È aperta la campagna abbonamenti per La Stagione dei Teatri, organizzata da Ravenna Teatro.
Il programma si svolgerà nei due teatri Rasi e Alighieri tra novembre e aprile.
Come negli anni precedenti, la formula prevede sei titoli fissi e due a scelta, per un totale di diciassette appuntamenti.
Un cartellone composito, come composita è l’immagine che, tramite precise tessiture ideate dal grafico Luca Sarti, identifica il lavoro di Ravenna Teatro, legato al rapporto con la tradizione e al ritorno di grandi attori e attrici, con un percorso che spazia nel contemporaneo fino all’incontro con la graphic novel.
I sei spettacoli fissi, programmati al Teatro Alighieri, sono: I due gemelli veneziani, un classico di Carlo Goldoni, una farsa nera sul tema dell’identità firmata da Valter Malosti che ne amplifica il gioco del doppio marcando il contrasto tra la natura vivace della pièce e la sua vena cupa;Funeral Home, di cui è protagonista Giacomo Poretti: noto per le gesta gloriose del trio comico a cui appartiene, Poretti scrive e interpreta – con l’attrice, autrice e psicoterapeuta Daniela Cristofori – una commedia che mette in ridicolo la paura più radicata nel cuore dell’umano, quella della morte;Samusà, uno spettacolo scritto e interpretato dall’artista Virginia Raffaele, qui diretta da Federico Tiezzi, maestro della scena contemporanea. Al centro del racconto il vissuto personale di un’infanzia ambientata tra le giostre del’Eur di Roma, che Raffaele sviluppa con quel suo modo unico di divertire e commuovere, stupire e interpretare, facendo ridere a crepapelle; L’Oreste, Quando i morti uccidono i vivi, porta in scena una riflessione sull’abbandono e sull’amore negato che vede protagonista l’attore Claudio Casadio nella produzione firmata da Accademia Perduta/Romagna Teatri tra narrazione e illustrazione d’autore; Diplomazia, produzione del Teatro dell’Elfo, è un duello consumato con l’arma della parola tra un generale del Terzo Reich e un diplomatico della Svezia neutrale nell’estate del 1944. Un dramma storico in cui affondano le radici della nostra società, portato in scena dai due co-fondatori della storica compagnia milanese del Teatro dell’Elfo di Milano; Boston Marriage è un testo americano contemporaneo ambientato a fine Ottocento che prende spunto da un modo di dire in voga negli Stati Uniti tra il XIX e il XX secolo, usato per alludere a una convivenza tra donne economicamente indipendenti. Il Premio Pulitzer David Mamet qui se ne serve per dare il titolo a questa commedia, che vede in scena due dame e una cameriera: Maria Paiato, Mariangela Granelli e Ludovica D’Auria.
Nella rosa di titoli in cui poter individuare gli spettacoli a scelta rientra invece la produzione di Ravenna Teatro/Teatro delle Albe, Pasolinacci e Pasolini, Quattro movimenti di ascolto, in cui i due fondatori e direttori artistici del Teatro delle Albe, Marco Martinelli e Ermanna Montanari, raccontano il “loro” Pasolini (Rasi); Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa, un lavoro che rievoca l’opera di Kafka a partire dall’incontro tra ricerca coreografica e musica elettronica con la regia e drammaturgia di Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses e Julia Varley (Rasi); Dati sensibili: New Constructive Ethics, uno spettacolo in cui Teodoro Bonci Del Bene si interroga sulle possibilità di una nuova etica con un testo duro e paradossale sulla condizione umana e sulle relazioni sociali (Rasi); Calēre (Sentieri) Transitus Animae, testo e regia del ravennate Eugenio Sideri che si sofferma sulla difficoltà, da parte delle nuove generazioni, di trovare il proprio percorso (Rasi); L’amica geniale a fumetti, trasposizione scenica del fumetto ufficiale de L’amica geniale di Elena Ferrante – sceneggiato da Chiara Lagani che qui ne interpreta i testi, mentre il pubblico viene immerso nei disegni animati di Mara Cerri – il recital nasce dalla nuova graphic novel edita da Coconino Press con la supervisione artistica del ravennate Davide Reviati (Rasi). E Reviati torna nello spettacolo di Luigi Dadina, tra i fondatori del Teatro delle Albe, dal titolo Mille Anni o giù di lì, insieme al musicista Francesco Giampaoli per raccontare un luogo, il petrolchimico dell’Anic, attorno a cui si dipana un racconto che accomuna generazioni diverse (Rasi). Tra i titoli a scelta anche La luce intorno, produzione del Teatro dell’Argine che si interroga sul senso di fare teatro in tempo di pandemia (Rasi); Il Soccombente, a cura della Compagnia Lombardi-Tiezzi (Alighieri); Museo Pasolini, di Ascanio Celestini, che qui veste i panni di un visionario custode di un ipotetico museo dedicato all’omonimo poeta e regista imbastendo un racconto che si estende a ritratto di un secolo italiano (Alighieri); Pragma, Studio sul mito di Demetra (Rasi) e Una riga nera al piano di sopra, monologo per alluvioni al contrario, della talentuosa Matilde Vigna, che intreccia alla piena del Po del 1951 la vicenda di una donna dei giorni nostri alle prese con l’ennesimo trasloco (Rasi).
Anche quest’anno, inoltre, Ravenna Teatro, in collaborazione con il Comune di Ravenna, torna ad offrire ai residenti delle Circoscrizioni Nord e Sud del comune di Ravenna e ai residenti di quelli di Alfonsine l’opportunità di recarsi a teatro usufruendo di un servizio navetta gratuito. Abbonamento più navetta 146 euro / under 30 93 euro.
Grande attenzione continua ad essere riservata anche agli Under 20, che potranno usufruire di abbonamenti a prezzi popolari.
Si ricorda che i titolari dell’abbonamento della stagione 2019/2020 possono confermare il posto che avevano nella stagione interrotta. Il diritto di prelazione sull’abbonamento scade il 15 ottobre.
BIGLIETTERIA
Da lunedì 12 settembre a giovedì 3 novembre
Platea e palco I, II e III ordine Teatro Alighieri, I gradinata Teatro Rasi
intero 165 € | ridotto* 146 € | under30 93 € | under20 45€
Galleria e palco IV ordine Teatro Alighieri, II gradinata Teatro Rasi
intero 113 € | ridotto* 103 € | under30 71 € | under20 35 €
Loggione Teatro Alighieri, II gradinata Teatro Rasi
intero 50 € | under30 34 €
*Riduzioni: Cral e gruppi organizzati, docenti, oltre i 65 anni, iscritti all’Università per gli Adulti Bosi Maramotti, Soci Coop Alleanza 3.0, EspClub Card, Soci BCC, tessera Touring Club Italiano, amici di RavennAntica, soci Stadera, soci AVIS
Vantaggi e promozioni per gruppi di adulti e gruppi scolastici. Abbonamenti e biglietti sono acquistabili con bonus 18APP e Carta del docente.
Teatro Alighieri, via Mariani 2 Ravenna, tutti i feriali dalle 10:00 alle 13:00, giovedì anche dalle 16:00 alle 18:00.
Teatro Rasi, via di Roma 39, giovedì dalle 16:00 alle 18:00.
Da sabato 5 novembre saranno inoltre in vendita i biglietti per tutti gli spettacoli e gli abbonati li potranno acquistare per sé o per altri a un prezzo speciale.
Informazioni: Ravenna Teatro tel. 0544 36239 info@ravennateatro.com
La rassegna è organizzata con il supporto del Ministero della Cultura, Regione Emilia-Romagna, Comune di Ravenna, Coop Alleanza 3.0, Fondazione del Monte di Bologna e di Ravenna, Assicoop Unipol Sai, Reclam, Apt Emilia-Romagna, Bcc ravennate, forlivese e imolese.
Media Partner: Il Resto del Carlino, Corriere Romagna, Ravenna Notizie, Setteserequi, Ravenna Web Tv, Pubblisole, Ravenna24ore, Ravenna e Dintorni
In occasione di Nuditàal Teatro Rasi per La Stagione dei Teatri e ToDay ToDance, pubblichiamo qui di seguito l’intervista a Mimmo Cuticchio e Virgilio Sieni a cura di Chiara Pirri, che accompagna il foglio di sala dello spettacolo.
– La vostra collaborazione nasce alla fine del 2016 sotto il titolo Palermo_Arte del Gesto nel Mediterraneo_ Accademia sui linguaggi del corpo e l’opera dei pupi, un progetto che ha già dato vita a spettacoli, performance e laboratori. Cosa vi ha spinto a decidere di portare avanti una ricerca comune?
Virgilio Sieni:
L’incontro con Mimmo nasce dal desiderio di indagare il legame tra il corpo del performer e il corpo della marionetta con lo scopo di ampliare la ricerca tecnica intorno al corpo e al gesto, che appartiene al mio percorso. Naturalmente siamo partiti dalle riflessioni di Gordon Craig e Kleinst sulla marionetta. Protagonisti della ricerca sono ancora una volta gli elementi primari attorno a cui ruota il mio lavoro: la gravità, l’articolazione. Nel cercare la relazioni con l’altro da sé si deve accettare una forma di crisi del proprio mestiere, spogliarsi delle proprie abitudini, acuire percezione e intuizione. Ci siamo affidati l’un l’altro e insieme abbiamo ricercato una terza cosa.
La mia ricerca ha sempre riguardato un corpo articolare, un corpo che attraverso la tecnica andasse a scovare tutte quelle ampiezze, quei punti nodali in cui il corpo prende peso, assume una dinamica e quindi si sposta.
Mimmo Cuticchio:
Il nostro incontro fa parte di quel destino che accomuna le persone che operano una ricerca simile. Fin dalle prime discussioni abbiamo capito che c’erano punti in comune nel nostro lavoro. Io avevo già lavorato con i pupi messi a nudo. Anche l’universo della danza non mi era nuovo. Quando, da figlio d’arte, osservando mio padre muovere i pupi da dietro le scene, avevo notato che i suoi movimenti erano armonici, pure nell’immobilità. Dopo aver portato i pupi dal piccolo teatrino alla grande scena, in alcuni spettacoli ho introdotto la danza con i pupi. Il mio viaggio quindi era già avviato quando, con Virgilio, abbiamo deciso di sperimentare insieme, andare oltre quello che ognuno di noi sapeva già fare. Abbiamo deciso di sperimentare con i giovani, in una prima fase laboratoriale, andando alla ricerca dell’anima della super-marionetta di Craig. Nelle prime sperimentazioni con Virgilio io ho usato pupi in paggio (non armati) e pupi nudi, il piano a cilindro per la musica, il ritmo del cunto siciliano.
– Il concetto di ‘risonanza’ sembra essere alla base della vostra collaborazione. Ma cosa intendente con questo termine?
Virgilio Sieni:
L’idea della risonanza, in danza, indica il non subire la gravità e quindi non entrare in una dimensione di depressione del corpo. La ‘risonanza’ non è soltanto la ricerca di strategie per risollevarsi, ma soprattutto il dialogo costante con la gravità attraverso il sistema articolare. Mi viene da dire che la politica di oggi avrebbe tanto da imparare da questo concetto. La risonanza ha a che fare principalmente con l’ascolto, con l’istaurarsi di una disposizione di apertura, spogliamento dalle sovrastrutture che appesantiscono, abbandonare i pregiudizi e porsi di fronte all’altro per comprendere la dimensione umana, culturale e politica. La risonanza per il danzatore passa dalla tecnica; bisogna capire come il peso può risuonare non solo nei piedi ma in tutto il corpo, in piani orizzontali che coincidono con le articolazioni e non solo verticali. La risonanza è quindi un’esperienza di vita ed un’esperienza democratica del corpo, ma anche un’esperienza politica che prevede l’ascolto e la pratica dell’attesa.
– L’Opera dei pupi risale al 1700 ed è ormai iscritta nel Patrimonio dell’Unesco. Due le scuole, quella palermitana e quella catanese e, di conseguenza, pupi che presentano delle diversità nella fabbricazione, più leggeri e snodabili a livello delle articolazioni i primi, più pesanti e con gli arti fissi i secondi. Questa collaborazione nasce anche dal desiderio di salvaguardare una tradizione in estinzione ?
Mimmo Cuticchio:
La tradizione della marionetta risale alla Sicilia d’epoca greca. Quando ho aperto il teatro dei pupi qui a Palermo (l’ultimo della città), avevo 25 anni. Durante gli anni ‘70 e ‘80 ho scritto nuovi testi, costruito nuovi pupi, fatto di tutto per mantenere viva una tradizione nata in tempi in cui non vi era il cinema né la televisione. Solo la sperimentazione e l’apertura ai giovani permetterà a quest’arte di sopravvivere. Nel ‘97 apro la scuola per Pupari e Cuntisti, grazie anche all’aiuto delle istituzioni. Il futuro per me è la contemporaneità, sia tradizione che avanguardia sono solo parole. La pratica, la continuità nella contemporaneità, questa è la vera tradizione.
Virgilio Sieni:
A me interessa preservare il senso dell’uomo in quanto abitante della terra, lavorare sul corpo mi permette di continuare a pormi delle domande alla ricerca di un maggior grado di consapevolezza. Il problema, in questo caso, non riguarda solo la marionetta e l’opera dei pupi come forme d’arte in via d’estinzione, ma tutto ciò che è attinente a un passato e come preservarlo, se in maniera olografica o alimentandolo dal di dentro. L’opera dei pupi, evidentemente, così come il corpo, ha bisogno di essere frequentata da dentro, poiché si sposta con il tempo. Ciò che trovo interessante quindi, è rintracciare nell’arte della marionetta qualcosa che possa darci lo slancio per intuire nuove strategie dell’oggi. I costumi tradizionali dei pupi, quasi sempre rifiniti da corazza e mantello, fanno riferimento alle storie tradizionalmente narrate da questo teatro, dall’Orlando Furioso alla Gerusalemme liberata…
– In Nudità i pupi sono spogliati e il titolo sembra annunciarlo fin dall’inizio. Cosa succede quando la marionetta viene spogliata dei suoi orpelli? E cosa accade al corpo?
Mimmo Cuticchio:
Il lavoro con Virgilio è molto interessante perché permette a entrambi di capire la possibilità di uno sdoppiamento. Quando abbiamo lavorato sulla pazzia di Orlando – scena tipica per la tradizione dei pupi – impersonificata dalla marionetta, Virgilio aiuta il personaggio, nel momento della follia, spogliandolo delle sue armi. Invece, quando io porto in scena l’angelo, che nel teatro dei pupi vola, va in alto sorretto dai fili; Virgilio, che non può andare in alto, fa tutto il contrario, striscia a terra. E un angelo che striscia è come una metamorfosi kafkiana. Nella vita non c’è mai una verità, la strada non è mai finita, c’è sempre qualcosa da aggiungere. Questo cerchiamo di insegnare ai giovani con cui lavoriamo.
Virgilio Sieni: Nudità si riferisce al fatto che in scena vi sia solo un danzatore che ‘semplicemente’ muove il corpo e una marionetta spogliata che, semplicemente, è ossatura. Ma quando dico ‘semplicemente’ bisogna stare attenti. La vita è molto complessa. Tutto è molto complesso. E oggi i grandi problemi politici vengono troppo semplificati e riassunti; tutto è reso troppo semplicistico. Voglio dire che la complessità è bella, poiché necessita mediazione, strategie. È importante quindi per me il titolo di questo lavoro, Nudità, perché esprime un azzeramento che ci porta verso una complessità. Prendere coscienza del fatto che ogni cosa ha una sua articolazione.
Valerio Binasco mi racconta della sua trasformazione alchemica di un classico del Novecento scandendo le parole e con un’emotività temperata dalla riflessione acuta di chi sa quanto una rappresentazione teatrale sia il risultato finale di una combinazione di fattori disparati.
Il regista li deve orchestrare accordandoli, come all’inizio di un concerto. Incontrarlo prima della prova del suo spettacolo mi ha dato la forte impressione della consapevolezza di un direttore d’orchestra che, dando vita a una partitura, ne stravolge per necessità quanto di morto ne rimane. Si tratta, ogni volta, di fa tornare a vivere qualcosa che non c’è più eppure c’è, oltre il paradosso. E si tratta, per un regista, di dare a quel paradosso una direzione stringente, che ci restituisca il senso di una necessità originaria. Tornare alle fonti di un classico significa attraversarlo per poi dimenticarlo, dopo esserne stati perciò completamente permeati. E sempre l’infedeltà apparente è una fuga dal museo per rendere attuale ciò che potrebbe essere solo contemplazione del consolidato e inerme passato. Ma il teatro vive nel presente, più di ogni arte pulsa di sangue e carne, fa sentire il suo respiro in un posto preciso, in un momento determinato. Come nella tragedia greca il pubblico è il coro, si scioglie, ma collettivamente, in un rito laico e arcaico, la polarizzazione tra artista che crea e pubblico che fruisce salta. Il teatro, sembra voler continuare a ribadire Valerio Binasco, è opera quanto mai collettiva, il pubblico ne è parte quanto il regista, gli attori, chi ha curato le luci e i suoni. Da una parte Ionesco, dall’altra questo preciso momento storico e chi sceglie un testo per rappresentare un sempre inedito tutto che è la benedizione e la maledizione del teatro, il suo doppio nodo da sciogliere perché fluisca, “per sempre adesso”, libero da costrizioni filologiche e reverenziali.
Il Teatro dell’assurdo di Ionesco rischia quindi e proprio per il suo essere già “classico” di diventare “il luogo del delitto” di uno spirito che, se non rinnovato, soffoca tra le sempre più velocemente mutevoli spire del tempo. Potremmo parlare di una sorta di operazione chirurgica a cuore aperto. Il cuore è quello di un’urgenza di pulsare in un presente che non c’è più, e ridargli vita.
Letteralmente, di rimetterlo in scena.
C’è qualcosa di liricamente scientifico (perdonate l’ennesimo ossimoro, tale forse solo in apparenza, a ben scavare) nella chirurgia di un classico che è anche diagnostica del contemporaneo e ricerca di nuovi percorsi storiografici.
Si va in scena sempre nel presente, anche in un presente così lontano da tutti i presenti trascorsi come quelli che dal 9 marzo 2020 hanno stravolto le nostre abitudini e le basi della vita quotidiana così come per decenni, pur attraverso fisiologiche mutazioni, le abbiamo vissute. Oggi resta ben poco delle intenzioni iniziali di Le sedie, ma quel “ben poco” è il preziosissimo sale alchemico su cui Binasco, assieme a Michele Di Mauro e Federica Fracassi e a tutti quelli che hanno partecipato a questa trasmutazione, ha lavorato con struggente precisione. Lavoro che trapela dalla sue parole. Intense, controllate eppure come un carsico sfondo ricche di un portato innovativo perché assolutamente interiore, fedele a un destino personale che diventa collettivo se espresso con precisione millimetrica, sfiorando quel vertice implicito in tutta l’arte che sempre rivela come i drammi nostri privati tanto assomiglino a quelli di tutti, e che l’uomo Dante disperso nei meandri del suo tempo non differisce da ogni altro uomo (o donna, va da sé) si sia inoltrato (e inevitabilmente lo fa) nella propria, personalissima selva oscura.
Questo è quello che ho sentito urgere nelle parole di Valerio Binasco.
Questo è quello che ho visto.
Innanzitutto… Binasco ha saputo calibrare con rigore l’aspetto oggi più ingannevole dell’etichetta Teatro dell’assurdo. L’apparente svampitezza di Ionesco, il suo “far ridere” grazie a un portato, perfettamente messo in scena, dell’umano e del suo linguaggio ridotto a pantomima di se stesso, non può, nel 2021, essere la spia di una debolezza, di un’incapacità umana tenuta nascosta. Se Jarry ha spinto alla caricatura assoluta la natura di “pupazzo animato” dell’uomo contrapponendola ai vari nipotini di un Nietzsche fin troppo frainteso (così si muove la Storia, quella con la “S” maiuscola, e il suo delirio shakespeariano), Ionesco sbuffoneggiava (uso volontariamente l’imperfetto) l’assurdo stesso, in una sorta di elevazione al quadro dell’assurdo: da quello esistenziale a quello teatrale, da quello teatrale a quello genericamente culturale nel proseguo di un discorso che chiamiamo “cultura” (o, meglio, “culture”, nel loro intrecciarsi) che pure ha i suoi luoghi elettivi, e il teatro è tra questi principe.
Dpcm permettendo e comunque.
Dicevamo della clownesca messa in scena del reale di Ionesco. Le sedie è un testo pensato anche, e molto, “per far ridere”.
E si ride, guardando (vivendo) Le sedie di Ionesco-Binasco.
Però…
In quel però c’è per chi scrive l’essenza di questo spettacolo, che sa di meraviglia, e meravigliosamente ha commosso chi scrive e le poche persone che, quel giorno, con lui lo hanno condiviso. Si tratta di vibrare nel presente. Questo presente che non è più, ne abbiamo ampiamente parlato, quello di Ionesco. La chiave di volta dell’impianto registico è semplice, e Dio sa quanto la semplicità richieda cura.
La chiave di volta dell’interpretazione di Binasco del testo di Ionesco, dicevamo, è l’accento sulla malinconia di un assurdo fatale, nel sangue del quale sfugge quell’inafferrabile filo che tutto lega, l’amore, e che continuamente ricuciamo, linguisticamente, come meglio ci riesce e sempre, per limiti della nostra natura, limitatamente. Le sedie di Ionesco-Binasco sono dunque una riflessione esiziale sull’amore. Sul suo proporsi giorno dopo giorno come necessario e impraticabile. Si cammina su soffici, ma non per questo non penetranti, e devastanti, spine sotto la scure implacabile del tempo. E fanno ridere e ci dispiegano sentimenti di sconosciuta tenerezza i due bravissimi attori intenti a raccogliere i rottami di una storia, quella della loro vita, che è poi quella di tutte le vite, con goffaggine straordinariamente composta, con vacuità che per inaspettato contraccolpo (un vero “colpo di scena!”) porta l’assurdo a sposarsi con l’elegiaco, in un matrimonio che non perde mai (perché forse l’ha persa da sempre, ma eroicamente così si reinventa, fino a naturale combustione) il senso di un abbraccio che rigenera il mito di un Eden perduto, di un infinito che vive da noi solo di strappi.
Una grande storia d’amore.
Bislacca per eccesso di verità. Quella che la psicanalisi sa non può essere detta e a cui l’arte, la vera arte, tende sempre fallendo l’obiettivo.
Di poco, ma sempre.
«Le sedie che Fracassi e Di Mauro dispongono attorno a sé sono, – mi dice Valerio Binasco -, “Tutti”», e tutti siamo tutti noi, e quelli che sono stati e che saranno, nell’inesplicabile particolarità di ogni situazione esistenziale, vera o falsa che sia non importa, perché il vero del teatro è tutto interiore, in una sorta di osceno (nel senso, questa volta, meramente etimologico di riuscire, proditoriamente, a evadere dalla scena per tornare, più forte, in noi) e renderci strabicamente veggenti. Lo strabismo è quello di Venere, va da sé, e i dardi mai scagliati sono quelli di Eros, accatastati in una torre di memorie sconclusionata eppure sacra, eppure dolcissima.
Le personalità dei due protagonisti si (con)fondono tra di loro, si separano solo per rivendicare peccati veniali di egocentrismo subito dissolti da una memoria che si conosce difettosa, tra quelli che, secondo una stupenda definizione di Hans MagnusEnzensberger, sono “vorticosi souvenirs” di una vita forse mai vissuta, parodia della parodia della commedia (e non tragedia, mai: per pudore, per dignità) umana.
Chi abita il palco di Le sedie?
Una coppia decrepita, due morti che si ritrovano, forse periodicamente e fuori dalle leggi del periodo? Non si sa e non ha senso saperlo («Ciò che è stato compreso non esiste più», scrisse Eluard). Il senso è nel loro sproloquio così terribilmente incandescente, “bucato” da un impossibile sogno di “normalità” che è forse l’eredità più importante di quello che fu storicamente il Teatro dell’assurdo.
E quanta gente, reale o non reale, abita il palco in cui vanno e vengono fantasmi (che poi, ci ricorda Leopardi nello Zibaldone, sono “anime di fantasia”)…
Così l’assurdo diventa una spina nel cuore, e da quella spina zampilla il sangue del vivo sui volti dei vivi che ne condividono, attraverso la magia del teatro, la ferita che solo la morte ricompone, nel finale che unifica tutti i finali, nel sipario che inevitabilmente si chiude.
Ma si riapre.
Si riapre sempre e sia per sfortuna o per fortuna non sta a noi dirlo, troppo attualmente spinti da forze maggiori e ingovernabili a assistere al “nostro” spettacolo.
Giorno dopo giorno.
Disponendo sul nostro palco privato “le sedie di tutti”.
Di tutti.
Tutti “Noi”.
Noi chi?
Non ci è dato saperlo.
Ma siamo tenuti a viverlo.
Tutti.
Noi.
Fino in fondo.
Nel silenzio sospeso dell’ultima scena.
IN VIAGGIO A MILANO: SABATO 21 e DOMENICA 22 MAGGIO 2022
Programma in via di definizione
Tre donne alte di Edward Albee in Prima Nazionale, un pomeriggio a Olinda.
Questo viaggio è la prima tappa di un’idea che mette in relazione gli spettatori ravennati con le realtà teatrali delle altre città. In collaborazione con il gruppo Viandando, Ravenna Teatro propone al pubblico un fine settimana a Milano alla scoperta degli spazi del Teatro Elfo Puccini – in pieno Corso Buenos Aires e “casa” della compagnia Teatro dell’Elfo – e di Olinda, l’area dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, oggi diventato centro culturale e sede di attività come TeatroLaCucina, bar, ristorante, ostello, residenze artistiche. Due giornate in cui si alterneranno incontri, spettacoli e convivialità.
1° GIORNO sabato 21 maggio
TEATRO ELFO PUCCINI
Partenza da Ravenna alle ore 7.00 (piazzale della Coop di Via Faentina) e da Cesena alle 7.30 (parcheggio dell’Hotel Unaway). Arrivo in hotel, sistemazione nelle camere riservate e pranzo libero. Alle ore 17.30 ritrovo presso il Teatro Elfo Puccini per un incontro con il gruppo di lavoro della compagnia dell’Elfo, fondata nel 1973 da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, con cui dialogheremo sulla loro storia e sulla politica culturale in una città come Milano.
L’aperitivo sarà servito nello spazio Bistrōlinda all’interno del teatro .
In serata assisteremo allo spettacolo in Prima Nazionale Tre donne alte di Edward Albee con Ida Marinelli.
2° GIORNO domenica 22 maggio
OLINDA e TeatroLaCucina
Prima colazione e rilascio delle camere, trasferimento in centro. Mattinata a disposizione per visite facoltative. Alle ore 12.00 ritrovo in Piazza della Scala e trasferimento a Olinda e al TeatroLaCucina. Dopo il pranzo organizzato nel ristorante Jodok, saremo protagonisti di un incontro con gli operatori del centro che ci illustreranno il percorso del progetto collettivo nato nel 1996 che li ha portati alla riqualificazione e rivalutazione dell’area dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini, oggi un’eccellezza per le attività culturali e di ospitalità della città. Al termine assisteremo ad una lettura a cura di Rosita Volani.
Verso le 17.30 sistemazione in pullman per il rientro. Arrivo in tarda serata.
QUOTA
individuale di partecipazione (se 30 partecipanti) 170 €
LA QUOTA COMPRENDE Viaggio in pullman Gt 50 posti con partenza da Ravenna e Cesena; 1 notte in camera doppia standard con prima colazione e tassa di soggiorno; Biglietto di ingresso al Teatro dell’Elfo per lo spettacolo Tre donne alte di Edward Albee con Ida Marinelli; Aperitivo del primo giorno e pranzo del secondo giorno bevande incluse.
LA QUOTA NON COMPRENDE Pasti, bevande, visite ed ingressi non menzionati; mance, servizio di facchinaggio ed extra in generale; tutto quanto non espressamente menzionato alla voce “la quota comprende”.
Informazioni e prenotazioni
Ravenna Teatro tel. 0544 36239 e info@ravennateatro.com
In occasione dello spettacolo Tutto brucia di MOTUS, ospite de La Stagione dei Teatri e inserito in ToDay ToDance, pubblichiamo due contributi inviatici da Daniela Nicolò e Enrico Casagrande: un testo di Daniela Nicolò sullo spettacolo con i rimandi al momento angoscioso di guerra che stiamo vivendo e un piccolo video di Vladimir Bertozzi, girato al primo workshop su Tutto brucia, tenutosi a L’Arboreto di Mondaino nel 2020, dove compaiono Brianda Carreras, Silvia Calderoni, Stefania Tansini e RYF.
Tutto brucia. ORA.
Presentare Tutto brucia ora in questo tempo tristemente infestato da una nuova guerra vicina e funesta lo colloca in un’altra prospettiva. È come se avessimo lavorato immaginando la catastrofe, chiusi nell’isolamento della pandemia e ora lo spettacolo con il suo bruciante grido di dolore entra a contatto con una realtà che sta superando di gran lunga la tragedia, che evoca tutte le catastrofi successe nella nostra maledetta storia infettata da machismo e volontà di possesso.
Avevamo lavorato su Cassandra (di Christa Wolf) durante un’altra sanguinosa guerra nella ex-Yugoslavia, nel 1994, dove stupri etnici e campi di sterminio erano di nuovo tornati sotto le telecamere della nostra lacunosa informazione… Poi un susseguirsi di tanti corpi bruciati visti in immagini di guerre lontane, dal Sudan al Congo, alla Siria… (più raramente, perché meno coperte dai media, non minacciando in modo diretto il nostro famigerato benessere).
Echeggiano anche i tanti racconti atroci della detenzione in Libia, sentiti da migranti che abbiamo incontrato in vari campi di pseudo-accoglienza, da Lampedusa alla giungla di Calè, per altri progetti, come Nella Tempesta che di naufragi e decolonizzazione parlava attraverso la scrittura in fiamme di Aimè Cesaire… Guerre ignorate, così come colpevolmente assente è questa Europa Egoista nelle politiche di accoglienza per chi viene dal sud del mondo e ha altro colore di pelle. Occorre dirlo forte e chiaro.
Ora però l’orrore è arrivato qua, ora questi corpi carbonizzati a pochi chilometri di distanza fanno tremare… Questa mattina su twitter ho trovato questa foto di Francesca Mannocchi che è a Bucha.
“Guardatelo bene il corpo al centro. è un bambino.” Scrive.
Non abbiamo mai pubblicato immagini di guerra, e non amo certo farlo… Questa immagine però parla più di mille proclami e basterebbe non distogliere lo sguardo disgustato per capire l’assurdità del turbine di violenza infinita in cui l’umanità è precipitata “per amore di Caino” come ha detto il Papa… Mai citato il Papa in vita mia, in questo momento è una delle poche autorevoli voci contro. E va fatto. Anche se è un altro grido di Cassandra. Un grido muto, infinito, che…
Qualunque cosa voglia significare,
esso è destinato a durare oltre ogni possibile fine.
Tornano anche le parole di Pasolini, torna tutto il nostro trentennale percorso in questo spettacolo che è attraversato da tante bocche spalancate nel lanciare allarmi.
Ora è certo un urlo di dolore quello che taglia Tutto Brucia: “L’urlo di dolore, quello scaturito da una brusca contrazione del diaframma, quello che è lanciato nell’aria e che si trasforma in un rantolo di gola agghiacciante, e che richiama ogni cellula del corpo a magnificare il lutto. Se dovessimo stabilire quale sia stato il dolore più acuto in tutta la storia dell’umanità, non saremmo capaci minimamente di classificare tutti i vinti della storia e, con essi, l’afflizione degli sconfitti. Ma Euripide nelle Troiane ha aperto un varco gigantesco…”[1] con il suo pacifismo ante-litteram, aggiungiamo, ha spalancato la strada alla voce degli oppressi, dei corpi vulnerabili, di chi non ha nemmeno diritto al lutto, al rito funebre, e finisce nelle fosse comuni.
Non so, non riesco più a scrivere dello spettacolo, lì ci sono queste cose: cenere, umani/animali fusi/liquefatti/mostruosamente trasformati… Ci sono i corpi delle attrici che provano a dire, a sentire, a com-patire, e lo fanno con grande sincerità e trasporto… C’è la voce di Francesca Ryf Morello che canta, e taglia l’aria con le sue note struggenti raccontando l’inesplicabile… c’è molto fumo e oscurità, che ottenebra la visione, la rende dolorosa…
Ma di fondo c’è che è uno spettacolo, e niente più. C’è che è finzione…
che non potrà mai e poi mai incidere sul precipitare dei fatti. Può forse solo servire a noi, che siamo lì in quella sala, a noi, per sentirci un po’ più vicini e coesi nel ripudiare la guerra e i mercanti d’armi, sempre, comunque, ovunque.
E poi c’è quel bagliore di speranza finale, nell’apocalisse, quell’invito di Ecuba, prima di uscire di scena a transformarci:
Ora è troppo tardi, aspettiamo che il futuro arrivi di nuovo…
E tra duemila anni ancora
il nostro nome sarà su tutte le bocche
e quando non saremo che atomi e fiato
voi maledetti non potrete fare niente, niente
contro questa memoria che vi consuma
perchè saremo tutto,
e saremo ovunque
capaci di prendere qualsiasi forma
e andare …
Così finisce Tutto Brucia con le parole che si fanno rumore, che, sommerse dal noise divengono altro, una lingua minore, asessuata, che:
nel suo essere liberata da ogni intento comunicativo, possiede la gioia della distruzione e la possibilità del cambiamento.
Ecco, il nuovo che si muove sul palcoscenico è fastidioso, violento, incomprensibile, oltre le recriminazioni e le accuse. Mai come oggi possiamo tutti identificarci in chi sta vivendo la fine di un mondo, e mai come oggi è importante quindi un immaginario diverso sul mondo a venire, sebbene il nuovo parli una lingua che non capiamo, perché noi spettatori siamo diventati quella stessa incomprensione. In questo senso è la lingua del reale, che è reale proprio perché incomprensibile. Reale come i corpi scarni e nudi delle attrici, corpi che hanno rinunciato ad ogni fasto, corpi semplicemente corpi.[2]
Corpi. Semplicemente corpi. Che in un soffio possono esplodere, essere schiacciati, bruciare. Sparire. Corpi, semplicemente corpi.
Che possono tornare in altre forme per non dimenticare.
Spettri. Più volte invocati anche nel nostro piccolo spettacolo, da cui aggiungo un altro frammento di testo di Silvia/Ecuba, mentre affonda la testa nella cenere:
Gli spirti dei corpi insepolti, vagano senza pace, (senza riti, senza funerali)
mentre noi siamo trascinate via,
lontane
verso un’altra terra
volando sul mare, una nave ci porterà alla piana dove pascolano i cavalli.
Ci separano, ci portano via
e loro ci seguono, inquieti
si affollano sulla spiaggia
ci guardano partire
e sanno, ora, che sono morti per niente.
Per niente.
Eppure, eppure
vivere non è come morire
vivere è
essere
ancora
possibili.
NOTE
[1]Tutto brucia, quando il dolore diviene archetipo universale e senza tempo. 23 Gennaio 2022 – di Antonio Forgione su Eroica Fenice [2] (da Err scritture dell’imprevisto di Felice Cimatti e Daniela Angelucci)
Meredith Monk, celebre compositrice, cantante, regista, coreografa, creatrice di opere di teatro musicale, film e installazioni, riconosciuta come una delle artiste più influenti del nostro tempo, pioniera di quella che oggi viene chiamata “tecnica vocale estesa” e “performance interdisciplinare”, sarà a Ravenna per un appuntamento speciale, unica tappa in Italia della sua tournée in Europa in questo aprile 2022.
L’artista newyorchese è ospite di Malagola Scuola di vocalità e centro studi sulla voce – diretto da Ermanna Montanari insieme a Enrico Pitozzi – con un workshop all’interno del corso di alta formazione Pratiche di creazione vocale e sonora insieme alle artiste Ellen Fisher e Katie Geissinger, e con un dialogo aperto al pubblico al Teatro Rasi con Bonnie Marranca, co-fondatrice e editrice di PAJ: A Journal of Performance and Art.
A conclusione del dialogo, la Monk eseguirà alcuni “solo” dal vivo. La conversazione avverrà in inglese con un interprete italiano.
Il dialogo prende l’avvio dal libro (edito nel 2021 da PAJ Publications) Conversations with Meredith Monk, in cui Bonnie Marranca offre un affascinante ritratto della compositrice, interprete e regista di fama internazionale, dai suoi primi anni fino al presente.
La Monk – che a conclusione del dialogo eseguirà alcuni “solo” dal vivo – parlerà con Marranca delle sue creazioni di teatro-musica, delle sue opere e film. «Uno dei miei passaggi preferiti in queste conversazioni – scrive Bonnie Marranca – è la descrizione che Meredith Monk fa del suo modo di lavorare; queste le sue parole: “Mi sono sempre permessa di pensare alle mie forme come a delle bottiglie, al mio processo come a un liquido. Quando c’era qualcosa della bottiglia di cui prima non mi ero completamente resa conto, allora mi permettevo di metterlo nella bottiglia successiva. Forse l’avrei sviluppato ulteriormente”. Queste parole riflettono molto del suo modo di operare: la cura per la forma, la massima chiarezza, il processo prima del prodotto, l’economia del fine, la fiducia. Nella sua essenza, un fare arte per accumulo, un percorso svolto passo dopo passo. Qual è la qualità di quell’impegno che chiamiamo arte? In che modo un artista descrive tutti quegli elementi di se stesso e del mondo che danno vita a un’opera d’arte? In Conversations with Meredith Monk ci lasciamo guidare da queste domande, esplorando ambiti inaspettati». Celebrata a livello internazionale, la Monk ha ricevuto, in decenni di carriera, numerosissimi e importanti premi e onorificenze in tutto il mondo, tra i quali il prestigioso MacArthur Fellowship, due Guggenheim Fellowships, il Yoko Ono Lennon Courage Award for the Arts nel 2011, la National Medal of Arts da Barack Obama nel 2015 e il John Cage Award nel 2020.
Uno dei miei passaggi preferiti in queste conversazioni è la descrizione che Meredith Monk fa del suo modo di lavorare; queste le sue parole: “Mi sono sempre permessa di pensare alle mie forme come a delle bottiglie, al mio processo come a un liquido. Quando c’era qualcosa della bottiglia di cui prima non mi ero completamente resa conto, allora mi permettevo di metterlo nella bottiglia successiva. Forse l’avrei sviluppato ulteriormente”. Queste parole riflettono molto del suo modo di operare: la cura per la forma, la massima chiarezza, il processo prima del prodotto, l’economia del fine, la fiducia. Nella sua essenza, un fare arte per accumulo, un percorso svolto passo dopo passo.
Qual è la qualità di quell’impegno che chiamiamo arte? In che modo un artista descrive tutti quegli elementi di se stesso e del mondo che danno vita a un’opera d’arte? In Conversations with Meredith Monk ci lasciamo guidare da queste domande, esplorando ambiti inaspettati.
Sedevamo per lo più al suo tavolo da cucina o a quello della mia sala da pranzo e iniziavamo a parlare, guardando dove ci portavano i nostri pensieri. Accingendomi a questo volume, ho avuto la fortuna di trovare un interlocutore davvero eloquente, il cui lavoro in cinquant’anni ha interessato musica, teatro, performance art, arti visive, movimento, video e film, portando le nostre discussioni a individuare eredità storiche e contemporanee all’interno degli ampi contorni di una lunga carriera. Cosa mai si può capire senza considerare passato e presente? Come fa un artista a valutare a che punto si trova ora se non in relazione a dove ha iniziato molti anni prima?
La saggezza è l’altro lato della virtuosità, un attributo che accolgo avendo conosciuto il lavoro dell’artista per decenni. Chi è la donna che siede di fronte a me nel XXI secolo, è colei che ho visto per la prima volta recitare a metà degli anni ‘70, quando ero un giovane scrittore? Come fa a fare quello che fa?
Monk apparve sulla scena artistica newyorkese nel 1964, dopo essersi diplomata al Sarah Lawrence College. Parte della nostra conversazione si riallaccia a ciò che ha visto, ciò in cui si è esibita, alle sue letture, ai primi lavori che ha realizzato. Un’artista multidisciplinare sin dall’inizio, che ha interrogato la natura della percezione sperimentando performance dal vivo e nuove tecnologie in tante forme quante poteva svilupparne. Si parla anche della sua infanzia e della preparazione ricevuta al college che l’ha portata a questi risultati. Ha sempre vissuto nell’arte. Tra i racconti più significativi vi sono quelli in cui Monk parla delle difficoltà di una giovane artista nel trovare una sua identità e nell’imparare a lavorare con gli elementi della perfomance e dei media. Talvolta la gioia della scoperta si mescolava alla paura del fiasco.
Quel che è evidente sin dall’inizio di queste conversazioni è il suo metodo primario di interrogarsi. Ciò che apprezzo particolarmente è che i nostri scambi fossero punteggiati dalle diverse domande che lei si poneva lungo i decenni nei diversi lavori. Monk dice che riguardo a un lavoro una volta individuata la domanda a cui rispondere è già sulla buona strada. Per il più recente On Behalf of Nature la domanda è stata: “Come si può produrre un lavoro artistico ecologico, considerando tutti i materiali fisici senza creare scarti?”. Per Education of the Girlchild era: “Come realizzare un ritratto non verbale della vita di una donna?”. Per Songs of Ascension ha considerato: “Come far sì che le persone da meri ascoltatori diventino una congregazione?”. La sua domanda di fondo: “Avremo bisogno di oggetti?”. Gli oggetti hanno una sintassi, un linguaggio, come ogni altro elemento in una performance.
Monk ha fiducia in questo processo basilare: scoprire ciò di cui il mondo di questo lavoro necessita e quali siano i suoi principi. Poi, comprendere ciò che è dovuto a questo mondo e attuarlo. Lei parla di “mente vuota o del principiante”: affrontare il progetto con mente aperta affinché qualcosa di nuovo possa emergere. Questo non significa che non vi siano paure o rischi. Monk ha molto da offrire nel confrontarsi con l’ignoto e nella ricerca di un percorso verso un’opera, a dispetto del “liquido disponibile”. Ciò non di meno i lavori teatrali non sono gravati da alcun senso di pesantezza. Ho sempre apprezzato la loro leggerezza e il loro humor, indipendentemente dal contenuto: svolte inaspettate dei performers, canzoni spiritose, strumentisti sdraiati sul pavimento. Deve essere stato un grande piacere per i membri di questa splendida compagnia – molti dei quali hanno lavorato con Monk per decenni – sedersi lungo il margine dello spazio della performance, guardandosi gli uni gli altri, prima di alzarsi per il proprio turno. Si consideravano più come una comunità che come un cast. “Il mio gruppo è ancora parte del mio corpo” osserva l’artista.
Ciò che si comprende da queste conversazioni è quanto sia difficoltoso portare a termine ogni lavoro. La precisione di Monk nel descrivere come sviluppa lo spazio in un evento teatrale o in un film è pressoché formidabile per accuratezza di dettagli, specialmente nei commenti sui primi lavori come 16 Millimeter Earrings, Juice e Quarry. Le strutture spazio-temporali definiscono le fondamenta, l’idea della messa in scena spesso viene prefigurata in disegni, mappe e grafici. Lo sforzo è un aspetto fondamentale del processo. Oggigiorno l’aspetto musicale influisce su quello teatrale, al punto da far diventare la composizione musicale sempre più protagonista. La musica sta diventando sempre più libera di percorrere nuove dimensioni di suono e sentimento. Ciò che ammette di dover ancora immaginare è una messa in scena meno complessa che sia il risultato di quello sviluppo di pensiero.
Come ogni artista con decenni di esperienza, Monk apprezza l’essenza, il necessario. Lavoro e risultati. Allo stesso modo parla di una sua speciale condizione visiva, nota come strabismo, la quale rende l’esperienza retinica diversa facendo percepire gli oggetti in modo più tattile, tridimensionale. Questo modo di vedere si riflette in una certa sovrapposizione dei suoi pezzi.
Al cuore vi è l’idea di tessere. Tale metafora si riferisce non solo alla frequente commistione di musica, teatro, media e movimento ma ancor più alla nozione buddista di compenetrazione tra percezione ed esseri senzienti. Monk fa spesso riferimento nei suoi lavori ai principi buddisti, in particolare al legame tra pratica artistica e pratica spirituale. Per lei lo spazio della performance è un luogo sacro, un luogo di meditazione. Un’offerta agli uditori. Il suo teatro è una deliberata alternativa al modo frenetico e distratto della vita contemporanea che, secondo lei, impedisce alle persone di fruire dell’esperienza diretta. Monk, al contrario, invita alla consapevolezza e alla bellezza della quiete. La musica, la voce umana, diventa sempre più sorprendente nella varietà della sua presenza, dando vita a un nuovo tipo di teatro musicale che celebra il passato e il contemporaneo, il liminale e l’hic et nunc. Parlando del mondo, Monk si chiede quale sia il senso, il valore del lavoro del singolo. Questa visione filosofica del mondo si trasforma in performance etica, un sentimento di grazia che abbraccia questo e altri mondi a noi ignoti. Un’ultima domanda. “Parte della strategia dell’essere un artista consiste nel chiedersi come creare un’esperienza per la gente che permetta loro di vedere e sentire in un nuovo modo. Questo dischiude possibilità inedite di percezione, così che tornando alla propria vita ci si possa aprire al momento presente vedendo cose che non si sarebbero viste prima”. Chiedo, cosa?
Magnifiche cose e tremende aspettano il disobbediente
Pinocchio è colmo di passione e di compassione. È questo conflitto fra passione e compassione che lo scaraventa avanti e indietro: si perde, ma non del tutto, si salva, ma non del tutto. Si perde per ebbrezza, perché la vita è – o appare – piena di avventure d’entusiasmo. Perché chiede alla vita ebbrezza, libertà, felicità. Per troppa vitalità si perde e ogni volta qualcosa di terribile accade, sempre vicinissimo alla morte. Ma può morire un pezzo di legno?
Povero Pinocchio. Poveri noi che sempre siamo dentro il desiderio, dentro la fame di amicizia e di avventura e questa fame pare cosa proibita, pericolosa: si deve studiare, si deve obbedire, si deve lavorare, altrimenti si va a finire male.
Ci avviciniamo alla magia inesauribile di Pinocchio. Lo vediamo – o intravediamo – come sagoma che parla di noi, animale umano adulto e attuale, come lui così desideroso di un di più di vita e come lui condannato ad attraversare la vita, con le sue disavventure che talvolta sembrano sevizie di una divinità feroce. Come lui sempre ad un passo dalla morte, circondati da falsi amici spietati, tremendi, che incantano e promettono oro, montagne d’oro, montagne di star bene. Falsi amici davvero miserabili e che pure ai nostri occhi sembrano così premurosi e sapienti.
E poi dagli altri del mondo, gli altri animali, le altre meraviglie, messe lì, inascoltate, ad istruirci, a dirci come stare, come fare, mentre noi procediamo, eterni infanti, convinti di essere sempre al centro, di essere coloro che sanno, coloro che bene ragionano, che bene risolvono. I dominanti.
E dunque c’è da una parte uno sguardo pietoso sull’umano, dall’altro uno sguardo innamorato sull’umano, sulla sua dirompente passione adolescente, sulla sua gioia di stare con gli altri, di avventurarsi nella vita, darsi alla vita fino all’ultima goccia e con quello slancio, con quella voglia di godere e di condividere. C’è, qui, la nostra alleanza con Eros, pensato come forza vitale di tutto, come dismisura e traboccamento, come tensione alla pienezza caotica. Con orrore per tutto ciò che ingabbia e ordina.
Ci mettiamo davanti a Pinocchio ben sapendo di non essere i primi a farlo, ma ben pronti a rivelare la piccola sfumatura che aspetta noi, la somiglianza con noi, con ciò che di noi teniamo a bada così bene, nell’età adulta. Ma resta dentro uno strano ragazzo morto, uno strano morto agonizzante, come Pinocchio sempre sul punto di morire ma sempre in parte vivo e vivace.
La Fata Turchina, la fata fatta d’aria e di cielo, di acqua e di morte, di infanzia e di maternità, ci fa comprendere quanto asini siamo, quanto infantili e soli, quanto disarmonici. Il femminile magico e cosmico della Fata è una gradazione dell’umano così necessaria ora, in questo tempo.
m.g.
La Fatina
Estratto dal testo di “Enigma. Requiem per Pinocchio” di Mariangela Gualtieri
Un tempo si credevano gli umani
d’essere meglio degli altri, loro migliori
di tutto il resto. Ma adesso lo sappiamo.
Non basta l’alto ragionamento. Non bastano
le mani, le parole, le religioni, l’arte non è
abbastanza, la scienza, l’armamento, il farmaco,
la trasfusione, il bombardamento, le protesi dentali,
il ricettario, la fusione dell’atomo,
l’abbecedario non basta per l’educazione.
Ci sono grilli intelligentissimi.
Questo ti voglio dire.
Si può imparare da loro. Non sei migliore.
Ecco. Apriamo il tuo orecchio
così puoi capire l’antica lingua dei grilli.
Ci sono lumache pazientissime.
Si può imparare da loro. Non sei migliore.
È antico ingegnere spaziale, ciò che chiami
lumaca. Sa il segreto delle galassie.
Apriamo il tuo orecchio alla lingua sua siderale.
Sviluppatosi nell’arco di tre anni, attraverso numerose residenze artistiche itineranti per tutta l’Italia, OUTIS – Viaggio per mare debutta giovedì 31 marzo al Teatro Rasi per La Stagione dei Teatri. teatroINfolle è stato tra i progetti selezionati a cui Ravenna Teatro ha destinato i suoi fondi di emergenza e proprio al Rasi nel 2021 il collettivo ha compiuto una tappa fondamentale del lavoro. Vi proponiamo qui di seguito l’approfondimento “Outis – Viaggio per mare. Due lettere.” di Eleonora Luciani, già pubblicato su «Merdre!» (Supplemento on line della rivista «Teatro e Storia», 2021).
OUTIS – Viaggio per mare. Due lettere
Elena Griggio – Eleonora Luciani
OUTIS – Viaggio per mare è un progetto sperimentale ideato da Elena Griggio, attrice e guida al canto del Teatro Valdoca, sviluppato insieme ad altri sei interpreti da maggio 2018 a ottobre 2019.
Tra il gruppo di OUTIS e la nota compagnia cesenate fondata da Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri non esistono – ad oggi – rapporti di tipo progettuale, mentre forti sembrano essere quelli di natura ideologico-generativa. È vero infatti che il Valdoca ricorre spesso a serie di residenze, seminari e laboratori per l’incontro e il reclutamento di artisti, per lo più giovani, in vista dei successivi spettacoli. Proprio in un simile contesto Elena Griggio viene scelta per partecipare a Giuramenti(2017), preparato durante tre mesi di residenza presso L’arboreto Teatro Dimora di Mondaino con altri 12 attori. In quei mesi le viene affidata la conduzione del coro, e da quel momento in poi, su richiesta di Ronconi, il suo ruolo non è più unicamente di attrice, ma anche di “guida al canto” della compagnia. Benché abbia alle spalle già alcune esperienze di insegnamento, l’occasione di confrontarsi non solo con un gruppo di allievi ma con quella che definisce una «costellazione di maestranze» (composta da Cesare Ronconi, Mariangela Gualtieri, Lucia Palladino, Lorella Barlaam) segna profondamente la vita professionale di Griggio. È sotto questa spinta che nei mesi successivi al debutto, e proprio lavorando ai nuovi laboratori di Teatro Valdoca, decide di scegliere a sua volta dei compagni per intraprendere un «viaggio teatrale», un percorso nel quale artisti alle prime armi e di diversa formazione possano tentare insieme la strada dell’auto-pedagogia.
Nell’arco di un anno e mezzo, incontrandosi con poche risorse prima a Venezia poi ad Ascoli, i componenti si sono scambiati insegnamenti inerenti ognuno alle proprie discipline di provenienza (dalla danza al canto, dalla scrittura al mimo corporeo), e hanno concluso il percorso con una dimostrazione pubblica nell’ultima tappa, in Puglia, al Castello Baronale De Gualtieris: non un vero spettacolo, ma uno studio, che viene dal desiderio di concludere un progetto a porte chiuse con un incontro aperto.
Mesi dopo, all’inizio del 2020, il gruppo decide di riunirsi ancora, questa volta con l’intenzione di sfruttare le dinamiche già sperimentate dell’auto-pedagogia, e il materiale accumulato nelle residenze, in vista di una possibile composizione scenica, intenzione inevitabilmente sospesa dalla pandemia da COVID-19. Proprio questa particolare contingenza, che ha imposto lontananze e lunghi tempi di attesa, fa da sfondo alle due lettere qui riportate (1), che costituiscono la testimonianza di un percorso degno di essere raccontato, e insieme sono un tentativo di confronto tra due rappresentanti alle prime armi di diversi modi di abitare il teatro, quello dello studio e quello della pratica. Lo scambio è stato stimolato da un incontro dal vivo tra le due scriventi, durante un laboratorio Valdoca, e dalla condivisione sulle piattaforme social, nell’aprile 2020 a cadenza settimanale, di materiali inediti delle passate residenze di OUTIS – Viaggio per mare (scatti e video d’autore). La prima lettera, firmata da chi scrive, osserva OUTIS e la sua ideatrice da un punto di vista laterale, esterno, sulla base di una serie di appunti presi nel corso della passata esperienza e dei pochi video condivisi. La seconda lettera, di Elena Griggio, risponde invece dalla zona dei processi e, completando le impressioni della prima e suggerendone di nuove, ripercorre l’intero viaggio. Seguono poi sette scatti realizzati da Roberta Tocco. Sono “ritratti”, sessioni private per ogni attore e separate dalle prove, pensate ognuna in dialogo con uno spazio diverso. Per OUTIS il lavoro fotografico è entrato in gioco in un momento di metamorfosi, del progetto e insieme dei singoli artisti: quello del primo approccio con dei possibili personaggi. Le fotografie (così come le riprese video) non hanno avuto un ruolo descrittivo o didascalico all’interno del progetto, ma hanno collaborato attivamente sia con la composizione attorica sia con quella drammaturgica. Come una specie di occhio aumentato, ogni scatto ha preso parte alla pedagogia permettendo agli artisti di studiarsi, di riconoscere e catturare i dettagli della propria partitura corporea.
In questa sede le immagini sono per noi un canale privilegiato che, insieme alle lettere, da la possibilità di accedere a quella parte della ricerca che di solito rimane impigliata nel privato e nei ricordi. [Eleonora Luciani]
L’Aquila, 19 Giugno 2020
Cara Elena,
dal nostro primo incontro è ormai passato del tempo. È stato in occasione di un laboratorio di Teatro Valdoca, ti osservavo dall’angolo, nella zona franca di chi non partecipa se non con qualche appunto sul taccuino, in attesa di buone idee per una tesi di laurea che in quei giorni era ancora tutta da scrivere. Già dalle primissime ore, mentre Cesare Ronconi conduceva il gruppo, mi è parso di riconoscerti tra loro come l’esponente di una singolare categoria che ancora oggi non riesco a definire: eri allieva entusiasta, ben nascosta tra i partecipanti, eppure ti muovevi ed eri riconosciuta da chi ti circondava come una sorta di capobranco.
Sulle mie pagine ho conservato qualche ricordo, uno in particolare è un momento di pausa.
Dopo un faticoso training con la danzatrice Lucia Palladino, i partecipanti si spargono ai lati della sala, chi seduto e chi sdraiato a terra, riprendono fiato. Oltre a te solo una ragazza non segue la diaspora generale e resta ferma, segnata da una fatica che mi sembra più mentale che fisica: la inviti a sedere a terra, a te di fronte, le prendi la mano e la esorti a tenerla poggiata sul ventre. Da lontano non riesco a capire cosa vi dite, poco dopo iniziate un canto.
Ho saputo solo più tardi che per tutta la durata del training la partecipante percepiva proprio il busto bloccato, rigido, un fatto che le aumentava lo sforzo e la frustrazione nonostante i vari tentativi da parte di chi vi seguiva per correggerla. L’avevi osservata durante la pratica, eri rimasta alla fine, e una volta sedute le avevi proposto un’altra via, quella della voce, in particolare l’esercizio del canto, per lavorare e ammorbidire la parte centrale del corpo.
Il rischio di avere i natali in compagnie o in gruppi riconosciuti ormai come fondatori e custodi di una propria tradizione è quello di rimanerne sempre allievi: si è formati, pronti per quanto possibile, ma si resta perpetui nascituri. Nel tuo lavoro invece individuavo un certo tipo di disobbedienza, non propriamente anarchica, piuttosto una viva contraddizione che garantisce, rispetto a ciò che si è imparato e chi lo ha trasmesso, l’equilibrio tra conservazione e distacco.
Sapere di OUTIS – Viaggio per mare, il progetto di auto-pedagogia che hai condotto, è stata una conferma, e di nuovo ho preso appunti.
I pochi video che ho visto sembrano restituire in parte l’idea dei bisogni e delle dinamiche del vostro gruppo, le inquadrature e insieme il montaggio sottolineano il fatto determinante: il percorso di provenienza e il sapere di ognuno si trasforma, a turno, nell’insegnamento quotidiano di tutti. Di volta in volta, infatti, lo sguardo della telecamera si sposta da chi fa a chi guarda fare, solo successivamente al fare insieme – da capo, procedendo per tentativi ed errori. Non siete soli negli spazi, di volta in volta diversi ma in genere spogli e illuminati da luci calde, spesso ci sono grandi e curiose macchine di legno con voi, le azionate manualmente, ma cosa sono? Una sembra la ruota di un mulino a vento, gira velocemente e produce lo stesso suono, nel video dell’ultima tappa, Ritorno a casa(2), una ragazza le danza vicino, ne segue il ritmo e pare si muova come imitandola. L’altra si sviluppa in verticale, di forma al limite tra un cannone e una lanterna, non illumina semplicemente gli spazi, li (s)colpisce, delimita il raggio delle vostre azioni.
La pratica del canto, infine, che già conoscevo come tua, pervade tutti i video, e mi lascia immaginare facesse lo stesso con le giornate, rendendosi così il collante di un gruppo carico di differenze.
Questi i miei appunti, quelli presi dal vivo insieme a quelli segnati a distanza, e come vedi molto viene a mancare. I pochi minuti sullo schermo e i ricordi consegnano in definitiva un’atmosfera da interrogare, ma cosa c’è dietro l’atmosfera? Ciò che manca è il racconto di un intero viaggio, e allora chiedo a te di completare gli spazi vuoti, e di aggiungere tutte le pagine mancanti.
Eleonora
Venezia, Giugno 2020
Cara Eleonora,
dietro l’atmosfera, mi viene da dirti, c’è un’immensa fatica.
Come sai sono passati ormai due anni dalla nascita di OUTIS, un progetto pedagogico che ho maturato nei mesi successivi al debutto di Giuramenti. Cercavo con cura e silenzio delle persone con cui compiere un viaggio, persone per le quali mi sono impegnata ad arare un campo ancor prima del loro arrivo: Giuditta di Meo, Davide Arena, Francesco Severgnini, Rossella Guidotti, Ilaria Lemmo, Daniele Cannella.
Scelte queste persone e avendo loro accettato di compiere questa impresa insieme a me, abbiamo dunque compiuto sei residenze artistiche, secondo capitoli inerenti al tema che avevo scelto, il viaggio per mare: Naufragio, Terra in Vista, Approdo, Uomo in Mare, Avanscoperta, Ritorno a Casa. In ciascun incontro, a cadenza trimestrale, dai 5 ai 15 giorni di durata, ci siamo scambiati insegnamenti inerenti le nostre discipline (due ore di scambio pedagogico a testa; con due persone ciascuna mattina nel ruolo di insegnanti) e presentati reciprocamente un nostro personale studio sul tema di residenza, chiedendo ai compagni di essere pubblico. Anche lo studio proposto sarebbe stato inerente alla nostra disciplina di specializzazione, danza, musica, sound design, scrittura creativa, mimo corporeo… canto. Abbiamo cantato tanto insieme. È sulla voce che si fonda il cuore infuocato di questo cammino.
Cos’altro? I cerchi di parole. Nel corso delle residenze più lunghe ne facevamo come minimo tre. Si tratta di riunioni in cui il gruppo dialoga e si confronta sui punti da indagare, chiarificare o sbrogliare nel corso dei nostri incontri di lavoro. Alcuni cerchi di parole sono stati molto difficili, ma sono anch’essi migliorati nel tempo… perché abbiamo imparato man mano ad essere più sintetici e, cosa fondamentale, abbiamo inserito un mediatore. Durata massima due ore. Ci sediamo in cerchio. Nella stessa posizione, cantiamo.
Le prime quattro residenze le abbiamo realizzate a Venezia. Ci siamo accampati a casa mia, abbiamo diviso le spese vive e, lavorando tra il Laboratorio Morion (centro sociale storico di Venezia), il Teatro di Marzo (lo spazio che la mia compagnia più piccola, teatroINfolle, ha ricavato da un ex deposito di proiettili dentro a Forte Mezzacapo) e il C.T.R, centro teatrale di ricerca (in Giudecca) abbiamo realizzato i primi capitoli di questo viaggio. Tutto si è evoluto drasticamente da agosto 2019, quando Daniele è riuscito a portarci ad Ascoli Piceno, dove, per la tappa Avanscoperta, ci siamo armati di tende e raccolti nelle Marche, nella chiesa sconsacrata di San Pietro in Castello. Sono state due settimane importantissime, perché si sono concretizzate delle collaborazioni che hanno permesso al nostro lavoro di “fare il salto”. Mi riferisco in particolare alla collaborazione con Gli Impresari, con Luana Giardino e con Michele Mazzocchi. Queste tre figure cardinali hanno portato a OUTIS – Viaggio per Mare gli elementi entro cui il nostro lavoro creativo è riuscito ad avere una forma definita, accanto, naturalmente, alla via via sempre più precisa alchimia dei corpi e della voce degli attori in campo. Opere de Gli Impresari infatti sono le macchine di legno su cui ti interroghi, La Macchina del Sole, La Macchina del Tuono e La Macchina del Vento. Vere e proprie compagne di scena hanno permesso alle figure che gli attori stavano piano piano indagando di avere degli interlocutori più vividi di un semplice oggetto di scena, e meno psicologici di un’ulteriore figura con cui interfacciarsi. Considero le opere de Gli Impresari come animali: sono vive, hanno una luce, un respiro e una dinamica che le rende simili ai draghi, alle figure mitiche dell’inconscio collettivo o alle grandi bestie che abitano questa terra. E al contempo sono di legno, metallo, marmo e stoffa, la loro semplicità mi commuove, vedere i miei compagni animarle e giocare con loro definisce il carattere dei personaggi che sono emersi più di qualsiasi scrittura a priori.
Il lungo lavoro di osservazione dei miei compagni (iniziato ancora prima di invitarli in questa avventura) e l’immensa evoluzione che, fidandosi tra loro, hanno attraversato, mi ha permesso di scorgere pian piano un orizzonte entro il quale il progetto pedagogico andava esaurendosi a favore di un diverso viaggio, quello di un sempre più chiaro disegno drammaturgico. Allora era agosto, e non sapevo che piega avrebbe preso questa rivolta. Luana Giardino, videomaker del progetto, è stata un’altra figura in questo contesto chiave: ci ha portato uno sguardo esterno capace di catturare e restituire i vari volti del processo, dal training alla composizione delle scene. Il nostro occhio era inevitabilmente inibito, abitando da tanto tempo la pancia del vascello ci era sfuggito il suo aspetto esterno, il mare tutto intorno, e se fuori ci fosse una terra da esplorare, da raccontare, oppure no. Michele Mazzocchi in questo senso è stato preziosissimo: contrabbassista e compagno musicista sulla soglia della scena ci ha offerto, oltre che la sua sensibilità musicale, un ponte prezioso tra quel “fuori” (custodito da Luana) e quel “dentro”, abitato profondamente dai miei compagni. Di più: ci ha portato il linguaggio della musica dal vivo, collocato nel preciso luogo della soglia, a un passo dallo spazio entro cui si muovono i corpi in scena.
E di nuovo la fatica che il viaggio porta con sé. Per citare ciò che dicevano i miei maestri in un manifesto Valdoca del 2013: «della nostra fatica ci siamo qualche volta pentiti, ma più spesso ne siamo stati orgogliosi». Nel concreto, la fatica è stata in termini di economie, fondamentalmente energetiche, ma anche organizzative e monetarie. OUTIS – Viaggio per Mare è stato realizzato a mie spese, anche se i compagni hanno contribuito con una quota simbolica di 25 euro a testa a tappa. Questo è stato possibile perché avevo messo da parte un mio risparmio, dedicato a OUTIS, pronto per essere investito a fondo perduto; l’avevo inteso come parte del mio invito al progetto pedagogico, dedicato a chi lo percorreva con me. Mi sembrava giusto, essendo che marcavo io stessa l’avvio di questa traversata e che ne tenevo il timone. Ho potuto sostenere questa decisione fino ad Ascoli Piceno, penultima tappa del progetto pedagogico. Per l’ultima, come sai, è stato necessario un crowdfunding.
Il passaggio che Ascoli ha sancito si è concretizzato in maniera evidente tre mesi dopo in Puglia, nel luogo che Cesare Ronconi aveva individuato per noi, il Castello Baronale De Gualtieris: la nostra ultima residenza, Ritorno a Casa, nell’ottobre del 2019. Qui abbiamo quasi interamente sospeso la ricerca a favore di una concretizzazione delle scene raccolte nell’anno trascorso insieme, inevitabilmente sono emersi dei quadri, e ciascuno di essi era legato all’altro da un’evidente complementarità stilistica, poetica ed emotiva; la struttura invece era solo in parte deducibile e, in buona sostanza, tutta da scrivere. Questo compendio di finestre, elementi più o meno espliciti nel loro raccontarsi, ha costituito la restituzione pubblica che abbiamo fatto alla fine della residenza pugliese, con la quale ho sentito con chiarezza che il progetto pedagogico di OUTIS – Viaggio per Mare aveva concluso il suo cammino.
È stato solo a dicembre 2019, quando ci siamo tutti riuniti a Firenze a un passo da Capodanno, che abbiamo deciso di aprire la prima pagina di un nuovo libro, fratello o forse figlio del precedente, e dunque iniziare a scrivere il nostro spettacolo. Questo desiderio ha chiaramente stravolto il gioco di scambio agile dei ruoli che abbiamo perpetuato durante il percorso pedagogico, all’oggi questi ruoli richiedono una chiarezza che prima ci siamo permessi di sacrificare a favore dello scambio e dell’ascoltarsi, dello scoprire insieme. Si è rivelata fondamentale (già da Ascoli, in realtà) la figura dell’assistente alla regia. Passo dopo passo poi stanno subentrando le figure necessarie alla realizzazione di uno spettacolo, dalla scenografia al disegno luci. C’è stato un massiccio lavoro di drammaturgia orchestrato tra me, Stefania Ventura (mia assistente alla regia) e Giuditta Di Meo, la quale, oltre che attrice, è stata colei che ha scritto le parole pronunciate dai compagni nella restituzione finale che abbiamo fatto in Puglia. Molte di esse sono ancora anima forte del nuovo testo.
Il passaggio dal progetto pedagogico al processo dedicato alla realizzazione dello spettacolo, come vedi, è stato progressivo e, in qualche modo, inesorabile. Gestirlo a distanza è stato difficile, basti pensare che ci siamo detti di continuare nella direzione di uno spettacolo, insieme, a dicembre 2019. Ho fatto in tempo a fare una sola residenza individuale con Daniele, per sviluppare il suo personaggio, ed è scoppiata la pandemia. Le successive residenze individuali sono state tutte via Zoom: una follia, eppure da questi confronti sono nati moltissimi punti fermi che hanno aiutato profondamente il processo di scrittura, a vivificare il lavoro e, semplicemente, a farci tornare a riflettere sul materiale raccolto da un nuovo punto di vista.
Questa è stata la nostra pandemia. Siamo persone che credono al teatro come essenza viva, per i vivi, dal vivo. Ma il tener vivo, a volte, deve accadere per strumenti inaspettati. Pur scalcianti, abbiamo cercato strade possibili. È lì che sono nati “gli appuntamenti del giovedì” sui social media, dove è anche iniziato il nostro dialogo su questa avventura teatrale. Doni inattesi, hai visto?
Questo nuovo OUTIS si fonda sul cammino fino ad ora percorso e ha una scrittura su cui cuciremo pazientemente le prove che iniziano or ora, tra pochi giorni. Abbiamo una mappa di drammaturgia, gli elementi alchemici che compongono la nostra sintesi oramai scritti nel corpo, le dinamiche fisiche tra le diverse entità in scena, e le nostre forze, abbiamo. A volte sentiamo la fatica curvarci le spalle, ma siamo pronti a respirare e a lanciare nell’aria le voci, finché quelle continuano a risuonare, sento che niente è impossibile.
Elena
NOTE
Successiva a queste lettere è l’esperienza con Ravenna Teatro, che a dicembre 2020 ha destinato l’intero importo dei suoi fondi di emergenza ad alcuni artisti, residenze e spazi di ricerca. Il gruppo, ora sotto il nome di teatroINfolle, dal 22 al 28 febbraio 2021 ha avuto l’opportunità di concretizzare sul palco del Teatro Rasi le scene del suo spettacolo.
Le prime quattro tappe del progetto sono state fatte a Venezia nel 2018, ma quelle documentate dai video sono solo le tappe V, e VI che, insieme a uno studio su un personaggio, Caledonia, sono disponibili sulla piattaforma Vimeo di Luana Giardino, la videomaker del progetto.
La Germania che ho in testa è un progetto iniziato nel 2016 da Maurizio Lupinelli, uno sprofondamento nell’opera di Rainer Werner Fassbinder, in occasione di un laboratorio che si è svolto a Berlino con attrici e attori internazionali, in cui Nerval Teatro ha iniziato con Sangue sul collo del gatto e altri testi a esplorare la poetica dell’autore tedesco.
L’approfondimento che proponiamo per lo spettacolo Le lacrime amare di Petra Von Kant in scena giovedì 17 marzo 2022 per La Stagione dei Teatri, è un documentario ideato da Graziano Graziani (riprese e montaggio di Francesco Barigozzi e Mauro Paglialonga) dallo spettacolo finale, Sinfonia Fassbinderiana, del progetto berlinese.
In occasione dello spettacolo Ottocento di Le belle bandiere vi proponiamo due letture: “ERAVAMO E SIAMO, IMPERFETTO OTTOCENTO” di Elena Bucci e “…un viaggio nell’anima lungo un secolo…” di Marco Sgrosso.
ERAVAMO E SIAMO, IMPERFETTO OTTOCENTO
di Elena Bucci
Ottocento è uno spettacolo ribelle, dispettoso, magmatico, mi sfugge ogni volta che cerco di rimetterci le mani, di capire dove vada, come sia scritto, come si possa migliorare. Anche quando cerco di scrivere su Ottocento, mi mancano le parole. Prima di tutto doveva restare un esperimento e non andarsene in giro baldanzoso per il mondo. Nacque all’interno di un progetto che si chiamava ‘La palestra del teatro’, creato perché il pubblico potesse entrare nel segreto laboratorio dove si preparano gli spettacoli.
O forse fui io che volli intendere così questo spazio all’interno della stagione del Centro Teatrale Bresciano, che da anni sostiene la nostra progettualità. Ci affascinava l’idea di avere dei complici nell’aprire il sipario quasi prima del tempo o meglio, per condividere con il pubblico molte delle domande che ci attraversano durante la creazione di uno spettacolo e delle quali rimane quasi sempre all’oscuro. È legittimo tentare? O sarebbe meglio mantenere silenzio e mistero? Ho spesso notato, negli ultimi anni, come si sia disperso un patrimonio collettivo e comune di sapienza che riguarda arti come il teatro, la pittura, la musica, la fotografia, come se si fosse creata una nuova distanza tra creatori e pubblico dovuto alla mancanza di un linguaggio comune e di occasioni per conoscere quanto realmente accada negli studi, nei teatri, sui set, luoghi molto più frequentati un tempo. Ne ho sempre sofferto, come fosse lacerato un tessuto prezioso fatto di trasmissione di esperienze ed emozioni da persona a persona che ci arriva da secoli lontani. Mi sembra che conoscere il clima delle prove, il valore dell’uso della voce, il percorso degli attori e della regia, il lavoro nascosto delle maestranze, assaporare la magia di un set, riflettere sulla solitudine affollata degli studi dei pittori, dei disegnatori, dei fotografi, entrare nel misterioso arcipelago dove vivono i musicisti accresca il piacere del pubblico e aumenti il potere di trasformazione delle arti che, quando vanno a segno, rivelano, spostano, illuminano facendo di tutti uno solo e allo stesso tempo restituendo ad ognuno la sovversiva ed entusiasmante occasione di essere unico. Anche in questo caso, mi pare che la consapevolezza del processo e la conoscenza di alcuni segreti di magia aumenti l’incanto e non lo distrugga, così come rivelare in scena i semplici trucchi del teatro subito dopo averli usati renda ancora più potente l’illusione, più vasta la comune immaginazione.
Allo stesso tempo la parola ‘palestra’ mi riportava ad una delle mie fissazioni: riportare in dialogo le arti tra loro senza giustapporle, ma individuando quel fragile e ricco terreno dove si incontrano, ritrovando le loro antiche e simili radici. Mi domando spesso, in un’epoca tanto ricca di potenzialità, come mai siano così pochi i luoghi e le occasioni di incontro tra artisti e tra artisti e pubblico dove si possano intrecciare impreviste relazioni tra mondi paralleli. Non parlo soltanto di incontri organizzati, ma di quei luoghi nei quali si vaga, si passa, si sosta, dove si crea il fascino delle città, dei quartieri. Ci ritroviamo stretti tra la violenza di un mercato che vive di target, grandi numeri e pubblicità per il quale la libertà non è sempre un valore, e illustri e colti tentativi di raccontare le arti e la loro funzione che forse non sempre arrivano al cuore del grande pubblico. Tutte queste mie ossessioni erano molto vivide durante il periodo di lavorazione di Ottocento.
Il secolo Ottocento, con la sua fervida accelerazione, ci pareva una fucina dove saperi e arti si fondevano, dove prendeva vita l’utopia dell’uguaglianza dei diritti e delle possibilità, dove si inaugurava una nuova fiducia nella democrazia, nelle lotte collettive, dove si apriva lo sguardo dell’arte su mondi dei quali pochissimi avevano trattato, dove le arti stesse avevano una funzione poetica, civile, politica, sociale assolutamente centrale, sia per la conoscenza degli abissi delle anime di ognuno sia per la comprensione del mondo, dei mondi. Perché non guardare oggi alle nostre recenti radici, a quel secolo a volte liquidato come introspettivo e polveroso, per ritrovare vitalità e senso del presente? Perché non mescolare testi di teatro, epistolari, romanzi, cronache scientifiche, musica, immagini? Perché non osare, con la complicità dei produttori, un’impresa tanto vasta da essere destinata a fallire?
Nella nostra ‘palestra’ abbiamo osato fallire fin dal titolo. Cosa significa Ottocento? Hanno senso queste definizioni che chiudono i secoli nelle loro scatoline per poterli con più agio studiare? Ha senso il nostro stesso conteggio del tempo? Non è forse la storia tanto bizzarra e capricciosa da sfuggire al quieto percorso lineare che il nostro limitato capire vorrebbe? Certo sapevamo che nel dire ‘Ottocento’ evocavamo una convenzione storica e culturale, ma sapevamo anche che facevamo suonare una parola che evoca in ognuno folle di immagini, ricordi ed emozioni, a partire dalla nostra personale e parzialissima visione di quel tempo, città vivaci e fuligginose, straordinarie scoperte scientifiche, teatri affollati abitati quasi ogni giorno, pittori rivoluzionari, musicisti straordinari, fascino della solitudine e gran parte della vita condotta in comune, donne scrittrici, lotte dei braccianti, ferrovie che rendevano più piccolo il mondo. Sapevamo di non poter essere in alcun modo esaustivi e che di certo sarebbero mancati l’autore, l’opera o la personalità più amata da questo e quello, e lo sappiamo. Mancano elementi che avremmo voluto inserire anche a forza e non ci sono entrati, nonostante i tentativi. Gli spettacoli sono organismi con un loro equilibrio, quasi fossero indipendenti anche da noi che pure abbiamo la pretesa di averli creati. Questo Ottocento poi, come ho dichiarato all’inizio, è il più sregolato di tutti, il più sfuggente.
Perché allora lo teniamo ancora accanto? Come mai vive ancora? Credo che tutto dipenda da una grande, indicibile nostalgia dei grandi ideali, senza i quali la nostra vita perde di senso, dal desiderio, vivendo in un’epoca spesso grigia di consensi obbligatori e silenti, di scarso coraggio, di paure e sottomissioni, di ritrovare biografie e opere impavide, imprevedibili, generose. Abbiamo voluto essere imperfetti e discutibili, senza saperlo allora, pur di ritrovare quella fiducia e quella speranza nell’arte, nell’umanità, nel futuro. Abbiamo immaginato Ottocento come un’esperienza unica dedicata allo spazio della ‘palestra’ e invece quello sventato, ancora gira, sempre più imperfetto, non fosse altro a causa della nostra cresciuta consapevolezza.
Vorrei ora integrare quanto già detto facendo riferimento a particolari concreti dell’allestimento e illustrando il lavoro dei collaboratori. Amiamo il teatro anche perché è un lavoro di gruppo, come già accennato, dove i pensieri, le vite, le arti si intrecciano offrendo così impreviste variabili e illuminazioni.
La foto mangiata dal tempo che è l’immagine dello spettacolo ha una storia lunga. Alvaro Petricig, che spesso ci affianca nella creazione di manifesti e locandine aveva una collezione unica di foto, risultato di un recupero iniziato dal padre, degli archivi dei fotografi di paese delle Valli del Natisone, luogo magico in gran parte abbandonato. Un’improvvisa ribellione del fiume allagò il suo magazzino, producendo fantasmagorici effetti sulle foto recuperate, che cominciarono a parlare di sé in altro modo, raccontando del loro difficile viaggio dal passato. Così questa collezione di foto imperfette e sfuggenti ritrovata sul web ci restituiva la vita più di altre, con le sue lacune, deformazioni e mancanze: volti spesso senza sorriso, abiti elaborati, evidenti differenze tra i singoli, speranze, disillusioni, consapevolezza di consegnarsi con questo ritratto al futuro, senza poter prevedere che arrivassero a noi attraverso immagini tanto inquietanti e frammentarie, come se denunciassero dal passato il fallimento di molti dei loro sogni personali, dei loro grandi ideali, della fiducia nella funzione evolutiva della politica, delle religioni, della scienza, dell’ideologia. Quelle immagini esistenti in unica copia rimbalzano oggi di computer in computer in tutto il mondo. Sappiamo guardarle?
Andando avanti con il racconto degli oggetti ecco la lavagna luminosa. In epoca di video è imperfetta, dispendiosa e anacronistica la scelta di usarla per una retroproiezione. Eppure ci restituisce la meraviglia della riproduzione dell’immagine attraverso un gesto umano. Certo anche spingere il tasto ‘play’ è un gesto, ma in questo caso ci sono altre piccole imprecisioni, tremolii, polveri, ombre che rendono plausibile la parziale scelta di poche immagini tra milioni di possibilità. Sono solo un segno di un patrimonio immenso, nel quale la memoria si perde e del quale illuminiamo a tratti, con debole luce, un reperto. Anche il ritrovamento degli oggetti per la scena, come questo, ha un sapore di archeologia contemporanea: ritrovando oggetti meteore di altri spettacoli abbiamo rinnovato il gusto della memoria che torna viva.
Non ho potuto rinunciare ad uno schermino in pvc tuttofare che ci segue dal 2010, della stramba misura cinqueperquattro. Loredana Oddone, che ha magistralmente disegnato le luci, vorrebbe nasconderlo in un bidone, ma se lo ritrova sempre tra i piedi. Non abbiamo ancora esaurito l’antico e banale gioco delle ombre, delle trasparenze e della separazione dei mondi del reale e del sogno. Così come sono riapparsi in scena brandelli di tulle avanzati da allestimenti all’aperto, sedie da giardino dalle mille battaglie che scoprii in un piazzale di rivendita di usato, un tavolino antico riparato da Carluccio Rossi. I costumi sono un incrocio tra pezzi che avevamo in magazzino, risultato dello spigolare continuo, e abiti realizzati dalla sapiente arte di Marta Benini e Manuela Monti, sarte artiste e costumiste.
Le luci non sono a led e sono gestite da una ormai rara consolle manuale. Sappiamo di essere anche in questo anacronistici, visto che a volte giriamo ancora con i fari che comprammo quando si liquidavano le attrezzature che stavano abbandonate nel magazzino del Teatro di Leo di Leo de Berardinis, a Bologna. Cerchiamo di approfittare della qualità della luce a incandescenza finché sarà possibile e poi ci adegueremo alla legge dell’economia che inesorabilmente ci spinge ad usare altri sistemi. Come sempre i pezzi sono pochi, ma situati in modo che le possibilità combinatorie siano molte, così da adeguarsi ai continui cambiamenti dello spettacolo nel corso delle repliche. È difficile parlare del lavoro di Loredana come è difficile analizzare i fenomeni che appaiono semplici perché distillati dal tempo e dall’esperienza, ma che invece risultano complessi e ricchi nelle loro rifrazioni.
Lo stesso vale per la drammaturgia musicale di Raffaele Bassetti. Naturalmente scegliamo insieme le musiche sulle quali lavorare, visto che sono una vera e propria ossatura drammaturgica. In seguito però vengono miscelate con altre tracce e registrazioni originali. Suoni quasi didascalici, come quello della lampada al magnesio delle antiche fotografie o del treno, diventano, grazie al suo lavoro, contrappunti musicali. A questo si aggiunge la cura delle voci, che affidiamo attraverso i microfoni alla sua esperienza e sapienza uditiva che sa adattarsi a spazi e condizioni diversissime per ritrovare la qualità del suono, una delle cose più fragili che io conosca. Vorrei che le maestranze avessero più occasioni pe raccontare il loro lavoro. Mi incanto di fronte alla loro capacità di trasformare le difficoltà attraverso una sintesi essenziale ed efficace che è pensiero e concretezza nello stesso tempo.
Nicoletta Fabbri si è occupata di risolvere ogni problema e la sua funzione è talmente importante che si rischia di darla per scontata. In questo caso si aggiunge anche un formidabile lavoro di ascolto, raccolta e riordino dei testi e delle improvvisazioni senza il quale sarebbe stato molto difficile arrivare al copione finale. Per accompagnare uno spettacolo in tutti i suoi aspetti ci vogliono una dedizione e una capacità di attenzione, coordinamento e comprensione davvero molto fini e generosi.
Alcuni testi sono stati elaborati a tavolino, ma alcuni viaggi dentro opere e personaggi sono passati attraverso improvvisazioni e illuminazioni che di volta in volta andavano analizzate, riscritte e riprovate.
Per stare accanto ad un lavoro che non abbia un copione già esistente ci vuole ancora più pazienza, perché fa ancora più paura di altri spettacoli. Le strade restano sempre tutte aperte.
È la stessa paura che sento ancora oggi, tutte le volte che mi avvicino di nuovo a Ottocento. Rivedo i nostri camerini pieni di libri, rivivo le nottate insonni assediate da scritture potenti e meravigliose, da personaggi originali, da fatti e vite e opere che tutte e tutti meritavano di essere ricordati, vissuti, riscritti. Rivedo Marco ed io che ci leggiamo brani di opere che ci incantano e stupiscono anche se pensavamo di conoscerle alla perfezione. Ma come possiamo rinunciare a questo? E a questo? Abbiamo dovuto accettare l’imperfezione della nostra memoria, dell’andamento della fortuna delle opere, della storia. Abbiamo accettato il triste destino di tutto ciò che viene dimenticato e anche la poesia di questa perdita, che forse non si perde.
Ottocento è anche un imperfetto tentativo di essere meravigliati e grati di quanto ci ha preceduto, di quanto è accaduto ieri e ci ha permesso di essere quello che siamo e, forse anche per questo, viene accantonato e catalogato come ‘passato’.
Ci siamo immaginati due personaggi in cerca che assomigliano molto a noi, due pazzi che osano un viaggio in un secolo intero. Clotilde e Giovacchino sono anacronistici nei nomi, negli abiti e negli intenti, con questo loro viaggio notturno in cerca di luoghi abbandonati, con la loro frastornata superficialità di approccio, con quella ingenua disposizione a diventare i personaggi che amano per un attimo, per un momento, uscendone sempre più cambiati.
Anche ora che scrivo, mi sfilano davanti agli occhi tutte le imperfezioni dello spettacolo e vorrei fuggire. Eppure, ogni volta che lo riprendiamo e lo mettiamo in prova, quando sono nel buio dietro il fondale pronta con il mio ombrellino e guardo Marco con la sua valigia bianca, oggetto di poco valore che fu di mia nonna, un’altra me parte, entra nella casa abbandonata dove corrono le ballerine di Degas e attraverso quelle poche isole di luce che abbiamo frequentato e vissuto sento vibrare tutto il resto, tutto quello che non abbiamo detto e rievocato e mi pare che bisbiglino, lampeggino, risvegliando domande. Mi sento misteriosamente Clotilde che si presta con tutta se stessa a dare corpo e voce ai fantasmi, pur sapendo di non essere mai personaggio e mai se stessa, sospesa tra essere e non essere. Sento che Marco, compagno di decenni di speranze e di teatro, diventa Giovacchino, con la stessa intatta curiosità e lo stesso entusiasmo di quando lo conobbi alla Scuola di Teatro di Bologna. Qualcosa di vero e misterioso accade sempre. Viva l’imperfezione, con tutto il dolore che comporta per chi la vive, per la sua capacità di illuminare quel che resta fuori, quello che manca, quello che sfugge. Imperfetto come la declinazione del verbo: eravamo, volevamo, sognavamo, che prende senso dalla domanda che sempre si pone perché la nostra arte non diventi soltanto ripetizione del repertorio o nostalgia: e ora? chi siamo, cosa vogliamo, cosa sogniamo?
…un viaggio nell’anima lungo un secolo…
di MARCO SGROSSO
La nascita di uno spettacolo è sempre un percorso misterioso e un po’ miracoloso.
Tutte le volte che ho dato per scontati il processo oppure il risultato sono intervenuti un inceppo, una sorpresa, uno stimolo improvviso, un’illuminazione diurna o notturna a mutare la traiettoria.
Accade così in teatro, come nei giochi dell’infanzia: lo scenario immaginato si colora via via di tinte stupefacenti, può ribaltarsi quando meno te l’aspetti e sprofondare in una dimensione imprevedibile.
Ogni volta la storia si ripete e ogni volta me ne stupisco: miracolosamente, è una lezione che non imparo; e questa ricorrenza aiuta a mantenere vivi il cuore e lo stupore, il gioco non perde smalto e non c’è spazio per la noia, regolarmente ritorna il momento in cui palpito come se fosse la prima volta.
La saggezza dell’esperienza, la padronanza della tecnica, l’esercizio allo studio, la coscienza della solidità acquisita in anni di lavoro appassionato non hanno niente a che vedere con questo mistero: aiutano a mantenere in asse il fulcro, ma non garantiscono la stabilità sull’orlo del precipizio. Per fortuna!
Questo processo non è uguale per tutti gli spettacoli.
Quando il lavoro si basa sul testo di un unico autore, il percorso è apparentemente favorito dal fatto che la via drammaturgica è già tracciata, anche se pian piano fanno capolino le difficoltà: non abbassare la tenuta dove il testo è più debole o più sfuggente; mettere a fuoco il fulcro primario e scoprire il punto d’incontro tra l’ispirazione dell’autore e la nostra, perché quel concedere corpo e voce alle sue visioninon si riduca ad un più o meno ben eseguito ‘pappagallare’ mondi altrui.
Quando invece il lavoro si basa su una creazione drammaturgica originale, derivata da una scrittura scenica costruita attraverso assemblaggi ed elaborazioni di opere note, le difficoltà mutano forma ma non diminuiscono perché entrano in gioco altre coerenze necessarie, a cominciare dalla difficoltà dello scivolare da un registro all’altro di segno diverso senza perdere intensità espressiva.
Lungo preambolo per inquadrare il parto turbolento e al tempo stesso entusiasmante di Ottocento: un solo testo composto a quattro mani, attraversando capolavori più o meno monumentali di autori immensi; perdendoci nel flusso copioso di parole amate, lette e rilette, magiche e potenti, capaci di riportarci all’emozione di innamoramenti antichi e recenti, soffrendo come uno strappo nella carne l’esigenza inevitabile di sintesi impietose, con la necessità di restare vigili nel bilanciare il delicato equilibrio di commistioni rischiose, prendendoci il lusso di giocare ad un mosaico di accostamenti e di spostamenti variabile a seconda dell’evolversi progressivo delle riflessioni, per giungere infine alla creazione di una struttura definitiva della nostra Torre di Babele letteraria, che per sua natura resta comunque aperta a continui plausibili innesti, ricomposizioni e ripensamenti.
La decisione condivisa con Elena di affrontare con gli strumenti del teatro il ritratto di un secolo la cui incredibile ricchezza artistica, letteraria, scientifica, politica e civile da sempre ci aveva folgorati ci ha dato il coraggio di tenerci per mano sull’orlo di un autentico precipizio delle meraviglie, stimoli inesauribili di cui la nostra passione creativa si nutriva e si arricchiva progressivamente nel corso delle prove.
I camerini del Teatro Mina Mezzadri di Brescia – dove lo spettacolo è nato e ha debuttato in una sera di sfrenato batticuore, dovuto non solo all’emozione che accompagna ogni prima ma anche al timore che il filo esile di una memoria assemblata insieme all’ultimo momento potesse spezzarsi all’improvviso – nei venticinque giorni di prove avevano assunto l’aspetto inquietante e confortante al tempo stesso della sezione staccata di una biblioteca in fase di ripristino: ovunque pile di libri con lingue di carta che si affacciavano dalle pagine per non dimenticare il possibile spunto di un racconto, del brano di un romanzo, di una poesia, di un frammento biografico o di un articolo di cronaca, e quaderni con annotazioni scritte a mano in attesa di essere riportate nei file dei computer pronti all’immissione di nuovi stimoli.
Mai forse, come nel parto faticoso ma esaltante di questo spettacolo, le prove in palcoscenico sono state popolate di leggii nascosti e di una quantità di fogli stampati in un ordine cronologico pronto ad essere ribaltato a seconda dell’evoluzione del lavoro.
Elena propone di aprire con Victor Hugo, Le Rappel anno primo, numero uno: le nostre voci fuori scena per un prologo che è già manifesto politico, sociale e culturale del secolo dell’Uomo… dalle voci prendono forma le nostre sagome stagliate in controluce sulla diapositiva di una minacciosa Casa delle Meraviglie, poi i corpi prendono consistenza e varcano la soglia… dove siamo? c’è nessuno?
Clotilde e Giovacchino, due viaggiatori dell’anima, adulti rimasti bambini, noi stessi in un altro tempo o in un tempo al di là del tempo, l’io che cerca l’altro io, quello interiore, segreto o nascosto, pronto a scivolare in tutti quegli altri io che hanno acceso la nostra fantasia… un carillon impalpabile in cui scorrono frammenti preziosi della memoria di un intero secolo… lo splendore di Parigi e l’eleganza di Vienna, l’eco dell’impero britannico e della Russia ignota e lontana, l’epopea degli alambicchi e delle onde sonore, i treni, la luce, la musica, il cinema, la fotografia… basta raccogliere un libro per accorgersi che contiene tutti i nostri sogni, i nostri fantasmi di mezzanotte, i nostri miti… una Emily vestita di bianco chiusa nella sua stanza con le creature celesti e un’altra Emily malata di tisi che si dissolve felice nel vento della brughiera… i teatri che recuperano la loro funzione primaria di luoghi di unione civile, di trasmissione del pensiero e rivelazione dell’incanto… quello di una romantica corsa in slitta nel vento che ferisce le orecchie e le speranze o quello di un’impavida passeggiata in campagna che porta alla rovina… la morte amara e sgraziata di Madame Bovary o la vita folle e sregolata di George Sand… lo splendore irresistibile e le miserie senza fondo di Parigi nella sua age d’or: veleni ciprie danze belletti e quadri dipinti con la furia dell’anima… Nora bambola ribelle che infrange le regole nell’universo glaciale ma rovente di Ibsen… la profondità e la ricchezza di sfaccettature dello spirito russo si intreccia al fascino nebbioso dell’universo gotico: un naso dispettoso si pavoneggia in carrozza accanto a tombe scoperchiate orfane di spettri e di vampiri… io recupero i già percorsi e amati contorti sottosuoli dell’anima inquieta di Dostoevskji e li mettiamo a confronto con l’integra dignità del popolo nei racconti dolorosi di Tolstoj e di Hugo… riscopro la delicata sinfonia dell’anima di Thomas Mann nel dipingere il crollo di una grande famiglia e l’inevitabile sacrificio del sogno ai doveri di una discutibile rettitudine borghese, mentre Elena veleggia negli strazianti epiloghi di Margherita Gautier e di Anna Karenina, capaci di commuovermi ogni sera come la prima volta che li lessi… E arriva il momento che il tempo del viaggio è finito e il treno immaginario riparte… ma 95 minuti non sono lunghi cent’anni: molti altri io segreti sono rimasti in silenzio, altri fantasmi premono per raccontare altri incanti: Leopardi che naufraga dolcemente sull’ermo colle, Albertine e il Barone di Charlus immersi in un tempo perduto e ritrovato affollato di memorie e di rimpianti, Renzo e Lucia eternamente promessi sposi, e ancora la Londra dello scintillante Circolo Picwick e dell’irresistibile Lady Bracknell, il candore ineguagliabile del Principe Myskin accanto al coraggio indomito e ai capricci di Rossella O’Hara… quanti… quanti! Dove siamo? c’è qualcuno?
Il treno della realtà già ci porta via ma forse sarà necessario ritornare… il teatro è vita e l’anima continua a palpitare…
Fotografie di Marco Caselli Nirmal
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