Approfondimenti

“Nella sfortuna, rispetto ai lavoratori di oggi Fantozzi era un privilegiato”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2024-2025

Un doppio approfondimento a cura di Federica Ferruzzi per Fantozzi. Una tragedia, regia di Davide Livermore, al Teatro Alighieri dal 23 al 26 gennaio 2025 per La Stagione dei Teatri 2024/2025. Gianni Fantoni ci introduce in video allo spettacolo, mentre l’intervista a Manuela Trancossi, segretaria generale Cgil provincia di Ravenna, ci riporta una fotografia del mondo del lavoro di oggi.

 

Lo spettacolo di Gianni Fantoni, con la regia di Davide Livermore, offre l’opportunità di dimostrare quanto il teatro sia vivo e sappia parlare all’oggi, affrontando tematiche attuali. La figura di Fantozzi, vera e propria maschera della commedia dell’arte, è diventata nel tempo l’immagine del lavoratore medio. Oggi, però, di quella condizione non rimane nulla: tutto si è appiattito al punto che, anche chi lavora, si ritrova spesso in condizione di precarietà. Per aumentare le domande su di noi e su quello che viviamo, cercando quindi di moltiplicare le prospettive, Ravenna Teatro ha richiesto la collaborazione di Cgil Ravenna, che ha contribuito al confronto che avrà luogo sabato 25 gennaio, al Teatro Alighieri, alle 18:00, quando si parlerà di arte e di lavoro con attori ed esponenti sindacali. Contestualmente, Manuela Trancossi, segretaria generale Cgil provincia di Ravenna, ha risposto ad alcune domande sulla situazione lavorativa in provincia di Ravenna.

Trancossi, qual è la situazione in provincia in ambito lavorativo? Qual è l’andamento occupazionale?

“In linea generale, il ‘24 è stato un anno in cui abbiamo iniziato a vedere i primi segni di una crisi in arrivo; dopo l’estate sono aumentate anche sul territorio ravennate le casse integrazioni e dalle aziende sono arrivati parecchi segnali negativi, come dimostra la chiusura di una realtà, nel cervese, che aveva oltre un centinaio di lavoratori. A questo si aggiungono i temi, a noi molto cari, della salute e della sicurezza: qui i dati complessivi segnano un aumento degli infortuni e delle malattie professionalizzanti”.

Com’è iniziato il ’25?

“Il 2025 non aiuta la situazione generale, non percepiamo grandi margini di miglioramento; continuano le casse integrazioni e la situazione economica non fa intravedere soluzioni positive. Lo scenario politico non offre un’idea di miglioramento. Ad oggi il mondo del lavoro è precariato. Se pensiamo allo spettacolo, nelle situazioni affrontate dal buon Fantozzi possiamo dire che sì, era sfortunato, ma viveva una condizione lavorativa agiata, che gli permetteva di avere una casa di proprietà, di poter fare le vacanze, di possedere un’automobile. Possibilità che, oggi, sono meno diffuse, al punto che anche chi ha un posto fisso vive in condizione di precarietà. Se non si ha un aiuto dalla famiglia è difficile vivere: come dicevo, le difficoltà sono anche legate all’inflazione e agli stipendi, che non sono assolutamente al passo con il costo della vita.
Se prendiamo, ad esempio, i lavoratori del pubblico impiego, che nell’immaginario collettivo sono i più tutelati e che spesso sono tacciati di non fare nulla, oggi scappano dalle Amministrazioni pubbliche in quanto i salari non sono più congrui. I loro stipendi hanno subito un aumento del 5% in un momento in cui l’inflazione è al 17%. A non avere più compensi equi sono anche i medici e gli infermieri, professionalità in forte crisi con salari inadeguati e chi compie lavori professionalmente più poveri ha condizioni ancora peggiori”.

Negli ultimi anni a registrare parecchie difficoltà, anche in una realtà come la nostra, è stato il lavoro stagionale: sembra che nessuno lo voglia più fare…

“Il lavoro stagionale avrebbe bisogno di maggiori regolamentazioni: occorrono tavoli su cui riflettere, c’è sempre carenza di manodopera, ma oggi questo settore ha bisogno di provare ad essere maggiormente regolamentato rispetto a turni e orari. Servono regole in quanto questo tipo di contratto non viene rispettato al 100%. Per questo, aprire un tavolo sul turismo in provincia di Ravenna potrebbe aiutare a trovare meccanismi nuovi su cui provare a lavorare. Un tempo, quel tipo di occupazione permetteva di portare a casa un buon risultato in termini economici, ma oggi non è più così: la Stagione non è più pagata a sufficienza e le persone dicono, giustamente, che farlo ai ritmi che sappiamo non ne vale la pena. Aggiungo che il Covid ha cambiato la percezione del lavoro: lavorare tutta la settimana andrebbe regolamentato meglio”.

Chi dovrebbe partecipare al Tavolo che suggerite?

“Al Tavolo dovrebbero sedere le organizzazioni sindacali, l’associazione degli imprenditori, e questo istituto dovrebbe essere gestito dalla Provincia o dai Comuni maggiormente interessati, quali ad esempio Cervia e Ravenna”.

La differenza salariale tra uomini e donne è sempre molto alta?

“Sì, su questo fronte scontiamo sempre moltissimo: le donne sono quelle che hanno un gap salariale indiscutibile e assodato, hanno i lavori più precari, meno professionali; se penso a tutto il settore socio sanitario, ci sono moltissimi part-time involontari, le donne hanno meno opportunità e spesso hanno un impiego che non permette loro di essere autonome al 100%. A questo si aggiungono i carichi familiari che impediscono loro di assumere altri lavori”.

Quali, in generale, le prospettive?

“Indubbiamente la nostra provincia beneficia di una situazione che viene da lontano: qui c’è ancora un tessuto sociale che ‘tiene’, anche se è in forte difficoltà. È chiaro quindi che, se non cambiano i meccanismi, a partire da aumenti salariali e politiche chiare, e se il Governo taglia i fondi, inevitabilmente si creano vuoti rispetto ai servizi sociali. Se non ci sono le economie, piano piano i servizi vengono erosi; anche noi, in Emilia-Romagna, ci siamo accorgendo che la sanità è in crisi e dopo il Covid è stata messa in seria difficoltà. Altrove, probabilmente, questo non emerge perché la situazione è rimasta pressochè invariata. I Comuni stanno cercando di investire sui servizi alle persone, ma è chiaro che non può durare se non arrivano fondi dal Governo. Puoi tassare i cittadini, certo, ma devi concedere loro entrate maggiori. La povertà è in aumento anche sul nostro territorio, anche se rispetto ad altre regioni la situazione è migliore, ma questo non sarà vero all’infinito”.

Uno spettacolo fortemente liberatorio, profondamente erotico e disperatamente vitale

LA STAGIONE DEI TEATRI 2024-2025

In occasione di Altri Libertini. Di Pier Vittorio Tondelli Federica Ferruzzi ha intervistato la drammaturga, regista e attrice Licia Lanera, che porterà in scena per La Stagione dei Teatri 2024/2025 lo spettacolo al Teatro Rasi di Ravenna dal 9 all’11 gennaio. Insieme a lei sul palco ci saranno Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani.

Lanera, come nasce lo sguardo su Tondelli, come nasce il rapporto con i suoi lavori, che lei attraversa e restituisce sulla scena in modo assolutamente personale, ma allo stesso tempo senza tradire lo spirito dell’autore?

“Tondelli è un autore che ho conosciuto e iniziato ad amare non molto tempo fa. La prima cosa che mi ha colpito è stata sicuramente la sua lingua, questo parlato tradotto sulla pagina, questa lingua bastarda e viva che descriveva paesaggi e situazioni degli anni ‘80. Man mano che mi sono addentrata nell’opera di Tondelli ho scoperto di avere anche delle profonde connessioni con l’autore dal punto di vista emotivo, connessioni con il suo sguardo sul mondo. In particolare Altri Libertini contiene tutta una serie di questioni che mi appartengono, questa adesione alla parola tondelliana è amore profondo, oltre che rispetto. Tutto ciò ha fatto sì che venisse fuori questo spettacolo assolutamente fedele nella sua trasposizione in teatro; infatti, non ho proposto un adattamento teatrale all’opera narrativa, ma ne faccio dei tagli e compio un’operazione drammaturgica di incastro dei tre racconti scelti per la messa in scena, che però rimangono tali e non vengono stravolti. In più, a questo adattamento del romanzo, viene affiancata una parte drammaturgica biografica in cui io connetto quest’opera appartenente a un’epoca in cui io e i miei compagni di spettacolo non eravamo ancora nati (o quasi) e traccio una linea temporale ed emotiva tra quelle parole e noi”.

La scelta degli attori sembra essere frutto di un’attenta selezione, e il risultato è uno spettacolo che registra ovunque il tutto esaurito e che ha molto colpito la critica. Tre anime diverse (Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani) che riflettono le tante sfaccettature di Tondelli e che, insieme, sono di un’alchimia perfetta: come le ha individuate?

“Quando ho deciso di fare Altri Libertini, non avevo idea di come sarebbe stato lo spettacolo e non avevo neanche idea di quali sarebbero stati i racconti che avrei scelto; avevo delle opzioni, ma non avevo preso delle decisioni. La prima cosa che però ho fatto, che era l’unica cosa che sapevo, è stata convocare i tre attori. Questo accadeva due anni prima del debutto. Io ero certa che avrei dovuto fare lo spettacolo con loro: tre attori che conosco e tre persone a cui sono molto legata, che avrebbero potuto abitare questa parola con una grande dote teatrale e attoriale, ma anche con una sincerità emotiva per me necessaria a non rendere questa dimensione giovanile trasgressiva una farsa. Loro tre mi sembravano diversi, ma molto legati da interessi simili, da un sentire comune, che poi è lo stesso mio. In base a loro tre ho scelto i tre racconti e mi sembra che le mie aspettative siano state abbondantemente esaudite”.


Uno degli elementi che colpisce dello spettacolo è l’attualità della condizione raccontata dall’autore, che attraversa e accomuna le generazioni. Cosa le ha ‘ridato’ questo spettacolo e cosa ci ha visto, il pubblico? 

“Io credo che per il pubblico questo sia uno spettacolo fortemente liberatorio, profondamente erotico e disperatamente vitale, che è un po’ quello che io cercavo e ho trovato in quelle pagine e che ho cercato di restituire sul palco. Questa fame insaziabile di vita che può portare anche alla morte è il centro di questo racconto iperbolico, esagerato e profondissimo. Credo che questo, anche grazie agli attori, sia estremamente chiaro al pubblico e tutti insieme, come dire, marciamo verso questo dionisiaco, questa esuberanza”.

Nello spettacolo lei non ha paura di mettersi a nudo e racconta tratti personali che si intrecciano alla narrazione. Lo spettacolo sembra anche molto ‘liberatorio’ per gli stessi attori e per lei: quanto, dal suo punto di vista, fare teatro e scrivere per il teatro aiutano a vivere meglio?

“Non mi piace la parola ‘terapeutico’ associata al teatro, tuttavia è chiaro che mettere qualcosa di sé, dei propri dolori, umori o inquietudini su un palcoscenico è un privilegio che noi attori abbiamo e che ci serve a vivere meglio. Dopodiché, il teatro da sempre contiene in sé la catarsi e dunque questo è uno spettacolo in cui la catarsi avviene, come dovrebbe essere sempre a teatro per noi e per gli spettatori”.

Mattia Torre, raccontare dei pezzi di realtà

LA STAGIONE DEI TEATRI 2024-2025

In occasione di Perfetta, scritto e diretto da Mattia Torre, con Geppi Cucciari, in scena  per La Stagione dei Teatri 2024/2025 venerdì 22 e sabato 23 novembre 2024 alle 21:00 e sabato 12 alle ore 21:00 e domenica 13 aprile 2025 alle ore 15:30 al Teatro Alighieri, un approfondimento a cura di Federica Ferruzzi.

Mattia Torre è stato autore teatrale, sceneggiatore e regista. Con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo ha scritto la serie tv Buttafuori e, dal 2007, la prima, la seconda (in cui è stato anche co-regista) e la terza stagione di Boris. Con gli stessi autori ha scritto e diretto Boris – Il film. Nel 2014 ha firmato la realizzazione del film Ogni maledetto Natale. Nel 2015 ha scritto con Corrado Guzzanti la serie tv Dov’è Mario?. Nel 2017 è stato autore della serie tv La linea verticale dalla quale trae il romanzo omonimo (Baldini+Castoldi). Nel 2019 sono usciti per Mondadori i “sette atti comici” In mezzo al mare. Ricchissima la produzione per il teatro di cui, fra gli altri, fa parte anche Perfetta. Nel 2021 ha vinto il David di Donatello per la migliore sceneggiatura originale del film Figli.
Rispetto al libro da cui è stata estratta Perfetta, Alessandro Ferrucci, sul Fatto Quotidiano, ha affermato: “Vorrei che le persone leggessero In mezzo al mare, la raccolta dei suoi sette atti comici. Ad un certo punto Torre scrive: ‘Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande’. Questo era lui”.

Per raccontarlo abbiamo deciso di scegliere alcune delle parole che Mattia Torre ha affidato a Graziano Graziani in un’intervista del 14 giugno realizzata a Rai Radio 3 per Fahrenheit e pubblicata interamente sul sito Il Tascabile.

Come nasce la scrittura per il teatro di Mattia Torre?

In realtà nasce casualmente. Ho sempre avuto un grande desiderio di scrivere, lo facevo già dall’adolescenza. Scrivevo, in realtà, cose orribili, ma lo facevo con grande ostinazione. Poi, il mio amico e collega Giacomo Ciarrapico – che all’epoca studiava al centro sperimentale, faceva recitazione – decise che era un “cane”, che non era proponibile come attore, e quindi mi propose di scrivere un testo insieme. Per me era una follia, perché non avevamo esperienza, e invece lui bloccò il teatro e questo ci costrinse ad andare in scena, con una compagnia che formammo al tempo, partendo da un copione che – forse proprio grazie alla data di scadenza, al fatto che dovevamo per forza andare in scena – risultò essere un copione felice. Ed era la prima volta che coniugavamo la comicità a servizio di un contenuto, che è quello che abbiamo poi sempre cercato di fare. Così a questo spettacolo ne è seguito un altro, poi un altro ancora, finché nel 2000 mi sono lanciato nel mio primo monologo. Che era un po’ un azzardo, perché cercare di tenere l’attenzione su un solo personaggio e su un solo racconto era per me un territorio nuovo. Ma lo spettacolo andò molto bene e a me piacque tantissimo, così ho continuato sulla strada dei monologhi, alternando quella scrittura ad altre forme, come la sceneggiatura di Boris e altre cose che abbiamo realizzato per la televisione o per il cinema. A pensarci bene l’approccio è stato sempre molto simile: cercare di raccontare dei pezzi della nostra realtà, del nostro paese. Che fosse teatro, una serie televisiva oppure un film, l’atteggiamento di base era più o meno lo stesso. Magari cambiano le forme, i criteri di produzione, però quell’approccio iniziale io lo continuo sempre a cercare.

Azzardo, da amante del teatro, una differenza di approccio. Nella scrittura teatrale forse c’è più spazio per andare a fondo nei sentimenti profondi dei personaggi. Come avviene in In mezzo al mare, monologo che segna l’inizio della complicità con Valerio Aprea, o in Migliore, che invece dà il via alla collaborazione con Valerio Mastandrea. Il primo racconta della difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, il secondo tratteggia la situazione beffarda di un uomo che più si comporta bene e più viene bastonato dalla vita, mentre quando sceglie di essere egoista e di sopraffare gli altri comincia ad ottenere tutto.

In effetti Migliore racconta una storia molto amara, in realtà. Il fatto che si ridesse così tanto ci preoccupava, però incarnava proprio quel tipo di ambiguità che volevamo proporre al pubblico. La gente finisce per riconoscersi, empatizzare e addirittura tifare per dei mostri che però, per motivi ancestrali, hanno una qualche presa su di noi.

In effetti, i tuoi personaggi a volte incarnano una “mostrificazione” ma, nonostante questo, continuano a somigliarci parecchio. Ad esempio Gola scende davvero in profondità in un grande vizio degli italiani.

È vero, Gola è inesportabile. È una strana creatura, nata per caso, per una piccola rassegna teatrale al teatro Ambra Jovinelli. Poi è diventato il mio testo più rappresentato in assoluto. Lo hanno fatto attori e attrici, e persino cantanti: l’ho visto fare da Fiorella Mannoia all’Auditorium. Tante versioni, molto diverse e tutte bellissime. Anche in quel caso c’è una sorta di approccio sociologico: cercavo di porre lo sguardo su una serie di cose che facciamo, che ormai abbiamo assimilato e di cui non ci rendiamo conto. E poi c’è la volontà di raccontare il mondo attorno a noi, che viviamo in un paese così complesso, e raccontare le emozioni che ci suscita.

Gola ha anche una comicità molto accentuata, che non è solo qualcosa che si attiva dal vivo, grazie alla bravura dell’attore. Anche nella lettura, la comicità della tua scrittura resta intatta. E questa è una cosa a tratti straordinaria perché quasi sempre leggere il teatro è difficile, quasi ostico, una cosa per amatori che sanno intravedere come poi saranno le parole sulla scena. I tuoi “sette atti comici”, raccolti nel libro Mondadori, conservano la loro potenza anche sulla pagina, contravvenendo a questa regola del teatro.

Per fortuna, perché sennò il libro sarebbe nei guai! Ovviamente abbiamo presentato i sette atti comici come dei racconti, ma il riscontro c’è, perché il libro è stato accolto come un’operazione di narrativa. La definizione di “sette atti comici” mi fa sorridere, è una scelta che abbiamo inserito per controbilanciare la cupezza della copertina, che abbiamo voluto molto sobria ed elegante, ma allo stesso tempo volevamo che si percepisse che si tratta di un libro divertente, non serioso né plumbeo.
(…)

Figli va a pescare nella tua storia personale. La tua biografia è un motore importante per te?

Nel caso di Figli devo ammettere che l’esperienza personale è servita per la conoscenza della materia. È sempre utile, in scrittura, sapere bene di che cosa si parla. Quando l’ho scritto la prima volta l’ho trovato molto amaro e un po’ mi vergognavo, perché non volevo dare un segnale così disfattista e cupo. Poi invece mi sono reso conto che c’era stata un’adesione vasta e istintiva, che mi ha molto stupito. Effettivamente è un tema che non riguarda solo il singolo, ma racconta anche delle enormi difficoltà del nostro tempo e del nostro paese, l’Italia, dove le famiglie non sono molto aiutate. Un secondo figlio, per quanto possa suonare strano paragonarlo ad una “bomba”, in questo contesto può essere la cosa che fa deflagrare tutto. E questa è una dimensione tragicomica, perché c’è un lato difficile ma, poiché le cose si possono leggere attraverso tante chiavi, c’è sicuramente una chiave comica potente.
(…)

Quanto sono stati importanti per te gli incontri, le persone con cui hai collaborato?

Sono stati fondamentali. Soprattutto nei monologhi, perché in quel caso l’attore è tutto. Le mie regie sono sempre molto essenziali: ci sono le musiche e le luci, che hanno una funzione molto importante, ma tutto il resto è nelle mani dell’attore. Io lavoro molto sull’agilità, sull’assenza di orpelli o di strumenti inutili. È tutto nel testo e nell’attore. E quindi all’attore è demandato un lavoro enorme e gli attori che hanno lavorato con me hanno sempre aggiunto qualcosa di essenziale. Io stesso ho imparato con loro come dirigere un singolo attore in scena, cosa non facile. È stato un processo virtuoso. Io agli attori devo moltissimo. Per altro, poiché provengo da una dimensione di compagnia, per me la condivisione con gli attori è la prima cosa e la più importante. È quella che può innescare un processo molto bello.
(…)

I sette atti comici hanno tematiche diverse, ma c’è qualcosa che li accomuna: un certo gusto per l’iperbole. Si parte da un dato, spesso molto quotidiano e vicino a noi, ma il ragionarci sopra, lo svisceramento di quel pensiero, porta a delle vette iperboliche molto comiche ma altrettanto amare. Qual è la scintilla, l’innesco, per la scrittura di un tuo pezzo?

Questa è una questione molto interessante, perché il fenomeno delle digressioni è affascinante ma anche pericolo, dato che può appesantire il testo. Io tendo spesso a sviare dal racconto, ad aprire delle bolle che poi mi capita spesso di tagliare, perché altrimenti rischierei di fare spettacoli di sole digressioni, che non procedono mai. D’altra parte credo che una delle abitudini più interessanti della scrittura, quando è praticata nel tempo, è quella di saper individuare nella realtà cosa è sviluppabile, cosa può essere interessante da raccontare e declinare in chiave comica o tragicomica. Ci sono alle volte cose che all’inizio sembrano divertentissime, poi però andando avanti non funzionano (o non le sai far funzionare tu), e altre cose che invece esplodono, per le quali avverti già da subito la possibile empatia del pubblico. Però è vero, la digressione può essere molto potente, ed è qui che risiede la grande libertà della scrittura, che a teatro è ancora più forte, perché ci ritroviamo in una dimensione molto più autarchica, dove non hai praticamente nessuno ostacolo, ad esempio produttivo; quindi puoi fare davvero quello che vuoi. Semmai bisogna imparare a contenerla un po’, questa libertà.

I tuoi testi hanno fatto un viaggio dal teatro alla pagina scritta. Questo ha significato rimaneggiarli? E anche nelle messe in scena come fai, tendi a riscrivere i tuoi testi, a cesellarli di volta in volta?

Questo è un lavoro che, in realtà, tendo a fare prima che lo spettacolo vada in scena. Ho una rosa di lettrici e lettori molto severi, a cui faccio leggere il testo quando è pronto: a seconda delle reazioni cerco di capire se sto andando sulla strada giusta. Una volta mi sono ridotto talmente all’ultimo, e mi sono ritrovato a fare dei periodi immersivi nella scrittura, che alla fine non capivo più nulla. A quel punto se qualcuno mi avesse detto “guarda, non ci siamo”, penso che avrei buttato tutto. Comunque sia avere il primo ok di queste persone, a partire da mia moglie, è per me già un passo importante. Poi torno sul testo e scendo molto nel dettaglio, lavoro maniacalmente anche sulle singole virgole, perché quando arriva il giorno della prima deve essere tutto perfetto.

L’Europa, dalle sue origini ad oggi

L’Europa non cade dal cielo. Cronistoria sentimentale di un sogno, di un’idea, di un progetto è uno spettacolo prodotto da Ravenna Teatro/Albe, nato nell’ambito del progetto EuRoPe LIVE, promosso dal Centro Europe Direct della Romagna del Comune di Ravenna e sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna.

COM’È NATO IL TESTO

Ideato e diretto da Alessandro Argnani, il testo è scritto da Laura Orlandini

GIOVANI PROTAGONISTI

Due giovani attori ravennati, Camilla Berardi e Massimo Giordani, ripercorrono la storia d’Europa dagli esordi ai giorni nostri. Quella che emerge è una narrazione corredata da immagini e costellata da una playlist musicale legata ai diversi periodi storici raccontati, in un intreccio che mette in luce l’immaginario e gli ascolti delle giovani generazioni, nei diversi momenti della vita dell’Unione europea. Un affondo non solo nella storia, ma anche nei miti, nella musica e negli ideali vissuti da generazioni di giovani in tutta Europa.

Testo di Laura Orlandini, consulenza storica Michele Marchi e Lucrezia Ranieri,  consulenza musicale Alessandro Luparini e Roberto Magnani, video Alessandro Penta, aiuto regia Alice Cottifogli.

MATERIALI

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L’Europa non cade dal cielo-scheda artistica e tecnica

Pinocchio, dal mito all’adolescenza prolungata

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de Diario di Pinocchio 20202065, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 martedì 23 aprile alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Roberto Corradino.

Roberto Corradino

Si intitola Pinocchio 20202065 lo spettacolo che l’attore e regista Roberto Corradino ha scelto di portare al Rasi di Ravenna, nell’ambito de La Stagione dei Teatri, martedì 23 aprile, alle 21:00. Uno spettacolo con cui l’attore pugliese intende fare luce su un personaggio caro all’infanzia, Pinocchio, analizzandone però un aspetto di cui non si sa nulla, ovvero la vita adulta.

Corradino, partiamo dal titolo: cosa significa quel numero?

“Rappresenta un enigma di cui non vorrei dire molto, dal momento che il pubblico è chiamato a risolverlo durante la performance. È un numero in codice, così come in codice è la drammaturgia”.

Come nasce Pinocchio 20202065?

“La domanda che mi sono posto e che sta alla base di questo spettacolo è ‘Cosa sappiamo davvero di Pinocchio, quando da burattino diventa un bambino vero?’ Fondamentalmente nulla, per cui lo spettatore è chiamato a sciogliere un enigma che si disvelerà ai camminanti a fine spettacolo”.

Camminanti?

“Sì. Ad un certo punto gli spettatori sono chiamati a camminare per andare letteralmente alla ricerca di risposte nell’ambito di un percorso in cui Pinocchio diventa prima umano, poi artista. Qui ci occupiamo di quello che la storia di Pinocchio non racconta e lo spettatore diventa parte attiva del processo di conoscenza di una biografia che, ovviamente, è immaginaria”.

Come sarebbe oggi Pinocchio?

“È proprio quello che vorrei descrivere, e per farlo ho immaginato una sorta di museo della memoria. Oggi Pinocchio avrà figli? Si sarà sposato?”.

Perché si è concentrato proprio su questa figura?

“Perché io sono Pinocchio. Da un lato volevo sottolineare che questo personaggio è un archetipo, un grande mito, dall’altro volevo analizzare il fenomeno di un’adolescenza sempre più prolungata, l’incapacità di accedere in modo adulto al mondo adulto”.

Cos’è il teatro per Roberto Corradino?

“Il teatro è una grande possibilità per vivere in modo pieno, modalità che è propria del fuoco, del rischio, ma è anche un’opportunità per trovare salvezza. Il teatro è il gioco più antico dell’uomo, non ha una vera utilità, ma serve per riaffermarsi in quello che si è. È qualcosa di sempre in movimento verso possibilità inimmaginate”.

Le Volpi, in scena i fanatismi del Belpaese

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de Le Volpi, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 sabato 13 aprile alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Luca Ricci.

Uno spettacolo che il regista Luca Ricci firma insieme a Lucia Franchi, con cui dà vita, dal 2003, alla Compagnia CapoTrave, che produce proprie drammaturgie originali indagando i temi dell’attualità sociale dal punto di osservazione della provincia italiana. In scena protagonisti d’eccezione quali Giorgio Colangeli, attualmente candidato ai David di Donatello per il film di Paola Cortellesi, Antonella Attili, che abbiamo visto in Nuovo cinema Paradiso e, di recente, ospite del programma Propaganda Live di Diego Bianchi su La 7, e Federica Ombrato, in teatro diretta da Rifici, al cinema invece con Bellocchio.

Gli affari politici di una piccola realtà di provincia sono il cuore di questo spettacolo, che mette a nudo un modo di procedere scorretto, ma diffuso. Il tema è anche nelle cronache di oggi, cosa vi interessava sottolineare?

“Senza dubbio questo è l’aspetto centrale del lavoro: il punto di osservazione della provincia diventa una sorta di lente di ingrandimento per analizzare abitudini e costumi molto diffusi nel nostro Paese. Il tono è da commedia, è un lavoro in cui si ride, si ride molto, ma il tentativo che facciamo è anche quello di strozzare la risata in gola. In realtà non c’è niente da ridere di fronte a questo malcostume dilagante. Il nostro obiettivo, come autori, è anche quello di perseguire una sorta di liberazione, scrivere diventa terapeutico, ci liberiamo di cose che non ci vanno giù. La scrittura deve nascere da qualcosa che brucia, e allora pensiamo possa toccare corde che risultino interessanti anche per altri. Questo può stimolare una reazione, può, ad esempio, farci prendere atto che siamo tutti un po’ colpevoli rispetto a questi atteggiamenti. È un leggero scivolare verso un accomodamento reciproco, scagli la prima pietra chi non l’ha mai fatto in vita sua”.

Per presentare lo spettacolo siete ricorsi ad una frase di Sciascia: I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi Quali sono, qui, i piccoli fanatismi?

“Qui il fanatismo è quello di una giovane donna che si occupa di linguaggi del contemporaneo, che ha vissuto a Rotterdam, una città moderna e dinamica, ma che, tornata al paese, attua principi moraleggianti verso una generazione di padri che hanno rubato ed esaurito le risorse di cui ora sente la mancanza. È mossa da un intento anche nobile, ma alla fine scadrà nel fanatismo così come il sindaco, che per salvare un reparto ospedaliero si dimostrerà disposto a tutto. Allo stesso modo la madre, dirigente sanitaria, animata dalla volontà di non muovere troppo l’esistente, si dimostrerà capace di passare sopra la figlia pur di non sfigurare. Tre fanatismi che si incontrano in una situazione apparentemente molto tranquilla, che invece farà esplodere gli appetiti”.

A funzionare è anche la scelta dei protagonisti: cosa avete privilegiato nella selezione?

“Io e Lucia quasi mai scriviamo pensando a qualcuno. A volte è successo, ma non è la prassi. Le nostre ossessioni continuano a rimanere le storie, i contenuti, gli intrecci. In questo caso si è trattato di un incontro particolarmente fortunato perché Giorgio Colangeli e Antonella Attili sono due persone di grande generosità e professionalità, due qualità per nulla scontate. Ad esempio Colangeli, tutte le sere prima di andare in scena ripete la parte, la affina, regalandoci una bella lezione di vita. Federica Ombrato è stata un ‘innesto’ felice: è entrata per una sostituzione e ha spostato l’energia dello spettacolo in uno spazio inesplorato, è stata un’ulteriore ventata di freschezza”.

Il titolo, chiaramente, rimanda all’idea di astuzia: questi tre personaggi lo sono?

“Sì, senza dubbio: sono tre persone che, come dire, mettono in piedi una trama avvolgente, una tessitura, gli uni nei confronti degli altri per arrivare ai propri scopi. C’è inoltre un riferimento a Ben Jonson, un grande intellettuale, contemporaneo di Shakespeare per il quale nutriva una forte ammirazione. Scrisse Volpone, dove il personaggio centrale mette in piedi trame oscure e basate sulla furbizia per raggiungere i propri scopi. Per me l’aggettivo furbo non sempre ha valenza negativa, come dimostra il servo della commedia dell’arte che sarà protagonista del nuovo spettacolo: la sua furbizia non nasce da uno studio, bensì dalla pratica. Quello che cerchiamo di fare è scrivere testi in cui lo spettatore si immedesimi, quindi il risvolto oscuro arriva dopo: per tre quarti dello spettacolo la furbizia non si avverte, anzi si sopporta. Una spettatrice dopo una replica mi disse: ‘Colangeli è talmente affabile che gli daresti ragione anche quando dice cose assolutamente deprecabili’. Ecco, è esattamente questo l’obiettivo che volevamo raggiungere”.

Punzo: “Noi siamo utopia realizzata”

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione de Il figlio della Tempesta. Musiche, parole e immagini dalla Fortezza, in scena  per La Stagione dei Teatri 2023/2024 sabato 23 marzo alle 21:00 al Teatro RasiFederica Ferruzzi ha intervistato Armando Punzo.

 

Regista e drammaturgo, Armando Punzo ha fondato nell’ ’88 la Compagnia della Fortezza nel carcere di massima sicurezza di Volterra. Si tratta di uno dei primi progetti di teatro, in Italia, portato in un centro di reclusione.

Trentacinque anni di sfide, tentativi, dubbi, successi, arresti e ripartenze: cosa l’ha portata ad intraprendere questa esperienza?

“Credo che l’origine sia nel fatto che ho incontrato il teatro come possibilità, per la mia vita innanzitutto; questo mi ha condotto a Volterra nell’82, dov’era il Gruppo Internazionale L’avventura, che veniva dal teatro di Grotowski. Qui mi sono misurato con l’idea di un teatro non istituzionale, non legato alla tradizione, bensì all’idea del performer, dove metti in gioco te stesso più che rappresentare personaggi. Un teatro che ti sfida personalmente e che ti porta a nuove forme di creazione. Ho fatto parte di questa realtà per tre anni, poi il gruppo si è sciolto e io sono rimasto lì, continuando nella mia ricerca di teatro istituzionale e ho pensato di creare qualcosa di nuovo, così è nata la Compagnia della Fortezza”.

Quante persone hanno aderito inizialmente?

“Durante il primo anno sono state una ventina, erano soprattutto italiane. Si era iscritta tutta la comunità napoletana, ed è stato un po’ paradossale, visto che avevo sempre fatto di tutto per scappare da Napoli. Poi ricordo un cileno, un marocchino. Quello di Volterra è un carcere con stranieri di tutte le nazionalità: ci sono ucraini, russi, rumeni, tanti italiani, ma soprattutto persone del Sud, sia dell’Italia che, più in generale, del mondo. Il Sud è in carcere, e le ragioni sono evidentemente sociali, economiche, legate ad una povertà che porta a questo. In trentacinque anni non ho mai visto uno svedese, erano quasi tutti da Roma in giù”.

Oggi quanti siete?

“Oggi siamo dalle sessanta alle ottanta persone, alcune si occupano dei costumi, altre delle scenografie. Nell’ultimo spettacolo allo Strehler, dal titolo Naurae, eravamo ottantadue”.

In trentacinque anni come è cambiata l’attività?

“All’inizio era tutta una scoperta su come riuscire a muoversi in carcere, anche se questo aspetto non cambia mai; cambia la popolazione detenuta nei modi di essere, non si arriva mai ad una staticità, ad un consolidamento. Il carcere sembra un luogo immobile, ma è in continuo fermento. Tutti i giorni è realtà viva, dove di sicuro non c’è il rischio della routine, non posso certo vivere sugli allori. In questi anni abbiamo fatto cose che sembravano impossibili, abbiamo lavorato tanto su questo concetto, ci ho costruito sopra anche un festival. Sembrava tutto utopico, ma nel senso che intende Bloch, quando sostiene che noi siamo utopia realizzata, concreta. Abbiamo fatto cose impensabili grazie alla potenza della cultura, a quella forza data da uomini che si mettono insieme. Anche di questo parleremo durante l’incontro del 22 marzo in Classense, quando presenteremo il libro Un’idea più grande di me”.

Da cosa nasce il libro?

“Nasce dal bisogno di raccontare la mia esperienza: in proposito è stato detto e scritto tanto, ci sono state pubblicazioni che non sempre mi rispecchiavano e avevo bisogno di dire la mia. Questa è un’esperienza che rischia di essere accostata all’idea di teatro sociale, ma è un’etichetta in cui non mi sono ritrovato, perché punitiva dal punto di vista artistico. Quello sociale è un tipo di teatro legato alla cura, finalizzato non a un’espressione artistica, quanto al fatto che debba essere funzionale ad un’educazione e ad una risocializzazione del singolo. Quando ho fondato la Compagnia, non volevo lavorare con professionisti e non mi piaceva il teatro di ricerca di quegli anni. Sono andato in carcere per sperimentare la potenza del teatro con persone che non lo conoscevano. Avevo bisogno di sfidarmi e di sfidare. Non è un libro di memorie, ma ho chiesto a Rossella Menna di sviluppare i nostri lunghissimi dialoghi: Un’idea più grande di me è il mio manifesto artistico, in cui dico anche quanto il mio teatro sia stato travisato”.

Cosa ha trovato in carcere?

“Ho trovato l’idea della prigione, che poi è legata alle mie prime letture, le suggestioni di Gurdjieff, il concetto che tutti siamo prigionieri, un’idea platonica legata al mito della caverna che accomuna diverse culture. Siamo imprigionati nei nostri meccanismi, e quindi ho pensato che potessimo lavorare su una grande metafora. Ma, come dicevo, non è un teatro sociale: lì il destinatario finale è la persona che lavora, mentre quando si compie un’attività artistica ci si rivolge al pubblico. Poi è ovvio che la persona c’entra tanto e io sono il primo a trarre benefici da tutto questo”.

C’è una frase che più l’ha accompagnata in questi anni?

“Ce ne sono tante, ma la prima che mi viene in mente è quella di Aniello Arena, un attore, ex detenuto che, una volta espiata la pena, ha fatto cinema con Matteo Garrone e ora è anche su Netflix. È stato sedici anni con noi e una volta mi disse in napoletano: ‘Ma non lo potevo scoprire prima, tutto questo?’

E lei cosa gli rispose?

“Che tutto quello che era stato, era stato, ma che da quel momento in poi era tutto nelle sue mani. Al Sud ci sono storie incredibili, lo sappiamo, ma quando le tocchi con mano ti rendi conto che mancano cose basilari, è incredibile ma è ancora così. Sacche di umanità, milioni di persone che vivono in condizioni difficili, dove l’accesso alla cultura è qualcosa di impensabile e dove il luogo in cui vivi condiziona profondamente quello che sei”.

L’ironia, la nostra forma di contestazione

LA STAGIONE DEI TEATRI 2023-2024

In occasione di 7-14-21-28, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 martedì 19 marzo, alle 21:00, al Teatro Alighieri, Federica Ferruzzi ha intervistato Antonio Rezza e Flavia Mastrella.

Antonio Rezza @Giulio Mazzi

Raggiungiamo telefonicamente Antonio Rezza mentre è in viaggio verso Perugia, dove la sera andrà in scena Hybris, uno spettacolo del 2022. “Mi faccia pensare…ah sì, Ravenna: porteremo 7-14-21-28, uno spettacolo del 2009: sa, siamo l’unica compagnia a portare in giro la totalità dei nostri spettacoli e quest’anno siamo a quota nove su nove. Siamo gli unici a farlo, e non mi riferisco solo all’Italia. È una scelta scriteriata, lo so”.

Come si riesce a tenerli a bada tutti e nove?

“Per me non è una grande fatica, una volta che ho fatto memoria sono a posto, gli spettacoli sono nati con me, li riacquisisco in fretta. Sul palco siamo io e Ivan Bellavista, lo abbiamo appena fatto in gennaio a Savona, ormai va in automatico. Forse fa più fatica Flavia (Mastrella, ndr), a dover ricomporre le scenografie ogni volta, magari qualcosa si rompe. La memoria, invece, non si rompe mai”.

Cambiano le città e cambia anche il pubblico, com’è la relazione con gli spettatori?

“Il pubblico guarda e basta, lo spettacolo va visto: chi guarda, guarda, chi fa, fa. Ogni volta, anche per non annoiarci, si spera sia diversa la dinamica. Ad esempio lo spettacolo di questa sera vedrà otto attori sul palco, abbiamo provato a diversificare portando tante persone, è sempre difficile fare spettacoli nuovi. La gestazione può durare tanto, non si è mai soddisfatti”.

Insieme, lei e Mastrella avete creato un sodalizio che è ancora in grado di dare nuovi spunti: come si fa, dopo così tanti anni?

“Facendo più cose: ci occupiamo anche di cinema, di scultura, di scrittura, quando è possibile anche di televisione. Tante cose diverse per non cadere nella trappola della specializzazione. Essere multiformi significa anche annoiarsi di meno”.

E il teatro a che punto si colloca?

“Il teatro finanzia tutto quello che facciamo, è ancora la via più libera per l’espressione, rispetto ad esempio al cinema, che non è un terreno libero a meno che non ti produci i film da solo. Flavia si occupa di mostre con sculture quando vuole. Noi non siamo finanziati dallo Stato, ma la memoria è labile e di sicuro non saremo ricordati per questo”.

E per cosa?

“Per l’irregolarità, l’unicità, perché facciamo cose che altri non fanno. E lo dico senza presunzione, ce lo dicono da quando abbiamo iniziato. Ecco, magari si potrebbe pensare ad una Fondazione, ma solo una volta che saremo morti: quella sì, potrebbe essere pagata dallo Stato, ma solo quando non ci saremo più. L’istituzione è l’oggetto del dissenso, non puoi prendere soldi da chi non condividi quello che fa, ma questo è un trasformismo abbastanza diffuso”.

Veniamo a 7-14..com’è raccontare la realtà attraverso i numeri?

“I numeri vanno fatti divertire, diventano come le parole: ad esempio posso dare idea di disperazione leggendo una data. Se io dico che una persona è morta 24 anni 71 anni fa, creo uno stato d’animo. Purtroppo spesso l’attore si sforza di essere credibile, mentre dovrebbe essere incredibile. Purtroppo il realismo ha rovinato parecchie menti, è un compromesso. Non dico che De Sica abbia sbagliato a fare film, ma ne basta uno come lui. Nessuno mente più dei realisti. La riproposizione della realtà è una menzogna: se uno ha la bellezza della fantasia, che ti frega della diga del Vajont?”.

Vuole aggiungere qualcosa?

“Sì: stanno sterminando un popolo e nessuno lo dice, io sto dalla parte dei palestinesi. Ci sono menti che fanno attenzione ad esprimersi per paura di non lavorare più, sono artisti falsamente progressisti. Ce lo fanno notare anche alcuni professori quando andiamo nelle università, questa cosa di certi artisti che non prendono posizione”.

Com’è rapportarsi con i giovani universitari? Che impressione fanno?

“La situazione è molto cambiata rispetto a vent’anni fa. L’Università di oggi sembra un liceo, i licei sembrano scuole medie, le medie fanno l’effetto delle elementari e le elementari sembrano materne. È tutto declassato. Oggi si diventa universitari solo con la morte dei genitori, solo con una perdita irreparabile uno matura un po’. Una volta si protestava, c’erano i direttivi politici, ora esiste solo you tube. Ai miei tempi c’era una coscienza, anche corrotta, ma almeno c’era. Oggi ci sono gli influencer”.

Al telefono Flavia Mastrella ci dice che, mentre Rezza è in giro con gli spettacoli, lei è già all’opera per il prossimo lavoro. “Non posso dire molto, al momento vivo in clausura, ma stiamo cercando di muovere qualcosa, è già tanto” spiega, mentre racconta della torunée che segue da lontano. “Quelle che circolano sono strutture molto delicate, in quanto lavoro sull’equilibrio, sulle fragilità. È come avere dei bambini: hanno bisogno sempre del medico, e non c’è vaccino che tenga. La scelta di portarli tutti in giro è  fonte di vita, lavorare in questo modo ci permette di mantenere viva l’arte che ci ha preceduto e che ci segue ancora. Nel tempo ci siamo mantenuti ‘puliti’, facciamo ancora quello che ci passa per la testa, a caro prezzo, ma vuoi mettere la soddisfazione? Le persone ci seguono con gioia”.

Com’è il rapporto che vi lega al pubblico?

“Per noi gli spettatori sono tutto: senza di loro non saremmo potuti esistere. In un sistema teatrale come il nostro, un po’ conservatore, il pubblico ci ha seguito, incoraggiato e permesso di entrare in sala. Principalmente abbiamo lavorato per raccontare il presente – cosa che in Italia è quasi vietata – attraverso l’ironia, che è anche una forma di contestazione in un mondo che ci vuole tristi e impauriti”.

Insieme avete creato un sodalizio che è ancora in grado di dare nuovi spunti: come si fa, dopo così tanti anni?

“Io viaggio fuori dal tempo, a me dieci anni sembrano tre giorni. Essendo sempre impegnata sull’aspetto creativo studio in continuazione, sono sempre intenta a guardare e non mi pesa il tempo, bensì mi manca: se penso che ho pochi anni ancora di ricerca e creatività lavorerei giorno e notte. Il teatro è stato lo spazio più libero che abbiamo trovato, è la condizione fondamentale, senza potremmo morire: su questo siamo d’accordo, è l’unico punto che ci accomuna”.

Rezza dice che sarete ricordati per l’irregolarità, anche per lei è così ?

“Secondo me tenteranno invece di regolarizzarci. Carmelo Bene è stato un innovatore non solo a livello di parola e direzioni teatrali, ma anche di spazio. Era innovativo, ma di questo aspetto non si parla mai: si parla solo del rapporto che ha avuto con i testi storici, ma non della sua innovazione. Ha portato in scena Pinocchio, in cui recitava in maniera incredibile, eppure si parla solo del testo”.

Veniamo allo spettacolo che porterete: com’è raccontare la realtà attraverso i numeri?

“Avevamo già pensato di fare una trilogia sulla realtà numerica, ci sembrava stessimo diventando numeri. Da alcuni anni il codice fiscale è diventato fondamentale per fare tutto, mentre fino a poco tempo fa i numeri e le password non erano molto importanti. In scena c’è un ideogramma gigantesco composto da un’altalena e da una falce da cui pende un tessuto. Rappresenta la fine dei giochi, il passaggio da un sistema bambino a un sistema adulto”.

Vuole aggiungere qualcosa?

“Sono contraria ad ogni forma di violenza e di attacco sull’altro: è chiaro che stiamo assistendo allo sterminio dei palestinesi, che peraltro dura da cent’anni, ma pensiamo anche a noi, visto che ci stanno annientato e con noi la nostra cultura. Stiamo diventando i camerieri dei turisti, oggi è impossibile realizzare un’attività creativa, e per chi ha 30 anni è dura. Viviamo in un’epoca in cui avere un bagaglio culturale sembra inutile, ci stanno fregando, ma di questo non parla nessuno”.

Come sono i giovani universitari?

“Io li adoro: ultimamente abbiamo avuto alcuni stagisti che non se ne sarebbero più andati. Nessuno dice loro che esiste la libertà espressiva, soprattutto in teatro li si obbliga sempre a seguire determinati canoni. Gli studenti pensano ci sia solo questo modo, ma io ho cercato di far capire loro che non è vero facendo controinformazione. A questi ragazzi, in generale, dico: ‘studiate e poi fate il contrario, però, intanto, studiate'”.