“Viviamo un mondo in cui sembra impossibile trovare un equilibrio tra naturale ed artificiale. Quasi che questa dicotomia sia impossibile da gestire. Da una parte la modernità, le fabbriche, gli elettrodomestici, i prodotti e i veleni chimici, i sapori e gli odori riprodotti in laboratorio, la tecnologia… dall’altra le tradizioni da riscoprire, l’orto da coltivare dietro casa, il biologico, il biodinamico, la vacanza wild, la marmellata fatta in casa… Noi ci troviamo nel mezzo, ognuno col suo grado di consapevolezza e di ignoranza. Viviamo sotto il fuoco incrociato di notizie allarmanti e catastrofiche che fatichiamo a gestire. Notizie rispetto alle quali non sempre sappiamo come comportarci. Il più delle volte ignoriamo, in certi casi per scelta, in altri perché informarsi è complesso, farsi un’opinione è complesso, essere coerenti è complesso. La terra collasserà a breve a causa del surriscaldamento? L’avanzata dei deserti raggiungerà all’improvviso il nostro pianerottolo? L’isola di plastica presente nell’oceano pacifico diventerà davvero meta di vacanza? Lo zucchero bianco è davvero un veleno peggio dell’eroina? La tassa sulla plastica è realmente un provvedimento caro solo a un’élite pseudointellettuale? Perché una pubblicità che mi indica che i biscotti in questione sono senza lattosio dovrebbe invogliarmi ad acquistarli? Quanti kilometri percorre una banana prima che io possa scivolare sulla sua buccia? Quanti litri d’acqua servono per produrre una bistecca? Quanto è preziosa l’acqua utilizzata per produrre la suddetta bistecca? Quante delle suddette bistecche posso mangiare al minuto per non sentirmi un nemico della terra? Quante popolazioni sono state sgomberate dalle loro terre per soddisfare il fabbisogno di anacardi richiesti dal mercato mondiale per alimentare chi non mangia più le suddette bistecche? Chi taglierà la coda al cane affinché smetta di mordersela? Dato che è un cane che si morde la coda, tagliamo la testa al toro e lasciamo che a decidere tutto siano gli specchietti per allodole? Ognuno nel suo piccolo può fare la sua parte. Quale? Io vorrei sapere qual è la mia. Vorrei che qualcuno me lo dicesse. Giuro che la farei. Al massimo se non mi piace la scambio con qualcun altro. Meglio acquistare prodotti biologici confezionati nella plastica o prodotti non biologici confezionati nella carta? Guardo al mio bene o a quello collettivo? Un po’ per ciascuno non fa male a nessuno. Partiamo da qui, da queste domande, che non possono nemmeno essere definite provocazioni, perché sono domande reali, che ci accompagnano e ci assillano, a cui rivolgiamo attenzione a volte e che fingiamo di non udire altre, per costruire uno spettacolo che condiva col pubblico le nostre domande. Per approfondire temi e questioni che ci sono cari. Che non crediamo abbiano una sola risposta, ma che non possiamo accantonare per questa ragione”.
L’Arlecchino che Andrea Pennacchi porta in scena farà forse sussultare i tanti Arlecchini che nel tempo hanno fatto grande questa maschera della commedia dell’arte. Lui cerca in tutti i modi di essere all’altezza del ruolo, ma non ne azzecca una, è goffo, sovrappeso, del tutto improbabile, ma è in buona compagnia: gli altri attori, che, come lui, sono stati assoldati, con misere paghe, dall’imprenditore Pantalone, sono, al pari di Arlecchino, debordanti, fuori orario, catastroficamente inadeguati. Eppure tutti questi sbandamenti, queste uscite di scena e fughe dal copione, che sono anche uscite nella contemporaneità dell’oggi, queste assurde prestazioni, queste cadute di stile e cadute al suolo di corpi sciamannati, tutte queste parole affastellate, tutto questo turbinio di azioni e gesti, stanno proprio rifacendo il miracolo della grande commedia goldoniana, in una forma non prevista, una commedia dirompente, straniante, che ricostruisce la tradizione dopo averla intelligentemente tradita. Ed ecco allora che la storia, nonostante tutto, anzi proprio grazie a questo tutto invadente, si dipana nella sua narrazione e ne esce un Arlecchino mai visto che riunisce stilemi diversi, frammenti di cabaret, burlesque, avanspettacolo, commedia, dramma, un gran calderone ultrapostmoderno che inanella via via pezzi di memoria della storia del teatro.
Per riuscire a creare un simile guazzabuglio di intenzioni, per riuscire a renderlo eccezionalmente vivo, occorrevano attori capaci di seguirmi in un simile delirio. Ed eccoli qui, una compagnia di compagni e complici, Marco Artusi, Maria Celeste Carobene, Miguel Gobbo Diaz, Elisa Pastore/Margherita Mannino, Valerio Mazzucato, e Anna Tringali, capaci di interpretare contemporaneamente più ruoli, di passare dalle proteste borbottanti degli attori sottopagati, alle vorticose azioni dei personaggi della commedia che pur devono rappresentare.
In questo incessante salto mortale di identità è il loro talento a tenere insieme ciò che di continuo sembra sfuggire alla presa. Appartengono di diritto alla grande tradizione del teatro veneto, grande perché sempre capace di rischiare per rinnovarsi, come accade su queste tavole sceniche imbandite di follia arlecchinesca. Durante le prove immaginavo di avere Carlo Goldoni seduto in terza fila, e dovevo dirgli di fare silenzio tanto si sganasciava dalle risate, con gli occhi stupiti di bambino mai cresciuto di fronte a questa sua opera divenuta così inverosimile da essere ancor più sua.
E quando poi le musiche di Giorgio Gobbo, eseguite dal vivo dal duo “i sordi” con Matteo Nicolin alla chitarra e Riccardo Nicolin alla batteria, si infilavano come blitz sorprendenti costringendo gli attori a divenire anche danzanti e cantanti il Goldoni là dietro non si teneva più. Infine che dire delle scene fluttuanti di Carlo Sala, una scenografia semovente, mobile, semplice come lo è la creatività quando si dimentica di dover fare bella figura e si lascia andare al gioco infantile, grazie agli stessi attori che si fanno operai macchinisti modificando la scena di continuo come avvenissero improvvise folate di vento, a volte in forma di bufera a volte come zefiro primaverile.
Il testo febbrilmente rimaneggiato ogni giorno, a partire dalle intuizioni che sorgevano in me, vedendo all’opera la creatività degli attori, e trascritto con solerzia da Maria Celeste Carobene, è proprio quello che fin dall’inizio avevo immaginato. Le parole che vengono fatte volare sono anch’esse leggere, eppure, eppure, come accade davvero nella vera commedia, arrivano stilettate e spifferi lancinanti che parlano dei nostri giornalieri disastri di paese e di popolo, così che i terremoti scenici ci ricordano il traballare quotidiano delle nostre esistenze.
Un doppio approfondimento a cura di Federica Ferruzzi perFantozzi. Una tragedia, regia di Davide Livermore, al Teatro Alighieri dal 23 al 26 gennaio 2025 per La Stagione dei Teatri 2024/2025. Gianni Fantoni ci introduce in video allo spettacolo, mentre l’intervista a Manuela Trancossi, segretaria generale Cgil provincia di Ravenna, ci riporta una fotografia del mondo del lavoro di oggi.
Lo spettacolo di Gianni Fantoni, con la regia di Davide Livermore, offre l’opportunità di dimostrare quanto il teatro sia vivo e sappia parlare all’oggi, affrontando tematiche attuali. La figura di Fantozzi, vera e propria maschera della commedia dell’arte, è diventata nel tempo l’immagine del lavoratore medio. Oggi, però, di quella condizione non rimane nulla: tutto si è appiattito al punto che, anche chi lavora, si ritrova spesso in condizione di precarietà. Per aumentare le domande su di noi e su quello che viviamo, cercando quindi di moltiplicare le prospettive, Ravenna Teatro ha richiesto la collaborazione di Cgil Ravenna, che ha contribuito al confronto che avrà luogo sabato 25 gennaio, al Teatro Alighieri, alle 18:00, quando si parlerà di arte e di lavoro con attori ed esponenti sindacali. Contestualmente, Manuela Trancossi, segretaria generale Cgil provincia di Ravenna, ha risposto ad alcune domande sulla situazione lavorativa in provincia di Ravenna.
Trancossi, qual è la situazione in provincia in ambito lavorativo? Qual è l’andamento occupazionale?
“In linea generale, il ‘24 è stato un anno in cui abbiamo iniziato a vedere i primi segni di una crisi in arrivo; dopo l’estate sono aumentate anche sul territorio ravennate le casse integrazioni e dalle aziende sono arrivati parecchi segnali negativi, come dimostra la chiusura di una realtà, nel cervese, che aveva oltre un centinaio di lavoratori. A questo si aggiungono i temi, a noi molto cari, della salute e della sicurezza: qui i dati complessivi segnano un aumento degli infortuni e delle malattie professionalizzanti”.
Com’è iniziato il ’25?
“Il 2025 non aiuta la situazione generale, non percepiamo grandi margini di miglioramento; continuano le casse integrazioni e la situazione economica non fa intravedere soluzioni positive. Lo scenario politico non offre un’idea di miglioramento. Ad oggi il mondo del lavoro è precariato. Se pensiamo allo spettacolo, nelle situazioni affrontate dal buon Fantozzi possiamo dire che sì, era sfortunato, ma viveva una condizione lavorativa agiata, che gli permetteva di avere una casa di proprietà, di poter fare le vacanze, di possedere un’automobile. Possibilità che, oggi, sono meno diffuse, al punto che anche chi ha un posto fisso vive in condizione di precarietà. Se non si ha un aiuto dalla famiglia è difficile vivere: come dicevo, le difficoltà sono anche legate all’inflazione e agli stipendi, che non sono assolutamente al passo con il costo della vita.
Se prendiamo, ad esempio, i lavoratori del pubblico impiego, che nell’immaginario collettivo sono i più tutelati e che spesso sono tacciati di non fare nulla, oggi scappano dalle Amministrazioni pubbliche in quanto i salari non sono più congrui. I loro stipendi hanno subito un aumento del 5% in un momento in cui l’inflazione è al 17%. A non avere più compensi equi sono anche i medici e gli infermieri, professionalità in forte crisi con salari inadeguati e chi compie lavori professionalmente più poveri ha condizioni ancora peggiori”.
Negli ultimi anni a registrare parecchie difficoltà, anche in una realtà come la nostra, è stato il lavoro stagionale: sembra che nessuno lo voglia più fare…
“Il lavoro stagionale avrebbe bisogno di maggiori regolamentazioni: occorrono tavoli su cui riflettere, c’è sempre carenza di manodopera, ma oggi questo settore ha bisogno di provare ad essere maggiormente regolamentato rispetto a turni e orari. Servono regole in quanto questo tipo di contratto non viene rispettato al 100%. Per questo, aprire un tavolo sul turismo in provincia di Ravenna potrebbe aiutare a trovare meccanismi nuovi su cui provare a lavorare. Un tempo, quel tipo di occupazione permetteva di portare a casa un buon risultato in termini economici, ma oggi non è più così: la Stagione non è più pagata a sufficienza e le persone dicono, giustamente, che farlo ai ritmi che sappiamo non ne vale la pena. Aggiungo che il Covid ha cambiato la percezione del lavoro: lavorare tutta la settimana andrebbe regolamentato meglio”.
Chi dovrebbe partecipare al Tavolo che suggerite?
“Al Tavolo dovrebbero sedere le organizzazioni sindacali, l’associazione degli imprenditori, e questo istituto dovrebbe essere gestito dalla Provincia o dai Comuni maggiormente interessati, quali ad esempio Cervia e Ravenna”.
La differenza salariale tra uomini e donne è sempre molto alta?
“Sì, su questo fronte scontiamo sempre moltissimo: le donne sono quelle che hanno un gap salariale indiscutibile e assodato, hanno i lavori più precari, meno professionali; se penso a tutto il settore socio sanitario, ci sono moltissimi part-time involontari, le donne hanno meno opportunità e spesso hanno un impiego che non permette loro di essere autonome al 100%. A questo si aggiungono i carichi familiari che impediscono loro di assumere altri lavori”.
Quali, in generale, le prospettive?
“Indubbiamente la nostra provincia beneficia di una situazione che viene da lontano: qui c’è ancora un tessuto sociale che ‘tiene’, anche se è in forte difficoltà. È chiaro quindi che, se non cambiano i meccanismi, a partire da aumenti salariali e politiche chiare, e se il Governo taglia i fondi, inevitabilmente si creano vuoti rispetto ai servizi sociali. Se non ci sono le economie, piano piano i servizi vengono erosi; anche noi, in Emilia-Romagna, ci siamo accorgendo che la sanità è in crisi e dopo il Covid è stata messa in seria difficoltà. Altrove, probabilmente, questo non emerge perché la situazione è rimasta pressochè invariata. I Comuni stanno cercando di investire sui servizi alle persone, ma è chiaro che non può durare se non arrivano fondi dal Governo. Puoi tassare i cittadini, certo, ma devi concedere loro entrate maggiori. La povertà è in aumento anche sul nostro territorio, anche se rispetto ad altre regioni la situazione è migliore, ma questo non sarà vero all’infinito”.
In occasione di Altri Libertini. Di Pier Vittorio TondelliFederica Ferruzzi ha intervistato la drammaturga, regista e attrice Licia Lanera, che porterà in scena per La Stagione dei Teatri 2024/2025 lo spettacolo al Teatro Rasi di Ravenna dal 9 all’11 gennaio. Insieme a lei sul palco ci saranno Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani.
Lanera, come nasce lo sguardo su Tondelli, come nasce il rapporto con i suoi lavori, che lei attraversa e restituisce sulla scena in modo assolutamente personale, ma allo stesso tempo senza tradire lo spirito dell’autore?
“Tondelli è un autore che ho conosciuto e iniziato ad amare non molto tempo fa. La prima cosa che mi ha colpito è stata sicuramente la sua lingua, questo parlato tradotto sulla pagina, questa lingua bastarda e viva che descriveva paesaggi e situazioni degli anni ‘80. Man mano che mi sono addentrata nell’opera di Tondelli ho scoperto di avere anche delle profonde connessioni con l’autore dal punto di vista emotivo, connessioni con il suo sguardo sul mondo. In particolare Altri Libertini contiene tutta una serie di questioni che mi appartengono, questa adesione alla parola tondelliana è amore profondo, oltre che rispetto. Tutto ciò ha fatto sì che venisse fuori questo spettacolo assolutamente fedele nella sua trasposizione in teatro; infatti, non ho proposto un adattamento teatrale all’opera narrativa, ma ne faccio dei tagli e compio un’operazione drammaturgica di incastro dei tre racconti scelti per la messa in scena, che però rimangono tali e non vengono stravolti. In più, a questo adattamento del romanzo, viene affiancata una parte drammaturgica biografica in cui io connetto quest’opera appartenente a un’epoca in cui io e i miei compagni di spettacolo non eravamo ancora nati (o quasi) e traccio una linea temporale ed emotiva tra quelle parole e noi”.
La scelta degli attori sembra essere frutto di un’attenta selezione, e il risultato è uno spettacolo che registra ovunque il tutto esaurito e che ha molto colpito la critica. Tre anime diverse (Giandomenico Cupaiuolo, Danilo Giuva e Roberto Magnani) che riflettono le tante sfaccettature di Tondelli e che, insieme, sono di un’alchimia perfetta: come le ha individuate?
“Quando ho deciso di fare Altri Libertini, non avevo idea di come sarebbe stato lo spettacolo e non avevo neanche idea di quali sarebbero stati i racconti che avrei scelto; avevo delle opzioni, ma non avevo preso delle decisioni. La prima cosa che però ho fatto, che era l’unica cosa che sapevo, è stata convocare i tre attori. Questo accadeva due anni prima del debutto. Io ero certa che avrei dovuto fare lo spettacolo con loro: tre attori che conosco e tre persone a cui sono molto legata, che avrebbero potuto abitare questa parola con una grande dote teatrale e attoriale, ma anche con una sincerità emotiva per me necessaria a non rendere questa dimensione giovanile trasgressiva una farsa. Loro tre mi sembravano diversi, ma molto legati da interessi simili, da un sentire comune, che poi è lo stesso mio. In base a loro tre ho scelto i tre racconti e mi sembra che le mie aspettative siano state abbondantemente esaudite”.
Uno degli elementi che colpisce dello spettacolo è l’attualità della condizione raccontata dall’autore, che attraversa e accomuna le generazioni. Cosa le ha ‘ridato’ questo spettacolo e cosa ci ha visto, il pubblico?
“Io credo che per il pubblico questo sia uno spettacolo fortemente liberatorio, profondamente erotico e disperatamente vitale, che è un po’ quello che io cercavo e ho trovato in quelle pagine e che ho cercato di restituire sul palco. Questa fame insaziabile di vita che può portare anche alla morte è il centro di questo racconto iperbolico, esagerato e profondissimo. Credo che questo, anche grazie agli attori, sia estremamente chiaro al pubblico e tutti insieme, come dire, marciamo verso questo dionisiaco, questa esuberanza”.
Nello spettacolo lei non ha paura di mettersi a nudo e racconta tratti personali che si intrecciano alla narrazione. Lo spettacolo sembra anche molto ‘liberatorio’ per gli stessi attori e per lei: quanto, dal suo punto di vista, fare teatro e scrivere per il teatro aiutano a vivere meglio?
“Non mi piace la parola ‘terapeutico’ associata al teatro, tuttavia è chiaro che mettere qualcosa di sé, dei propri dolori, umori o inquietudini su un palcoscenico è un privilegio che noi attori abbiamo e che ci serve a vivere meglio. Dopodiché, il teatro da sempre contiene in sé la catarsi e dunque questo è uno spettacolo in cui la catarsi avviene, come dovrebbe essere sempre a teatro per noi e per gli spettatori”.
In occasione di Perfetta, scritto e diretto da Mattia Torre, con Geppi Cucciari, in scena per La Stagione dei Teatri 2024/2025 venerdì 22 e sabato 23 novembre 2024 alle 21:00 e sabato 12 alle ore 21:00 e domenica 13 aprile 2025 alle ore 15:30 al Teatro Alighieri, un approfondimento a cura di Federica Ferruzzi.
Mattia Torre è stato autore teatrale, sceneggiatore e regista. Con Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo ha scritto la serie tv Buttafuorie, dal 2007, la prima, la seconda (in cui è stato anche co-regista) e la terza stagione di Boris. Con gli stessi autori ha scritto e diretto Boris – Il film. Nel 2014 ha firmato la realizzazione del film Ogni maledetto Natale. Nel 2015 ha scritto con Corrado Guzzanti la serie tv Dov’è Mario?. Nel 2017 è stato autore della serie tv La linea verticale dalla quale trae il romanzo omonimo (Baldini+Castoldi). Nel 2019 sono usciti per Mondadori i “sette atti comici” In mezzo al mare. Ricchissima la produzione per il teatro di cui, fra gli altri, fa parte anche Perfetta. Nel 2021 ha vinto il David di Donatello per la migliore sceneggiatura originale del film Figli.
Rispetto al libro da cui è stata estratta Perfetta, Alessandro Ferrucci, sul Fatto Quotidiano, ha affermato: “Vorrei che le persone leggessero In mezzo al mare, la raccolta dei suoi sette atti comici. Ad un certo punto Torre scrive: ‘Sei un pezzo di un grande ingranaggio, e siccome siamo in Italia, l’ingranaggio è vecchio, arrugginito e si muove a fatica. D’altra parte, il tuo cuore non è mai stato così grande’. Questo era lui”.
Per raccontarlo abbiamo deciso di scegliere alcune delle parole che Mattia Torre ha affidato a Graziano Graziani in un’intervista del 14 giugno realizzata a Rai Radio 3 per Fahrenheit e pubblicata interamente sul sito Il Tascabile.
Come nasce la scrittura per il teatro di Mattia Torre?
In realtà nasce casualmente. Ho sempre avuto un grande desiderio di scrivere, lo facevo già dall’adolescenza. Scrivevo, in realtà, cose orribili, ma lo facevo con grande ostinazione. Poi, il mio amico e collega Giacomo Ciarrapico – che all’epoca studiava al centro sperimentale, faceva recitazione – decise che era un “cane”, che non era proponibile come attore, e quindi mi propose di scrivere un testo insieme. Per me era una follia, perché non avevamo esperienza, e invece lui bloccò il teatro e questo ci costrinse ad andare in scena, con una compagnia che formammo al tempo, partendo da un copione che – forse proprio grazie alla data di scadenza, al fatto che dovevamo per forza andare in scena – risultò essere un copione felice. Ed era la prima volta che coniugavamo la comicità a servizio di un contenuto, che è quello che abbiamo poi sempre cercato di fare. Così a questo spettacolo ne è seguito un altro, poi un altro ancora, finché nel 2000 mi sono lanciato nel mio primo monologo. Che era un po’ un azzardo, perché cercare di tenere l’attenzione su un solo personaggio e su un solo racconto era per me un territorio nuovo. Ma lo spettacolo andò molto bene e a me piacque tantissimo, così ho continuato sulla strada dei monologhi, alternando quella scrittura ad altre forme, come la sceneggiatura di Borise altre cose che abbiamo realizzato per la televisione o per il cinema. A pensarci bene l’approccio è stato sempre molto simile: cercare di raccontare dei pezzi della nostra realtà, del nostro paese. Che fosse teatro, una serie televisiva oppure un film, l’atteggiamento di base era più o meno lo stesso. Magari cambiano le forme, i criteri di produzione, però quell’approccio iniziale io lo continuo sempre a cercare.
Azzardo, da amante del teatro, una differenza di approccio. Nella scrittura teatrale forse c’è più spazio per andare a fondo nei sentimenti profondi dei personaggi. Come avviene in In mezzo al mare, monologo che segna l’inizio della complicità con Valerio Aprea, o in Migliore, che invece dà il via alla collaborazione con Valerio Mastandrea. Il primo racconta della difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo, il secondo tratteggia la situazione beffarda di un uomo che più si comporta bene e più viene bastonato dalla vita, mentre quando sceglie di essere egoista e di sopraffare gli altri comincia ad ottenere tutto.
In effetti Migliore racconta una storia molto amara, in realtà. Il fatto che si ridesse così tanto ci preoccupava, però incarnava proprio quel tipo di ambiguità che volevamo proporre al pubblico. La gente finisce per riconoscersi, empatizzare e addirittura tifare per dei mostri che però, per motivi ancestrali, hanno una qualche presa su di noi.
In effetti, i tuoi personaggi a volte incarnano una “mostrificazione” ma, nonostante questo, continuano a somigliarci parecchio. Ad esempio Gola scende davvero in profondità in un grande vizio degli italiani.
È vero, Golaè inesportabile. È una strana creatura, nata per caso, per una piccola rassegna teatrale al teatro Ambra Jovinelli. Poi è diventato il mio testo più rappresentato in assoluto. Lo hanno fatto attori e attrici, e persino cantanti: l’ho visto fare da Fiorella Mannoia all’Auditorium. Tante versioni, molto diverse e tutte bellissime. Anche in quel caso c’è una sorta di approccio sociologico: cercavo di porre lo sguardo su una serie di cose che facciamo, che ormai abbiamo assimilato e di cui non ci rendiamo conto. E poi c’è la volontà di raccontare il mondo attorno a noi, che viviamo in un paese così complesso, e raccontare le emozioni che ci suscita.
Gola ha anche una comicità molto accentuata, che non è solo qualcosa che si attiva dal vivo, grazie alla bravura dell’attore. Anche nella lettura, la comicità della tua scrittura resta intatta. E questa è una cosa a tratti straordinaria perché quasi sempre leggere il teatro è difficile, quasi ostico, una cosa per amatori che sanno intravedere come poi saranno le parole sulla scena. I tuoi “sette atti comici”, raccolti nel libro Mondadori, conservano la loro potenza anche sulla pagina, contravvenendo a questa regola del teatro.
Per fortuna, perché sennò il libro sarebbe nei guai! Ovviamente abbiamo presentato i sette atti comici come dei racconti, ma il riscontro c’è, perché il libro è stato accolto come un’operazione di narrativa. La definizione di “sette atti comici” mi fa sorridere, è una scelta che abbiamo inserito per controbilanciare la cupezza della copertina, che abbiamo voluto molto sobria ed elegante, ma allo stesso tempo volevamo che si percepisse che si tratta di un libro divertente, non serioso né plumbeo.
(…)
Figli va a pescare nella tua storia personale. La tua biografia è un motore importante per te?
Nel caso di Figlidevo ammettere che l’esperienza personale è servita per la conoscenza della materia. È sempre utile, in scrittura, sapere bene di che cosa si parla. Quando l’ho scritto la prima volta l’ho trovato molto amaro e un po’ mi vergognavo, perché non volevo dare un segnale così disfattista e cupo. Poi invece mi sono reso conto che c’era stata un’adesione vasta e istintiva, che mi ha molto stupito. Effettivamente è un tema che non riguarda solo il singolo, ma racconta anche delle enormi difficoltà del nostro tempo e del nostro paese, l’Italia, dove le famiglie non sono molto aiutate. Un secondo figlio, per quanto possa suonare strano paragonarlo ad una “bomba”, in questo contesto può essere la cosa che fa deflagrare tutto. E questa è una dimensione tragicomica, perché c’è un lato difficile ma, poiché le cose si possono leggere attraverso tante chiavi, c’è sicuramente una chiave comica potente.
(…)
Quanto sono stati importanti per te gli incontri, le persone con cui hai collaborato?
Sono stati fondamentali. Soprattutto nei monologhi, perché in quel caso l’attore è tutto. Le mie regie sono sempre molto essenziali: ci sono le musiche e le luci, che hanno una funzione molto importante, ma tutto il resto è nelle mani dell’attore. Io lavoro molto sull’agilità, sull’assenza di orpelli o di strumenti inutili. È tutto nel testo e nell’attore. E quindi all’attore è demandato un lavoro enorme e gli attori che hanno lavorato con me hanno sempre aggiunto qualcosa di essenziale. Io stesso ho imparato con loro come dirigere un singolo attore in scena, cosa non facile. È stato un processo virtuoso. Io agli attori devo moltissimo. Per altro, poiché provengo da una dimensione di compagnia, per me la condivisione con gli attori è la prima cosa e la più importante. È quella che può innescare un processo molto bello.
(…)
I sette atti comici hanno tematiche diverse, ma c’è qualcosa che li accomuna: un certo gusto per l’iperbole. Si parte da un dato, spesso molto quotidiano e vicino a noi, ma il ragionarci sopra, lo svisceramento di quel pensiero, porta a delle vette iperboliche molto comiche ma altrettanto amare. Qual è la scintilla, l’innesco, per la scrittura di un tuo pezzo?
Questa è una questione molto interessante, perché il fenomeno delle digressioni è affascinante ma anche pericolo, dato che può appesantire il testo. Io tendo spesso a sviare dal racconto, ad aprire delle bolle che poi mi capita spesso di tagliare, perché altrimenti rischierei di fare spettacoli di sole digressioni, che non procedono mai. D’altra parte credo che una delle abitudini più interessanti della scrittura, quando è praticata nel tempo, è quella di saper individuare nella realtà cosa è sviluppabile, cosa può essere interessante da raccontare e declinare in chiave comica o tragicomica. Ci sono alle volte cose che all’inizio sembrano divertentissime, poi però andando avanti non funzionano (o non le sai far funzionare tu), e altre cose che invece esplodono, per le quali avverti già da subito la possibile empatia del pubblico. Però è vero, la digressione può essere molto potente, ed è qui che risiede la grande libertà della scrittura, che a teatro è ancora più forte, perché ci ritroviamo in una dimensione molto più autarchica, dove non hai praticamente nessuno ostacolo, ad esempio produttivo; quindi puoi fare davvero quello che vuoi. Semmai bisogna imparare a contenerla un po’, questa libertà.
I tuoi testi hanno fatto un viaggio dal teatro alla pagina scritta. Questo ha significato rimaneggiarli? E anche nelle messe in scena come fai, tendi a riscrivere i tuoi testi, a cesellarli di volta in volta?
Questo è un lavoro che, in realtà, tendo a fare prima che lo spettacolo vada in scena. Ho una rosa di lettrici e lettori molto severi, a cui faccio leggere il testo quando è pronto: a seconda delle reazioni cerco di capire se sto andando sulla strada giusta. Una volta mi sono ridotto talmente all’ultimo, e mi sono ritrovato a fare dei periodi immersivi nella scrittura, che alla fine non capivo più nulla. A quel punto se qualcuno mi avesse detto “guarda, non ci siamo”, penso che avrei buttato tutto. Comunque sia avere il primo ok di queste persone, a partire da mia moglie, è per me già un passo importante. Poi torno sul testo e scendo molto nel dettaglio, lavoro maniacalmente anche sulle singole virgole, perché quando arriva il giorno della prima deve essere tutto perfetto.
L’Europa non cade dal cielo. Cronistoria sentimentale di un sogno, di un’idea, di un progetto è uno spettacolo prodotto da Ravenna Teatro/Albe, nato nell’ambito del progetto EuRoPe LIVE, promosso dal Centro Europe Direct della Romagna del Comune di Ravenna e sostenuto dalla Regione Emilia-Romagna.
COM’È NATO IL TESTO
Ideato e diretto da Alessandro Argnani, il testo è scritto da Laura Orlandini
GIOVANI PROTAGONISTI
Due giovani attori ravennati, Camilla Berardi e Massimo Giordani, ripercorrono la storia d’Europa dagli esordi ai giorni nostri. Quella che emerge è una narrazione corredata da immagini e costellata da una playlist musicale legata ai diversi periodi storici raccontati, in un intreccio che mette in luce l’immaginario e gli ascolti delle giovani generazioni, nei diversi momenti della vita dell’Unione europea. Un affondo non solo nella storia, ma anche nei miti, nella musica e negli ideali vissuti da generazioni di giovani in tutta Europa.
Testo di Laura Orlandini, consulenza storica Michele Marchi e Lucrezia Ranieri, consulenza musicale Alessandro Luparini e Roberto Magnani, video Alessandro Penta, aiuto regia Alice Cottifogli.
In occasione de Diario di Pinocchio 20202065, in scena per La Stagione dei Teatri 2023/2024 martedì 23 aprile alle 21:00 al Teatro Rasi, Federica Ferruzzi ha intervistato Roberto Corradino.
Roberto Corradino
Si intitola Pinocchio 20202065 lo spettacolo che l’attore e regista Roberto Corradino ha scelto di portare al Rasi di Ravenna, nell’ambito de La Stagione dei Teatri, martedì 23 aprile, alle 21:00. Uno spettacolo con cui l’attore pugliese intende fare luce su un personaggio caro all’infanzia, Pinocchio, analizzandone però un aspetto di cui non si sa nulla, ovvero la vita adulta.
Corradino, partiamo dal titolo: cosa significa quel numero?
“Rappresenta un enigma di cui non vorrei dire molto, dal momento che il pubblico è chiamato a risolverlo durante la performance. È un numero in codice, così come in codice è la drammaturgia”.
Come nasce Pinocchio 20202065?
“La domanda che mi sono posto e che sta alla base di questo spettacolo è ‘Cosa sappiamo davvero di Pinocchio, quando da burattino diventa un bambino vero?’ Fondamentalmente nulla, per cui lo spettatore è chiamato a sciogliere un enigma che si disvelerà ai camminanti a fine spettacolo”.
Camminanti?
“Sì. Ad un certo punto gli spettatori sono chiamati a camminare per andare letteralmente alla ricerca di risposte nell’ambito di un percorso in cui Pinocchio diventa prima umano, poi artista. Qui ci occupiamo di quello che la storia di Pinocchio non racconta e lo spettatore diventa parte attiva del processo di conoscenza di una biografia che, ovviamente, è immaginaria”.
Come sarebbe oggi Pinocchio?
“È proprio quello che vorrei descrivere, e per farlo ho immaginato una sorta di museo della memoria. Oggi Pinocchio avrà figli? Si sarà sposato?”.
Perché si è concentrato proprio su questa figura?
“Perché io sono Pinocchio. Da un lato volevo sottolineare che questo personaggio è un archetipo, un grande mito, dall’altro volevo analizzare il fenomeno di un’adolescenza sempre più prolungata, l’incapacità di accedere in modo adulto al mondo adulto”.
Cos’è il teatro per Roberto Corradino?
“Il teatro è una grande possibilità per vivere in modo pieno, modalità che è propria del fuoco, del rischio, ma è anche un’opportunità per trovare salvezza. Il teatro è il gioco più antico dell’uomo, non ha una vera utilità, ma serve per riaffermarsi in quello che si è. È qualcosa di sempre in movimento verso possibilità inimmaginate”.
Uno spettacolo che il regista Luca Ricci firma insieme a Lucia Franchi, con cui dà vita, dal 2003, alla Compagnia CapoTrave, che produce proprie drammaturgie originali indagando i temi dell’attualità sociale dal punto di osservazione della provincia italiana. In scena protagonisti d’eccezione quali Giorgio Colangeli, attualmente candidato ai David di Donatello per il film di Paola Cortellesi, Antonella Attili, che abbiamo visto in Nuovo cinema Paradiso e, di recente, ospite del programma Propaganda Live di Diego Bianchi su La 7, e Federica Ombrato, in teatro diretta da Rifici, al cinema invece con Bellocchio.
Gli affari politici di una piccola realtà di provincia sono il cuore di questo spettacolo, che mette a nudo un modo di procedere scorretto, ma diffuso. Il tema è anche nelle cronache di oggi, cosa vi interessava sottolineare?
“Senza dubbio questo è l’aspetto centrale del lavoro: il punto di osservazione della provincia diventa una sorta di lente di ingrandimento per analizzare abitudini e costumi molto diffusi nel nostro Paese. Il tono è da commedia, è un lavoro in cui si ride, si ride molto, ma il tentativo che facciamo è anche quello di strozzare la risata in gola. In realtà non c’è niente da ridere di fronte a questo malcostume dilagante. Il nostro obiettivo, come autori, è anche quello di perseguire una sorta di liberazione, scrivere diventa terapeutico, ci liberiamo di cose che non ci vanno giù. La scrittura deve nascere da qualcosa che brucia, e allora pensiamo possa toccare corde che risultino interessanti anche per altri. Questo può stimolare una reazione, può, ad esempio, farci prendere atto che siamo tutti un po’ colpevoli rispetto a questi atteggiamenti. È un leggero scivolare verso un accomodamento reciproco, scagli la prima pietra chi non l’ha mai fatto in vita sua”.
Per presentare lo spettacolo siete ricorsi ad una frase di Sciascia: I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi Quali sono, qui, i piccoli fanatismi?
“Qui il fanatismo è quello di una giovane donna che si occupa di linguaggi del contemporaneo, che ha vissuto a Rotterdam, una città moderna e dinamica, ma che, tornata al paese, attua principi moraleggianti verso una generazione di padri che hanno rubato ed esaurito le risorse di cui ora sente la mancanza. È mossa da un intento anche nobile, ma alla fine scadrà nel fanatismo così come il sindaco, che per salvare un reparto ospedaliero si dimostrerà disposto a tutto. Allo stesso modo la madre, dirigente sanitaria, animata dalla volontà di non muovere troppo l’esistente, si dimostrerà capace di passare sopra la figlia pur di non sfigurare. Tre fanatismi che si incontrano in una situazione apparentemente molto tranquilla, che invece farà esplodere gli appetiti”.
A funzionare è anche la scelta dei protagonisti: cosa avete privilegiato nella selezione?
“Io e Lucia quasi mai scriviamo pensando a qualcuno. A volte è successo, ma non è la prassi. Le nostre ossessioni continuano a rimanere le storie, i contenuti, gli intrecci. In questo caso si è trattato di un incontro particolarmente fortunato perché Giorgio Colangeli e Antonella Attili sono due persone di grande generosità e professionalità, due qualità per nulla scontate. Ad esempio Colangeli, tutte le sere prima di andare in scena ripete la parte, la affina, regalandoci una bella lezione di vita. Federica Ombrato è stata un ‘innesto’ felice: è entrata per una sostituzione e ha spostato l’energia dello spettacolo in uno spazio inesplorato, è stata un’ulteriore ventata di freschezza”.
Il titolo, chiaramente, rimanda all’idea di astuzia: questi tre personaggi lo sono?
“Sì, senza dubbio: sono tre persone che, come dire, mettono in piedi una trama avvolgente, una tessitura, gli uni nei confronti degli altri per arrivare ai propri scopi. C’è inoltre un riferimento a Ben Jonson, un grande intellettuale, contemporaneo di Shakespeare per il quale nutriva una forte ammirazione. Scrisse Volpone, dove il personaggio centrale mette in piedi trame oscure e basate sulla furbizia per raggiungere i propri scopi. Per me l’aggettivo furbo non sempre ha valenza negativa, come dimostra il servo della commedia dell’arte che sarà protagonista del nuovo spettacolo: la sua furbizia non nasce da uno studio, bensì dalla pratica. Quello che cerchiamo di fare è scrivere testi in cui lo spettatore si immedesimi, quindi il risvolto oscuro arriva dopo: per tre quarti dello spettacolo la furbizia non si avverte, anzi si sopporta. Una spettatrice dopo una replica mi disse: ‘Colangeli è talmente affabile che gli daresti ragione anche quando dice cose assolutamente deprecabili’. Ecco, è esattamente questo l’obiettivo che volevamo raggiungere”.
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