ha reso, sul finire degli anni ’80, involontario pioniere del teatro di narrazione. Una vita spesa a raccontare, prima ai piccoli poi ai grandi, poi ad entrambi, con la convinzione, come diceva Italo Calvino, che “sta al narratore organizzare i passaggi obbligati per arrivare alla soluzione della storia, tenerli su uno sopra l’altro come i mattoni di un muro e usando per cemento l’arte sua”.
“A me piace affrontare temi che riguardano il passato prossimo – osserva Baliani – ma non dal punto di vista del teatro civile: non voglio dare una spiegazione di come sono andate le cose, non mi piace l’intervento didascalico, tantomeno didattico, perché credo che il teatro abbia bisogno di conflitti. Se ci si pone dal punto di vista del cronista, allora questo lo sanno fare meglio i vari Travaglio, Iacona, che, infatti, riempiono i teatri. Con Corpo di Stato non volevo raccontare la vicenda di Aldo Moro, ma cosa è successo a me in quei cinquantacinque giorni. Sono stato spietatamente sincero, non volevo dare un giudizio storico, così come con Una notte sbagliata non volevo riferirmi direttamente alla vicenda di Cucchi, ma volevo analizzare la violenza sull’inerme. La mia è una domanda esistenziale, non politica. Non volevo trattare il fatto di cronaca, ma mi interessava fornire i diversi punti di vista di chi partecipa alla vicenda: per questo prima divento l’inerme, poi i poliziotti, poi il cane che assiste alla scena. Questo per dire che la realtà è più complicata di come appare. A me piace quando il pubblico va via inquieto, col ‘magone’. Non mi interessa suscitare indignazione, perché questo sentimento assolve colui che lo prova e serve solo a mettere la coscienza a posto. Quando il teatro civile fa questo, non pone domande, semplicemente espone un giudizio”.
Come nasce il teatro di narrazione?
“Teatro di narrazione è un’etichetta inventata dai critici Ugo Ronfani e Renato Palazzi, che vennero a vedere Kohlhaas, primo esempio di questo genere, nel 1989. In realtà lo spettacolo nasce due anni prima per le scuole, nell’ ‘87. La domanda da cui scaturisce è: ‘Come ci si comporta davanti ad un’ingiustizia subita?’, ovvero una delle tante domande che hanno a che fare con la complessità della nostra vita, che è fatta di luci e ombre. Amo le fiabe perché ci dimostrano che la vita è complessa e complicata, il protagonista non sa mai che pesci prendere, detto questo non avrei mai pensato di creare un genere. Da quella volta, tutti quelli che lavorano sulla dimensione dell’attore che, da solo, racconta una storia, vengono iscritti in questo filone, che nel tempo è diventato gigantesco e contempla anche cattedre all’Università. Forse ho solo dato inizio a qualcosa che era già nella società, semplicemente l’orecchio è stato rimesso al centro”.
Lei ha iniziato la sua attività lavorando con i ragazzi: com’è, oggi, il dialogo con le giovani generazioni?
“È un dialogo difficilissimo: poveri, quegli insegnanti, che hanno a che fare con nuove tribù di giovani. Oggi parte del sapere arriva dai social e non sappiamo ancora cosa produrranno questi strumenti; resta il fatto che, tramite un cellulare, passa un’ingente quantità di informazioni molto superficiale. Sono informazioni liquide, che però in un modo o nell’altro producono sapere e non possiamo fare finta che non sia così. Dovremmo iniziare a mettere al centro i sentimenti piuttosto che il logos. Prima, quando si studiavano gli Assiri, ci voleva tempo per ricercare le informazioni, ora è tutto immediatamente disponibile su Wikipedia. A questo punto la scuola si dovrebbe occupare del tempo residuo, del tempo che si risparmia nel non dover condurre la ricerca. I social non vanno demonizzati, credo che occorra barcamenarsi tra il futuro che ci attende e il passato che abbiamo. Non dimentichiamoci che il racconto ha cementato dai primordi il consesso umano e che quindi tutto è ancora possibile. Quando porto in scena lo spettacoloFrollo, i ragazzi stanno a bocca aperta dall’inizio alla fine, dimostrando che la voglia di ascoltare è insita nel nostro dna”.
Per Rai Radio 3 insieme a suo figlio Mirto sta portando avanti il progetto l’Italia è una favola, in cui ad ogni regione viene associata, appunto, una fiaba. Quale ha scelto per l’Emilia-Romagna?
“Ho scelto La regina dello stagno, una fiaba bolognese che parla di animali. Ogni favola, e sono ovviamente venti, ha una caratteristica diversa: questa è governata da un’animalità totale e racconta di una regina immersa in uno stagno che ne uscirà grazie all’impegno del protagonista Sandrino. L’Italia è una favola è un progetto dedicato a Italo Calvino, sono fiabe rivisitate da me, con Mirto (suo figlio ndr) che si occupa delle musiche e, in appendice ad ogni puntata, c’è un dialogo con l’antropologo Marino Niola. È un lungo lavoro che mi riporta alle origini, a quando ho iniziato a raccontare fiabe ai bambini”.
Oggi abita a Ravenna: cosa le piace di questa città?
“Abito a Ravenna da poco prima dell’alluvione, sono stato ‘battezzato’ da questo terribile evento. Ho vissuto tanti anni a Roma, poi a Parma e infine a Ravenna e sono dell’idea che non si possa vivere in posti brutti. Ho trascorso l’adolescenza ad Acilia, una borgata romana da cui sono riuscito a scappare grazie ai libri, alle letture, che mi hanno rivelato altre possibilità di vita. Ravenna è meravigliosa, mi piace la sua urbanistica, l’idea che dal centro, spostandosi verso la periferia, si incontrino case basse e non palazzoni”.
Dopo il primo dei tre spettacoli in Stagione, Kohlhaas, lunedì 27, alle 15.30, proporrà una lezione aperta al pubblico, di cosa si tratta?
“Sarà uno smontaggio drammaturgico dell’opera: ne racconterò la struttura ritmica, sarà una lezione di teatro per gli spettatori che lo hanno visto, ma soprattutto per tutti coloro che amano il teatro. L’ho fatto pochissime volte, da quando abbiamo creato lo spettacolo, ma è sempre una bellissima forma di trasmissione”.
È un omaggio all’uomo, all’amico, ancor prima che allo scrittore e all’intellettuale, quello che Teatro Koreja rivolge alla memoria di Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente nel novembre del 2017 a causa di un malore improvviso.
Del resto, come ha fatto notare a più riprese un altro grande scrittore, Nicola Lagioia, e come ha ricordato Salvatore Tramacere, direttore di Teatro Koreja, nel corso di un’intervista che annuncia l’arrivo dello spettacolo al Teatro Rasidi Ravenna sabato 18 novembre (ore 21.00), “le persone ricordano non tanto i titoli dei suoi libri, ma lo spessore di un uomo che ha fatto, del sincero interesse per gli altri, una ragione di vita. Tempo fa, durante una conversazione, Lagioia mi faceva notare come, incredibilmente, più passavano gli anni, più cresceva l’interesse nei confronti di Alessandro. Ed effettivamente questo è un trattamento riservato a pochi, tra cui Pasolini, che è stato un profeta. Certo, si tratta di carature differenti, ma entrambi sono stati lungimiranti precursori del proprio tempo e di loro, prima dei libri che hanno scritto, si ricorda la persona”.
Tramacere, come è avvenuto l’incontro tra Leogrande e Teatro Koreja?
“Alessandro era di Taranto, gravitava nell’orbita di Goffredo Fofi, ne era il vicedirettore in quanto aveva assunto la responsabilità di portare avanti la rivista Lo Straniero. Quasi naturalmente ci ritrovammo in situazioni che ci vedevano insieme, ma il motivo principale era il comune interesse nei confronti dell’Albania. Alessandro, da tempo, aveva cominciato a seguire questa realtà: si appassionò, ad esempio, al lungo processo legato alla nave Katër i Radës che il 28 marzo del 1997, giorno del Venerdì Santo, fu speronata nel Canale di Otranto da una corvetta della Marina militare italiana. Parallelamente noi lavoravamo con l’Albania, con cui avevamo una relazione da almeno 25 anni. Entrambi avevamo capito che i nostri fratelli si trovavano al di là del mare e che servivano nuove modalità di incontro. Ognuno lo faceva a suo modo, lui scrivendo, noi con il teatro. Ci siamo così ritrovati a percorrere le stesse strade: abbiamo incontrato scrittori, gente di teatro, di cinema. Alessandro aveva l’idea di un Sud che andava riscattato, ma questo riscatto non doveva passare necessariamente da una lotta culturale italiana: per lui esisteva un campo più esteso, quello dell’area Mediterranea. Il sud non è una questione di geografia, ma è un qualcosa che si ha dentro e che si può ritrovare a qualsiasi latitudine”.
Cosa manca, oggi, a distanza di sei anni, di questo grande intellettuale?
“Manca la capacità di ascoltare, l’abilità, incredibile, di vedere l’altro senza giudizio, di giustificarlo anche nell’errore, una dote di pochi. Alessandro aveva la capacità di analizzare le situazioni solo dopo averle scandagliate per bene: non prendeva mai posizione per partito preso, o per principio, ma era sinceramente interessato all’altro, e questo non solo perchè era buono, ma perché voleva davvero capire perché accadevano le cose. Alessandro aveva una maniera diversa di approcciarsi alle questioni: prima di tutto le studiava, ed era capace di rivedere la propria posizione. Era una persona estremamente curiosa e scriveva di tutto, anche di calcio. Era consapevole che di ogni argomento si potesse trovare una lettura a più livelli. Era uno strano intellettuale, anche se non so se avesse piacere di essere definito così. A noi manca il suo pensiero critico, la sua attenzione. Mi capita spesso di pensare a cosa avrebbe detto Alessandro di fronte ad un determinato avvenimento, come lo avrebbe commentato, quale sarebbe stato il suo approccio. Manca la sua capacità relazionale, il suo sapersi mettere nei panni dell’altro, il suo interesse sincero, la volontà di capire realmente chi ci sta intorno”.
Come avete organizzato lo spettacolo?
“Lo spettacolo racconta la complessità di quest’uomo attraverso le sue parole e i suoi ricordi anche grazie all’aiuto di sua madre, che ci ha donato materiali straordinari per poterlo raccontare. Si tratta di un lavoro dove, oltre alla narrazione delle tante situazioni di cui si è interessato, dall’immigrazione al caporalato, abbiamo inserito il canto. In scena, però, ci sono quattro attrici che non sono propriamente cantanti, in quanto abbiamo inteso il suono a servizio della parola raccontata. Ci è sembrata la chiave per descrivere Alessandro in maniera più diretta: l’obiettivo non era quello di creare un ricordo – ci sono già ritratti bellissimi, come quelli tracciati da Nicola Lagioia – ma trovare una forma che lo potesse raccontare”.
La figura di Leogrande era nelle corde di Teatro Koreja, da sempre testimone di un teatro di inclusione e di integrazione: qual è il cuore della vostra attività?
“Le corde si allungano, si spezzano, si attaccano: per noi è da sempre fondamentale il lavoro sul suono, sul canto, sul cercare di trovare e di trasmettere emozione anche tramite questi strumenti. Fin dall’inizio ci siamo caratterizzati per questo approccio al teatro e continuiamo a portarlo avanti perchè lo riteniamo un modo che ancora riesce a parlare all’oggi”.
A partire dal mese di ottobre tornano le proposte di Drammatico Vegetale / Ravenna Teatro rivolte al pubblico più giovane. Come avvenuto durante la scorsa Stagione, La Stagione dei Piccoli e Ragazzi a Teatro – sostenute dall’assessorato alla Scuola del Comune di Ravenna – sono confluite in Famiglie e Scuole, affiancando il programma de La Stagione dei Teatri. Ampio il pubblico a cui si rivolge: da un lato ci sono i ragazzi e le ragazze delle scuole, dal nido agli istituti secondari di primo grado, accompagnati dai loro insegnanti, mentre dall’altro ci sono famiglie che attingono al potere immaginifico del teatro per donare ai bambini e alle bambine nuovi strumenti di lettura del presente. Come ormai da tradizione, i teatri coinvolti saranno il Rasi e il Teatro Socjale di Piangipane, in via Piangipane 153, a Piangipane, a cui si aggiunge la sede del MAR, Museo d’arte della città, in via di Roma 13.
La rassegna conta venticinque spettacoli rivolti ad età diverse: dal nido alla secondaria di secondo grado i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, vengono coinvolti in percorsi che, in alcuni casi, prevedono anche una partecipazione attiva. Compagnie provenienti da tutt’Italia si alternano in scena portando storie vincitrici di premi prestigiosi, che aiutano i piccoli ad acquisire importanti strumenti di crescita. In molti spettacoli sono inoltre presenti musicisti e musiciste, aspetto che contribuisce a cementare il legame con il mondo del teatro attraverso una lingua universale.
Anche quest’anno la Stagione sarà inaugurata il 15 ottobre al Rasi da una produzione di Ravenna Teatro dal titolo “Thioro. Un cappuccetto rosso senegalese”, uno spettacolo caro a Ravenna Teatro per il rapporto con il Ker Théâtre Mandiaye Ndiaye. Lo spettacolo mette in corto circuito la fiaba europea di Cappuccetto Rosso con la tradizione africana: in scena e in dialogo Adama Gueye, Fallou Diop – attori e musicisti – accompagnati dalle note di Andrea Carella.
Proseguono poi le collaborazioni che hanno contribuito al radicamento di questa offerta in città. Con il MAR, museo d’arte della città, e il progetto il MAR dei piccoli, continua un percorso mirato ad aprire il museo ai più piccoli: a febbraio andrà infatti in scena lo spettacolo-esposizione interattiva dedicato a Gianni Rodari, dal titolo “Slurp!”, in cui i piccoli praticheranno attività legate al cioccolato. Sempre in febbraio con Istituzione Biblioteca Classense andrà invece in scena al Teatro Socjale di Piangipane lo spettacolo “La stanza di Agnese. Paolo Borsellino negli occhi di chi lo ha amato”, in collaborazione con Rete BILL Ravenna – Istituzione Biblioteca Classense e Ravenna contro le Mafie.
“Lo spettacolo per i ragazzi e le ragazze – spiegano Pietro Fenati e Elvira Mascanzoni, co-fondatori di Drammatico Vegetale – è il racconto di una vita che nasce e si compie in poco meno di un’ora, spazio compreso fra l’apertura del sipario e l’applauso finale. La nostra Stagione, che raccoglie tanti titoli e quindi tante storie diverse, disegna una grande storia, una nuova vita, piena di emozioni e incanto. Nel cuore del programma abbiamo collocato il debutto della nostra nuova creazione, ‘Poemetto illustrato’, fiaba contemporanea che dialoga fra la parola poetica e l’evocatività delle immagini”.
“Ringrazio di cuore – osserva l’assessora all’infanzia del Comune di Ravenna Livia Molducci – gli organizzatori di questa importante rassegna teatrale che completa l’offerta, già ricca, della Stagione dei Teatri, con un programma di alta qualità appositamente pensato per le scuole e famiglie della nostra comunità. Sono fermamente convinta, per esperienza personale, che il teatro ci regali incredibili benefici psicologici ed emotivi, e ci aiuti a riflettere e comprendere meglio ciò che ci circonda. Mi pare inoltre che l’offerta predisposta quest’anno da Drammatico Vegetale e Ravenna Teatro consenta ai bambini e ragazzi della nostra comunità di cogliere l’occasione del potente incontro con il teatro per amarlo e praticarlo nel loro futuro, almeno questo è il mio augurio”.
Nell’ambito del ricco cartellone rientrano infine i Percorsi educativi al Teatro Rasi, rivolti a insegnanti e genitori in collaborazione con l’Ufficio Qualificazione e Formazione Scolastica del Comune di Ravenna che si svolgeranno tra aprile e maggio e che prevederanno una riflessione sulla Stagione passata. Due gli ospiti di rilievo: l’artista Luigi Berardi terrà due incontri formativi sulla land art, mentre Chiara Guidi, co-fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio, porterà a riflettere sul rapporto tra arte e scuola.
Gli uffici di Ravenna Teatro sono aperti dal lunedì al venerdì dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 18:00, tel. 0544 36239.
La rassegna è organizzata con il supporto del Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna, Coop Alleanza 3.0, Fondazione del Monte di Bologna e di Ravenna, Assicoop Unipol Sai, Reclam, Bcc ravennate, forlivese e imolese, Ottima e si svolge in collaborazione con Assitej Italia, Small Size Network, Paft, Teatro Socjale, Mar.
Gli spettacoli per le scuole sono organizzati in collaborazione con Accademia Perduta / Romagna Teatri.
Media Partner: Il Resto del Carlino, Corriere Romagna, Ravenna Notizie, Setteserequi, Ravenna Web Tv, Pubblisole, Ravenna24ore.
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