È aperto fino al 22 febbraio il bando per candidarsi al corso di formazione permanente gratuito dal titolo Sound Design nelle performing arts diretto da Ermanna Montanari e Enrico Pitozzi con il sound designer Marco Olivieri e il light designer e direttore tecnico Luca Pagliano.
MALAGOLA – ideato e diretto da Ermanna Montanari, co-fondatrice e direzione artistica delle Albe, e dallo studioso e docente dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Enrico Pitozzi – è nato nell’ottobre del 2021 e raccoglie attività dal respiro internazionale collegate tra loro: la scuola, archivi sonori e audiovisivi tra i quali l’Archivio Demetrio Stratos, il Collegio Superiore di Estetica della Scena che promuove partnership editoriali, incontri, seminari, performance, concerti.
Il corso di formazione permanente Sound Design nelle performing arts – gratuito e dedicato a 13 studenti – mira a consolidare e/o riqualificare figure professionali che gravitano a diverso titolo intorno alle competenze connesse al sound design negli ambiti di produzione artistica, dalle arti performative alle installazioni, dai live set a quelli museali e radiofonici, così da delineare figure di alto profilo tecnico, realizzatori di progetti artistici fondati sulla spazializzazione, modellizzazione e registrazione-documentazione del suono. È pensato in sinergia con il progetto di alta formazione artistica, al fine di creare una filiera di competenze sia artistiche che tecniche nelle attività del centro.
Tra i docenti dei 3 moduli in cui si articola il corso, insieme ai direttori artistici Montanari e Pitozzi, al sound designer Marco Olivieri e al light designer e direttore tecnico Luca Pagliano, ci saranno diverse figure di primo piano che hanno elaborato sia strumenti che prospettive metodologiche di lavoro sul suono e la sua diffusione in spazi architettonicamente diversi, senza dimenticare l’incontro con artiste/i che hanno impiegato questi sistemi nella realizzazione delle loro opere, come: Nicola Prodi, Simone Corelli, Hubert Westkemper, Luigi Agostini, Massimo Carli, Robin Rimbaud aka Scanner.
La Scuola di vocalità è segnata dal tratto del disegnatore Stefano Ricci, che ha composto il logo e i materiali, insieme al progetto poetico per i social di Malagola di Marco Sciotto, studioso e responsabile degli archivi.
Tra i partner promotori a livello regionale, nazionale e internazionale che aderiscono al progetto: Fondazione Ravenna Manifestazioni-Ravenna Festival, Consorzio Digitalia, ERT- Emilia Romagna Teatro, Fondazione I Teatri, Istituto Superiore di Studi Musicali G. Verdi, Santarcangelo dei Teatri – Santarcangelo Festival, BH Audio, Tempi Tecnici Società Cooperativa, Robin Rimbaud Art Foundation.
SOUND DESIGN NELLE PERFORMING ARTS
corso di formazione permanente per 13 studenti Ravenna | da aprile a maggio 2024
150 ore complessive: 100 ore di lezioni in aula, 50 ore di “Project Work”
Requisiti di accesso:
abbiano residenza o domicilio sul territorio della Regione Emilia-Romagna;
siano dotati di titolo di formazione secondaria;
abbiano pregresse conoscenze, competenze ed esperienze professionali inerenti all’utilizzo e alla gestione di sistemi audio professionali (nell’ambito di teatro, cinema,danza, musica, multimedia, ecc.) acquisite attraverso percorsi formativi formali di formazione terziaria coerenti ed esperienze professionali testate;
abbiano comprovate competenze ed esperienze nei settori musicali (musica strumentale, elettronica ed elettroacustica) e conoscenza delle principali tecnologie applicate alla spazializzazione e ai sistemi di modellizzazione del suono.
Al termine sarà rilasciato un attestato di frequenza
Malagola fa parte delle attività di formazione teorico-pratiche avviate dal Centro di produzione ed Ente di formazione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
Operazione Rif. PA 2023-20219/RER approvata con DGR n. 2096 del 04/12/2023 e cofinanziata con risorse del FSE+ 2021-2027 e della Regione Emilia-Romagna
Il corso di alta formazione Estetiche e tecniche della ricerca vocale e sonora – gratuito e dedicato a 15 studenti – ha l’obiettivo di preparare e consolidare professionalmente figure che gravitano a diverso titolo nell’ambito della creazione artistica multidisciplinare, rafforzando competenze che vanno dalle arti della scena (performer, cantanti, attori/attrici e/o strumentisti/e), alla realizzazione di installazioni audiovisive e/o alla produzione multimediale (radiofonia, audioguide, audiolibri, ecc.), la cui pratica è indirizzata ad esplorare la voce e le sue interazioni con il suono e la musica elettroacustica ed elettronica.
Tra i docenti dei 5 moduli in cui si articola il corso, insieme ai direttori artistici Montanari e Pitozzi, ci saranno figure di primo piano della sperimentazione vocale e sonora nazionale e internazionale, della ricerca estetica e della foniatria, come Lucia Amara, François Bonnet, Sonia Bergamasco, Claron McFadden, Mirella Mastronardi, Diego Schiavo, Robin Rimbaud ‘aka’ Scanner, Franco Fussi, Silvia Magnani, Francesca Proia, Patrizia Cuoco. La direzione organizzativa del progetto è di Silvia Pagliano, la direzione tecnica di Luca Pagliano.
La Scuola di vocalità è segnata dal tratto del disegnatore Stefano Ricci, che ha composto il logo e i materiali, insieme al progetto poetico per i social di Malagola di Marco Sciotto, studioso e responsabile degli archivi.
Tra i partner promotori a livello regionale, nazionale e internazionale che aderiscono al progetto si segnalano: Fondazione Ravenna Manifestazioni-Ravenna Festival, ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione I Teatri, Ater Fondazione, Fondazione Flaminia, Mar – Museo d’Arte della Città di Ravenna, Istituto Superiore di Studi Musicali G. Verdi, Istituzione Biblioteca Classense, Santarcangelo dei Teatri – Santarcangelo Festival, L’arboreto – Teatro Dimora Mondaino, Start Cinema, BH Audio, Italian and American Playwrights project-Umanism LLC- Martin E. Segal Theatre Center, Robin Rimbaud Art Foundation.
corso di Alta formazione gratuito per 15 studenti Ravenna | da marzo a maggio 2024
440 ore complessive: 340 ore di lezioni in aula, 100 ore di “Project Work”
Requisiti di accesso:
-dai diciotto anni di età;
-residenza o domicilio in Emilia-Romagna;
-titolo di formazione secondaria quinquennale, laurea triennale, magistrale o equipollenti;
-pregresse conoscenze, competenze ed esperienze -almeno triennali- nell’area professionale dello spettacolo acquisite attraverso percorsi formativi formali ed esperienze professionali testate, supportate dall’invio di materiale multimediale;
-comprovate competenze ed esperienze -almeno triennali- nell’ambito della musica strumentale, elettronica ed elettroacustica supportate dall’invio di materiale multimediale.
Al termine sarà rilasciato un attestato di frequenza
Malagola fa parte delle attività di formazione teorico-pratiche avviate dal Centro di produzione ed Ente di formazione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro.
Operazione Rif. PA 2023-20219/RER approvata con DGR n. 2096 del 04/12/2023 e cofinanziata con risorse del FSE+ 2021-2027 e della Regione Emilia-Romagna
Ogni possibilità di futuro dimora nella qualità dell’ascolto. Da questo adagio prendono avvio le attività del Collegio Superiore di Estetica Malagola dedicate ai seminari. La parola «futuro» risuona qui in modo essenzialmente diverso da come oggi viene impiegata. Esso non indica un domani ipotetico, disposto nella mera successione del tempo. Implica invece un affondo in cui il tempo retrocede per toccare qualcosa che accade prima di ogni possibile inizio, là dove le cose discretamente dimorano nel loro cominciamento. La voce con cui questo «futuro» ci parla chiede dunque di essere custodita e ascoltata. Questi seminari sono lo spazio in cui dimorano le voci e i suoni del mondo: essi stanno li, pazienti e sempre presenti, in attesa di essere nuovamente compresi in un ascolto che li sappia intendere.
L’attrice, co-direttrice artistica e fondatrice del Teatro delle Albe, è stata vincitrice, negli anni, di diversi premi nazionali e internazionali, tra cui otto Premi Ubu
Ermanna Montanari, co-direttrice artistica e fondatrice del Teatro delle Albe, è entrata nella terna finalista del Premio ‘Le maschere del Teatro italiano 2023’ relativa al ‘Miglior Monologo’ andato in scena nella Stagione dei Teatri 2022/2023 per Madre, di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato, poemetto scenico di Marco Martinelli.
Montanari, negli anni, è stata vincitrice di premi nazionali e internazionali, tra i quali otto Premi Ubu – l’artista donna più premiata con gli Ubu in tutta la storia del premio dal 1977 a oggi, davanti a Emma Dante e Mariangela Melato – il Premio Lo Straniero ‘dedicato alla memoria di Carmelo Bene’, il Premio Eleonora Duse, il Premio Mess di Sarajevo.
Una giuria di circa mille esperti del settore sceglierà il vincitore della terna, che sarà premiato nella serata conclusiva, al Teatro Bellini di Catania, il prossimo 7 settembre.
La contemplazione si esprime cogliendo il ritmo latente delle cose, la loro voce sottile, il loro battito.
È così che questa serie di seminari declina il tema dell’ascolto: un canto sospeso a cui si porge orecchio per intendere ciò che tiene insieme, come in un sol respiro, le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo.
Si andranno così ad esplorare i temi del suono e della voce alla base delle diverse cosmogonie (in particolare greca, ebraica, vedica, persiano-islamica) ripercorrendo le tracce di un dialogo ininterrotto tra oriente e occidente. Ad ogni latitudine, infatti, il pensiero umano ha seguito percorsi simili nel delineare le diverse forme della filosofia, della spiritualità e dell’arte, al fondo delle quali si riscontra un’analoga meditazione sul suono che tutto genera, e dal quale scaturisce una parola primigenia, che solo la poesia può arrischiare.
È in questo senso che il suono, del cosmo come di ogni ente, diviene una vera e propria «vocazione» – dunque un’emissione di voce – che deve essere accolta e custodita. Il suono è la matrice, mentre la voce è il modo in cui esso si dà come memoria del suo primo manifestarsi: grido, lamento, invocazione.
8 aprile | dalle 16:00 alle 17:00
COSMOGONIE: UN’INTRODUZIONE
Enrico Pitozzi (Università di Bologna)
L’introduzione, intesa come pensiero che connette, dispone i temi dei diversi seminari in un disegno coerente, mostrando così l’ampiezza e la portata di una riflessione sul suono e sulla voce che ha le sue radici filosofiche, religiose e artistiche nel dialogo ininterrotto tra oriente e occidente.
Enrico Pitozzi è docente presso l’Università di Bologna. Ha insegnato nelle università di Venezia (IUAV), Padova, Parigi, Montréal, Valencia e Francoforte. È membro del «MeLa research lab» dell’Università Iuav di Venezia, del «Sensory Studies» della Concordia University (Canada) e del progetto «Mixed Reality»dell’Université Côte d’Azur de Nice (Francia). È autore di numerose pubblicazioni internazionali; con Ermanna Montanari ha scritto Cellula. Anatomia dello spazio scenico | Anatomy of the scenic space, Macerata, Quodlibet, 2021.
8 aprile | dalle 17:00 alle 19:00
9 aprile | dalle 10:00 alle 13:00
LA TRADIZIONE VOCALE-SONORA PERSIANA E IRANIANA NEL TEATRO
Leili Galehdaran (Università di Shiraz, Iran)
Il seminario introduce i fondamenti filosofici delle pratiche vocali e sonore delle varie epoche, persiana come iraniana, e discute le forme musicali dei generi performativi come il «Naghali» e il «Ta’zieh», oltre ai rituali funebri come il «Noha» e il «Suvashun». Verrà inoltre approfondita la nozione di poesia in atto, con le sue radici vocali ben ancorate nei generi performativi e rituali.
Leili Galehdaran ha studiato teatro presso l’Università dell’Arte di Teheran dal 1996 al 2003 e ha conseguito la laurea magistrale al Dams di Roma Tre, oltre al dottorato in Discipline dello Spettacolo presso L’Università La Sapienza di Roma nel 2013. Dal 2014 è Assistant Professor in Dramatic Literature a Shiraz University of Arts dove ha diretto l’International Relations dal 2015 al 2017; è stata supervisore e direttore del Dipartimento di Letteratura drammatica della Shiraz University of Arts dal 2015 al 2019. All’attività di ricerca affianca la produzione di poesia. Come poeta e teorica del teatro ha elaborato la nozione di Poesia in atto, fondata sull’oralità, il corpo, la voce e la presenza.
Lingue: italiano, inglese, persiano Durata: 6h
22 aprile | dalle 15:00 alle 19:00 23 aprile | dalle 09:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00
ECOSOFIA SONORA | PRATICHE D’ASCOLTO | SPAZIO SONORO
Roberto Barbanti (Università di Parigi 8, Francia) e Carmen Pardo Salgado (Università di Girona, Spagna)
Partendo dall’ecosofia di Félix Guattari, il seminario si propone di esplorare la specificità dell’ascolto come esperienza singolare del sentire e del sentire in comune. Si tratta di interrogare la voce, il suono e il milieu per tessere, disegnare e comporre le nostre relazioni con e nell’ambiente, l’ascolto di noi stessi e delle nostre vite insieme. Teoria e pratica s’intrecciano in una ricerca che va oltre le dualità corpo/pensiero, soggetto/oggetto.
Carmen Pardo Salgado è professore ordinario all’Università di Girona (Spagna). Ricercatrice post-dottorato presso l’unità IRCAM-CNRS di Parigi (1996-1998; 2018). Ha pubblicato: Música y Pensamiento, apuntes de un encuentro (2019); Dans le silence de la culture (Eterotopia, 2018); Las TIC: una reflexión filosófica (2009); L’écoute oblique: une invitation à John Cage (L’Harmattan, 2007); Robert Wilson (avec Miguel Morey, 2003); John Cage, Escritos al oído (1999).
Roberto Barbanti è professore emerito presso il dipartimento Arti visive Université Paris 8 (Francia). I suoi ultimi libri pubblicati in italiano: Il medium oltre sé stesso. Ultramedialità e divenire dell’arte (Kajak, 2017); Le chimere dell’arte. Guerra estetica, ultramedialità e arte genetica (Ombre corte, 2017); Dall’immaginario all’acustinario. Prolegomeni a un’ecosofia sonora (Galaad Edizioni, 2020).
Lingue: italiano, inglese, spagnolo, francese Durata: 12h
29 aprile | dalle 16:00 alle 19:00
30 aprile | dalle 10:00 alle 13:00
IL SUONO SACRO. MISTICA ED ESTETICA MUSICALE NEL PENSIERO INDIANO
Nicola Biondi (Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, Francia)
Il corso si articola in due giornate durante le quali si affronterà un breve percorso esplorativo, una sorta di ventaglio prospettico sulla valenza del suono e le implicazioni della voce nelle speculazioni religioso-filosofiche ed estetiche del subcontinente indiano. La prima giornata sarà dedicata ad una panoramica sulla «teologia sonica», dai Veda alle tradizioni teistiche. La seconda giornata approfondirà il ruolo della Voce nel pensiero indiano, delineando i principi strutturali dell’estetica della musica classica indiana e consacrando parte della lezione all’ascolto guidato di alcune tracce sonore.
Nicola Biondi, libera ricercatrice, si occupa di trattatistica musicologica in lingua sanscrita. Laureata in Lingue e Civiltà Orientali (Hindi-Sanscrito, Religioni e Filosofie dell’India) all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha poi frequentato il Dottorato all’EHESS di Parigi con un progetto di ricerca dedicato alla Musica classica del Nord India. Dal 2012, grazie alla Borsa di Studio Vittore Branca e alla Fondazione FIND (Fondazione India-Europa di Nuovi Dialoghi), si è dedicata alla ricerca sull’Archivio dell’etnomusicologo e orientalista francese Alain Daniélou (Fondazione Giorgio Cini di Venezia), pubblicando A Descriptive Catalogue of Sanskrit Manuscripts e Il corpo come strumento musicale. Parallelamente agli studi universitari ha frequentato il Conservatorio Arrigo Pedrollo di Vicenza (tradizioni musicali extra-europee; canto Dhrupad, tabla). In India si è dedicata allo studio della musica classica indostana e carnatica e alla pratica dell’Hatha-yoga coniugando l’approccio tradizionale guru-śiṣya con quello istituzionale (Malaviya Bhavan, Banaras Hindu University; Visva Bharati University; Kalakshetra, Chennai).
Lingua: italiano Durata: 6h
6 maggio | dalle 16:00 alle 19:00
7 maggio | dalle 10:00 alle 13:00
LA VOCE COME PRESENZA CREATRICE NELLA BIBBIA E NELLA CULTURA CRISTIANA
Sorella Anastasia (Monastero Carmelitane di Ravenna)
Il seminario propone un percorso di approfondimento attento, a partire dai primi capitoli del libro della Genesi, in cui, grazie alla forza luminosa della lingua originale ebraica, si giungerà a scoprire la creazione come incontro col principio materno e come rivelazione dell’adàm, che siamo noi. Fino ad arrivare ad attingere dal Libro dei Salmi e dal Cantico dei Cantici l’acqua viva della preghiera, che nell’esperienza cristiana è incontro e dialogo, è bacio dell’Amante che è in noi, è nuova creazione.
Sorella Anastasia, innamorata di Dio e appassionata delle Sacre Scritture, vive l’esperienza della vita monastica dall’età di 20 anni. Attraverso la preghiera, lo studio biblico nelle lingue originali e l’ascolto dell’animo umano, rilegge la clausura come spazio di incontro e apertura. Con una particolare attenzione ecumenica, esprime la vocazione della sua città di Ravenna, quale ponte tra Oriente e Occidente. Scrive testi e pubblica conferenze video su temi biblici, che approfondisce con sensibilità mistica e femminile.
Lingua: italiano Durata: 6h
20 maggio | dalle 16:00 alle 19:00
21 maggio | dalle 10:00 alle 13:00
LAMENTAZIONE, LUTTO, MALINCONIA. LA VOCE E IL LINGUAGGIO NELLA CULTURA EBRAICA
Ilit Ferber (Università di Tel Aviv, Israele)
Il seminario si concentrerà sul lamento e la nenia nel pensiero ebraico. Introdurrà alcuni termini e problemi fondamentali relativi al lamento: sofferenza ed espressione, la domanda senza risposta, la relazione tra lamento e preghiera, voce ed espressione nel lamento, strutture poetiche, e così via. Si commenteranno alcuni lamenti e si discuteranno le loro strutture poetiche e filosofiche. Si ascolteranno anche alcuni lamenti, così come presentati in forma teatrale.
Ilit Ferber è professore associato di filosofia all’Università di Tel-Aviv. La sua ricerca si concentra sulla filosofia delle emozioni, specialmente la malinconia, la sofferenza e il dolore, dalla prospettiva del linguaggio. Ha pubblicato articoli su Benjamin, Heidegger, Leibniz, Scholem, Herder, Freud, Améry e altri. È stata cocuratrice di quattro libri sugli stati d’animo in filosofia, il lamento nel pensiero ebraico e la grammatica del grido (in inglese, spagnolo ed ebraico). Ha pubblicato due monografie: Philosophy and Melancholy: Benjamin’s Early Reflections on Theater and Language (Stanford University Press nel 2013) e Language Pangs: On Pain and the Origin of Language (Oxford University Press, 2019). Attualmente sta lavorando sul ruolo dell’acustica negli scritti autobiografici di Benjamin e sulla filosofia della temporalità di Jean Améry.
Lingua: inglese con traduzione simultanea Durata: 6h
10/11 giugno 2022 | dalle 14h alle 17h SEMINARIO POSTICIPATO IN AUTUNNO
LE FORME DEL PENSIERO TRA ORIENTE E OCCIDENTE
Silvia Ronchey (Università di RomaTre)
Il seminario intende sviluppare la fitta rete di temi e motivi – dalle antiche simbologie al pensiero sull’immagine, passando per la voce dei mistici e il concetto di «visione» – che connettono oriente e occidente in una sola architettura del pensiero. È da questo orizzonte che riemergono le tracce di una concezione del sacro, e dunque del mondo, che oggi può essere riportata alla luce, nonostante la nostra coscienza storica e la nostra memoria collettiva tendano a rimuoverla. Il seminario – così come la conversazione con Enrico Pitozzi, prevista per la seconda giornata – sarà accompagnato da immagini e materiali audiovisivi.
Silvia Ronchey è professore ordinario di Civiltà bizantina all’Università di RomaTre. Oltre ai numerosi saggi specialistici ha scritto libri di ampia diffusione, tra i quali ricordiamo: L’aristocrazia bizantina (Sellerio, 1998, 19992), con Alexander Kazhdan; L’enigma di Piero (Rizzoli, 2006); Ipazia. La vera storia (Rizzoli, 2010); Storia di Barlaam e Ioasaf. La vita bizantina del Buddha (Einaudi, 2012); La cattedrale sommersa. Alla ricerca del sacro perduto (Rizzoli, 2017). Collabora regolarmente a “La Repubblica”. Ha realizzato interviste a testimoni del secolo quali Claude Lévi-Strauss, James Hillman, Ernst Jünger, Jean-Pierre Vernant, Elémire Zolla. L’incontro con James Hillman, in particolare, ha dato origine a una duratura collaborazione che si è espressa, oltre che nelle interviste televisive, nei due libri-dialogo L’anima del mondo (Rizzoli, 1999) e Il piacere di pensare (Rizzoli, 2001), protraendosi fino alla scomparsa di Hillman: il loro ultimo libro-dialogo L’ultima immagine (Rizzoli 2021) è uscito postumo nel decennale della morte.
VOCE E SUONO NEL PARADISO DI DANTE (SEMINARIO PRATICO | CANTIERE DANTE)
Ermanna Montanari e Marco Martinelli
La Commedia è intessuta di materia sonora. L’ascesa di quell’uomo smarrito è al tempo stesso una continua metamorfosi di suoni: dalle “orribili favelle” dell’Inferno alle salmodie purificatrici del Purgatorio, fino all’armonia delle sfere celesti del Paradiso. Dante si rappresenta, in quella che è la più “erotica” (Eros e Agape intarsiati) delle tre cantiche, annichilito fino al balbettio, sprofondato nell’abisso dell’Assoluto Amore. Il nostro lavorare con i cittadini terrà conto che la forza del teatro è proprio la carnenei suoi limiti terreni: a differenza di Dante, che non sa se sta “salendo” con il corpo o solo con l’anima (Par. I, 73-75), noi staremo con i piedi ben piantati a terra, ancorati alla nostra imperfezione: e al tempo stesso cercheremo di far sì che quell’imperfezione sveli il suo scandaglio sonoro, uno scendere nelle profondità della voce.
Marco Martinelli e Ermanna Montanari, capostipiti di un’intera comunità artistica – il Teatro delle Albe fondato nel 1983 – sono maestri di un linguaggio teatrale che innesta la parola nella voce e la drammaturgia nella compresenza tra visibile e invisibile. Portatori di una poetica che attinge dalla tradizione scardinandola, e che non scinde l’arte dall’esistenza, i due artisti concentrano il proprio lavoro nella ricerca d’attore e nella parola, addentrandosi ora in un crinale che attraversa i territori del dialetto romagnolo e della musica elettronica, ora nella commistione con la cultura africana, ora componendo affreschi e allegorie corali. Lavorano ideativamente a quattro mani in modo alchemico e inscindibile, tesi in un forte afflato politico ed estetico, l’una immersa particolarmente nella ricerca vocale e nella creazione scenografica, l’altro dedito alla scrittura e alla regia, con slancio pedagogico. Numerosi le pubblicazioni da loro firmate e a loro dedicate.
Lingua: Italiano
Per partecipare è necessario scegliere un coro (i cori sono suddivisi a seconda dei diversi orari, richiedere info a malagola@teatrodellealbe.com).
Tutti i seminari sono gratuiti, ma è richiesta l’iscrizione.
Gli incontri si terranno presso la sede di Palazzo Malagola, via di Roma 118 (entrata da vicolo Porziolino), Ravenna, nel rispetto delle norme vigenti in materia di prevenzione e contenimento del Covid-19.
La Stagione dei Teatri 2021/2022 Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato
25-28 novembre 2021, Teatro Alighieri
In occasione di Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato, in apertura de La Stagione dei Teatri 2021/2022, riportiamo qui di seguito l’articolo “Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato.” di Marco Sciotto, pubblicato in Arabeschi n. 17, gennaio-giugno 2021.
Riemergendo dal fondo della scrittura e della scena. Madre di Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato
Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.
1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima
Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.
Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.
A interrompere, tuttavia, l’elaborazione del progetto – meglio, a non permetterne neppure un vero e proprio avvio – lo scoppio dell’emergenza sanitaria e i conseguenti due mesi di confinamento a cavallo tra l’inverno e la primavera del 2020. Mesi nei quali l’abbandono dell’idea iniziale non frena il desiderio di tenere in vita e in attività, seppure a distanza, quel gruppo di lavoro su un progetto differente ma che mantenga le medesime premesse e aspirazioni.
È così che, abbandonato il Traumtexte di Müller, Marco Martinelli dà vita, in pochi giorni, al testo di Madre. Drammaturgia in versi liberi, poemetto scenico a due voci, dittico vertiginoso per due figure che, più che ingaggiare un dialogo, sembrano muoversi su due soliloqui che sanciscono un colloquio impossibile. Da un lato, un figlio che, in affanno e attraversando di corsa i campi, arriva al bordo di un pozzo nel quale pare sia caduta sua madre; dall’altro la madre, appunto, finita laggiù in fondo al pozzo dal quale non riesce più a venir fuori. Il primo rinchiuso ben presto nella ricerca di pretesti e alibi per differire una reale assunzione di responsabilità e ogni intervento di soccorso in prima persona; la seconda isolata nella sua condizione apparentemente irrimediabile, a interrogarsi sulle reali cause di essa, a rammaricarsi per la connaturata noncuranza del figlio che sconfina nella colpevolezza, a raccontare misteriose leggende a lui che sembra precipitato a sua volta nell’assenza e, infine, a implorarlo invano di scendere a salvarla senza ulteriori pretesti o esitazioni. Una mancanza di relazione effettiva tra le due voci che permette tuttavia, a esse e alle figure da cui scaturiscono, di moltiplicare le loro stesse possibilità di senso e di direzione, senza restare imbrigliate nell’univocità data da un reale contatto e dalla trama che ne scaturirebbe. Proprio come l’assenza di dettagli specifici o dei nomi delle due figure, che appaiono solo come ‘figlio’ e ‘madre’.
Un testo che sembra quasi il sogno del sogno di Müller. Così come i volti, i ruoli, i luoghi e gli eventi della vita vissuta vengono nei sogni confusi e ribaltati, allo stesso modo sembra che Traumtexte abbia a sua volta attraversato uno stravolgimento onirico che ha generato Madre. Stravolgimento nel quale la cisterna si deforma e si dilata nelle profondità di un pozzo, il rapporto tra padre e figlia si torce in quello tra una madre e un figlio e nel quale, soprattutto, s’è già realizzata e conclusa la scissione, la separazione che tanto angosciava l’uomo di Traumtexte: quella ferita della perdita, dell’abbandono e dell’assenza forse irreversibile, il cui timore segnava ogni suo passo sul bordo della cisterna.
Se, come scriveva Clarice Lispector, «scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»,[1] Martinelli sembra aver gettato Müller nel pozzo profondo della propria scrittura, generando uno smottamento di piani, uno slittamento dal sogno al trauma, potremmo dire. Due termini – ‘trauma’ e ‘sogno’ – che la lingua tedesca lega, d’altronde, in un’etimologia comune[2] che, provenendo dall’idea del perforare e insieme del ‘passare al di là’, pare chiamare in causa, in un certo senso, anche il pozzo stesso, nel suo essere un passaggio a un altrove attraverso un abissale perforamento. Come Martinelli fa dire al figlio in questa sua ultima opera:
«Che un pozzo come questo
non è mica un pozzo normale
cosa credi?
Non ce n’è uno così sfondo
in tutta la pianura!
Dicono che arriva così giù
ma così giù
chilometri e chilometri
che a un certo punto dall’altra parte
si vedono le montagne!»[3]
Una parentela, quella del trauma di Madre con il sogno di Traumtexte, che si mostra già, ancor prima che sulla scena, sul manifesto realizzato da Stefano Ricci per lo spettacolo che, dopo un lavoro di ricerca condotto dapprima a distanza e poi in residenza al Teatro Rasi di Ravenna, ha debuttato, nell’ottobre 2020, nell’ambito del festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Premessa visiva, questo manifesto, che, come un ponte tra il testo di Martinelli e l’opera che ne è scaturita, accompagna gli spettatori fin dentro quel pozzo senza fondo in cui ‘madre’ e ‘dream’ perdono i confini che li separano, al punto da poter essere una cosa sola. Un buco nero in cui tutto sprofonda e tutto emerge e nel quale sembrano fondersi insieme l’abbandono del mondo intero e dell’affetto più intimo, della Madre come della madre, l’infanzia del mondo e la sua apocalisse, nell’indecidibilità di un enigma pronto a moltiplicarsi all’infinito sulla scena.
2. Tornare alla creazione dopo l’abisso: Madre sulla scena, tra sguardo e ascolto
Lo spazio della scena è accessibile allo sguardo dello spettatore già al suo ingresso ma, illuminato solo di riflesso dalle luci di sala, è come disattivato, disinnescato. In quella penombra, tuttavia, si intravede già come spazio sezionato e ripartito in una moltiplicazione di elementi circolari di dimensioni, fatture e disposizioni differenti. Come avesse fatto posto al disseminarsi di tanti possibili pozzi diversi o dell’idea stessa di pozzo osservata, come in una sorta di proiezione ortogonale, da più punti di vista, su differenti piani. Un’invasione della scena attraverso la quale il pozzo stesso si sottrae a un ruolo meramente scenografico e, scomponendosi e ridistribuendosi, si configura già, piuttosto, come funzione che condizionerà l’intera opera.
Come presi nella forza d’attrazione di questa moltiplicazione di pozzi, le tre figure fanno il loro ingresso una dopo l’altra, trovando ognuna la porzione di scena che sarà la propria per l’intera performance. A ciascuna il proprio differente pozzo, legato al ruolo che deterrà all’interno dell’opera. Così come la pedana rotonda nella sezione sinistra della scena, sulla quale, a leggio, prende posto Ermanna Montanari e che sosterrà l’avvento e il prodursi della parola; o come il grande disco che, in verticale, riempie il centro dello spazio, sotto cui si colloca Stefano Ricci e sulla cui superficie prenderanno vita le proiezioni dei suoi disegni; ancora, come la struttura circolare sulla destra del palco, al centro della quale, come in un ideale golfo mistico, si dispone Daniele Roccato e sulla quale sono installati i monitor e la strumentazione elettronica che farà tutt’uno con il suo contrabbasso.
Differenti configurazioni di pozzi cui corrispondono, al contempo, differenti disposizioni del corpo umano, punti di vista diversi sul corpo scenico dipendenti dalle rispettive posture delle tre figure: Montanari in piedi, in ginocchio Ricci e seduto Roccato. Quasi fossero un unico corpo colto, come in una sequenza fotografica di Muybridge, in tre istanti consecutivi del suo cader giù verso l’abisso del pozzo stesso. Ed è questo precipitare cristallizzato ad attivare finalmente la scena, avvio sancito dal sopraggiungere del buio, quell’oscurità nella quale sembriamo condividere la sorte di questa madre finita nelle profondità più remote e dalla quale riemergere. Una madre che pare incarnare l’idea stessa della creazione, del dare la vita, e la cui sparizione ci getta da subito in un avvio nel segno della generazione o, meglio, della sua messa in discussione, del suo radicale ripensamento. Come se la necessità fosse quella di ripartire, attraverso la scena, dal grado zero della generazione stessa. La parola, il suono, il visibile, tutto il reale che essi incarnano, sembrano da ripensare e rifondare come non fossero mai esistiti. E la scena pare essere il luogo di una loro nuova possibile genesi.
Scriveva Max Kommerell che il gesto racchiude l’indicibile della parola.[4] E così in principio, in questo nuovo principio, non è più il verbo ma, appunto, la sua impossibilità che si converte in gesto. A solcare il buio è infatti il gesto di Stefano Ricci, la sua mano che traccia lenta una linea di gesso bianco sul nero del disco di cartoncino sistemato davanti a lui, sulle assi del palcoscenico. Linea bianca che, ingigantita e proiettata sull’altro disco sospeso in verticale sopra la sua testa, sarà la fenditura originaria da cui poco a poco si genererà il mondo stratificato della scena teatrale. Gesto sonoro, innanzitutto: l’attrito del gesso sul cartoncino è il primo suono percepibile nell’invisibilità di questo universo in formazione. Un suono quasi inavvertibile che si fa subito immagine, la quale, a sua volta, solleciterà il generarsi degli altri suoni che invaderanno progressivamente la scena. A partire da quelli del contrabbasso di Roccato, nella loro nudità e insieme nel loro plasmarsi attraverso i dispositivi elettronici che li rielaborano, in accordo con la preziosa e sapiente regia del suono di Marco Olivieri.
Mentre i gesti di Ricci si fanno via via più concitati e delineano forme sempre più riconoscibili, i suoni di Roccato crescono, facendosi consistenti e impetuosi. Il generarsi dell’immagine dal gesto originario e sonoro ha permesso lo scaturire dei suoni che, a loro volta, creeranno la parola. Una lingua che adesso, quasi impercettibilmente, sentiamo formarsi gradualmente all’ascolto.
La voce di Ermanna Montanari pare faticare a levarsi, come nascesse per la prima volta e con essa il linguaggio stesso. Come scrive Agamben, commentando proprio Kommerell, «il gesto è sempre gesto di non raccapezzarsi nella parola»,[5] ed è questo arrancare della voce incapace ancora di dire, questo suo farsi gesto che la fa sbuffare, gorgogliare, che la stira e la raschia, che udiamo inizialmente. Una lunga introduzione nella quale ogni forma – quella visiva, quella sonora e quella linguistica – combatte e ribolle per emergere e affermarsi, in conseguenza del trauma della caduta che ha azzerato la creazione stessa. Ed è il figlio, ossia l’idea stessa di ciò che è creato, a costituirsi pian piano attraverso la scena: la madre è perduta in fondo al pozzo e sta allora alla scena, ai suoi tre creatori-performer, dare a lui una nuova nascita. Ricci ne immagina in modo sempre più dettagliato il profilo in corsa attraverso i campi, Roccato ne inventa il tessuto sonoro in cui è immerso nella sua corsa e Montanari ne scopre la voce che in quella corsa impreca, geme, protesta, si lagna.
È solo a seguito di questo riconfigurarsi del reale attraverso un suo inabissamento nel pozzo più profondo e di una nuova, differente nascita, che sembra si possa tornare ad accostarsi al mondo, modificando sguardo e prospettiva. Soltanto dopo questo sforzo penoso e sfiancante, sembra dirci Madre già nel suo incipit, si può prendere parola e ricominciare a vedere e ascoltare come fosse la prima volta. Ed è proprio ‘madre’ la prima parola riconoscibile che sentiamo soffiare tra le labbra di Montanari. La parola che racchiude in sé l’opera e questa nuova dimensione della nascita attraverso la scena. Un sibilo che è insieme il grido che apre il poemetto di Martinelli.
Lungo tutta la prima sezione del dittico, Ermanna Montanari inventa questo figlio in voce. Una voce che non tenta di rappresentarlo come personaggio, ma che intercetta e gli offre le sonorità necessarie all’articolazione dei versi di Martinelli, che sono qui un groviglio di timore, smarrimento, stoltezza e ansia di deresponsabilizzarsi. Così, nelle pieghe di timbri che ne fanno risuonare tutta l’ottusità e la grettezza, lo ascoltiamo innanzitutto rimproverare la madre per quell’incidente, per non essere rimasta a casa a guardare la TV come avrebbe dovuto fare alla sua età, per essersi affacciata e sporta troppo di là dal bordo. «Madre! / Cosa ci sarà mai da vedere / laggiù in fondo?»,[6] domanda, ma, attraverso le sue stesse parole, apprendiamo la risposta di lei, che sembra chiarire fin da subito come il pozzo non sia riconducibile tanto alla possibilità del vedere, allo sguardo, che infatti è abolito per tramite dell’oscurità che lo riempie, quanto a una dimensione legata all’udito, al solo ascolto: «Cosa? / Non ti sento / parla più forte! / Non ti sento / cosa stai dicendo? / Che era buio? / Cosa c’entra che era buio? / Hai sentito delle voci?».[7] Risposta subito derisa dal figlio stesso che, appunto, alla sfera dell’ascolto pare del tutto estraneo, come emerge anche dalla sua reiterata ammissione di non riuscire a sentire la voce della madre da quel fondo.
Accecare il creato per ripensarlo e rigenerarlo significherebbe, insomma, riaccostarsi a esso in attento ascolto e non in semplice osservazione distaccata. È per questo che tutto Madre non si mette in scena, ma in voce e suono. La rappresentazione, la sua osservabilità attraverso la distanza tra il palco e la sala, è abolita e riconvertita nell’intimità senza mediazione della sua udibilità, del suono che si genera già nella prossimità – che l’amplificazione favorisce – tra fonte e orecchio.
Questo contrasto apparentemente insanabile tra la vista e l’udito, tra sguardo e ascolto, tra i limiti del primo e le possibilità del secondo, sembra davvero rappresentare l’essenza centrale di Madre e custodirne i tanti enigmi, nella loro insolubilità. A partire dalla figura stessa di Ermanna Montanari e dalla sua presenza in scena che esige, qui, una ritrattazione di ciò che vediamo – ossia le sue fattezze femminili – per accordare fiducia a ciò che udiamo, al suo divenire, in voce, la figura maschile del figlio. Ma l’enigma, appunto, non si esaurisce qui. È solo un’attrice che interpreta un ragazzo, quella che vediamo e udiamo? O, piuttosto, è già la madre nel suo definitivo abbandono in fondo al pozzo, che si finge la speranza della presenza d’un figlio che possa salvarla? È davvero una sequenza di ruoli differenti a comporre il dittico di Martinelli o è piuttosto un’unica figura attraversata da alterazioni e mutazioni che concretizzano questo disperato intreccio di generazione, abbandono e distruzione? E, ancora, cosa vediamo attraverso l’ininterrotto fluire delle immagini in costruzione di Stefano Ricci e cosa ascoltiamo nei suoni di Daniele Roccato, nel loro nascere dal silenzio e risprofondare in esso non appena si sono generati?
Questioni che, in quanto enigmi, appunto, non ammettono risposte univoche o definitive soluzioni, ma che proprio nella loro inestricabilità e multiformità compongono l’opera e la sua tensione irrisolta tra creazione e creato, tra chi genera e chi distrugge ciò che l’ha generato. Tensione che si riverbera, appunto, in quella tra visibile e udibile, tra sguardo e ascolto. Tra ‘immaginario’ e ‘acustinario’, potremmo dire, ricorrendo a una distinzione fondamentale proposta da Roberto Barbanti in un volume di recente pubblicazione,[8] che con Madre sembra trovare sorprendenti punti di contatto e congiunzione. Se, scrive Barbanti, «l’immaginario occidentale, ormai in un certo qual modo propagatosi a livello planetario, si è costruito in un processo […] nel quale le diverse modalità del relazionarsi alla realtà […] sono state progressivamente plasmate dall’universo visivo, strutturandosi attorno ad esso»,[9] si pone in modo sempre più stringente la necessità di «attivare e favorire un processo di rinnovamento dell’immaginario che integrando e superando questa dinamica retinica monodimensionale possa “ri-conoscersi” nel mondo differentemente».[10] Un processo che ricorra dunque a una polisensorialità o, meglio, polifonicità. Un ribaltamento di paradigma dall’osservazione distaccata e riduttiva dell’‘immaginario’ a una sua ‘decolonizzazione’ attraverso l’immersione relazionale e irriducibilmente complessa dell’‘acustinario’, seguendo il termine coniato da Barbanti stesso già negli anni Ottanta.
E nell’Occidente che «ha fondamentalmente osservato il mondo distaccandosene progressivamente»[11] descritto da Barbanti, pare proprio di ritrovare quel figlio che, relegato a una dimensione fondamentalmente retinica, visiva, cerca invano di scorgere la madre nel buio del pozzo, incapace di sentirla e di porsi in suo ascolto. Quel figlio che, sordo a ogni empatia e capacità di assumersi le proprie responsabilità, finge di cercare una soluzione per tirarla fuori da laggiù, salvo poi trovare una scusa buona per non voler coinvolgere chiunque gli venga in mente – i polacchi, gli albanesi, le donne nei campi.
Una deresponsabilizzazione che sfocia, poi, in un lungo, pretestuoso elenco di strumenti, congegni e dispositivi tecnici all’avanguardia che dovrebbero costituire la task force che gli permetterebbe di salvarla da solo, senza ricorrere all’ausilio di nessuno. Ulteriore presa di distanza che delega alla sola tecnosfera un ormai impossibile rapporto diretto con la biosfera e che si farà finalmente definitiva grazie alla minaccia di un imminente, violento temporale che offrirà al figlio l’alibi per fuggire via, pur promettendo di ritornare una volta trovato aiuto.
Un pozzo che ruota su se stesso facendosi forse portale tra mondi differenti, passaggio tra identità inconciliabili: precipitandovi dentro, Montanari dissiperà definitivamente la figura del figlio, per riemergerne poi attraverso quella della madre, alla quale è affidato il resto dello spettacolo. Una madre che avanza lenta, quasi in trance a prendere il proprio posto sulla sua pedana-pozzo. Una figura incorniciata da una lunga parrucca bianca che pare rinnovare e moltiplicare gli enigmi della vista: è il figlio con in dosso una parrucca che sprofonda nell’illusione di una possibile sopravvivenza di ciò che non è sopravvissuto? È allora forse solo il figlio l’unica presenza a fingersi tutte le altre?
Anche qui, una risposta è impossibile e questo infittirsi della dimensione enigmatica di Madre ci inabissa nel flusso di versi affidati alla voce di lei e alla sua dimensione sempre più rarefatta. Quasi dovessimo – noi tutti prendendo il posto del figlio che non ne è stato in grado – affinare l’udito, raggiungerla nei suoi sussurri, nei suoi microscopici o evidenti cambi di tono o di timbro, in un regime della voce che pare davvero sorgere già nella ricezione più profonda e recondita dell’udito, farsi orecchio ancor prima che bocca.
La madre è tutta ascolto. È la dimensione acustinaria infinitamente stratificata del mondo che sfida quella ristretta e circoscritta dell’immaginario, tornando a Barbanti. Lo percepiamo innanzitutto nel suo ossessivo domandare al figlio, che è già andato via, se la sente, se riesce a udirla. Una richiesta reiterata nella totale assenza di speranza, formulata com’è senza il minimo sollevarsi di volume, quasi rivolta a se stessa e alla propria consapevolezza dell’impossibilità d’una risposta. Così come senza risposta è lo scorrere delle ipotesi da lei formulate sulle possibili cause della sua caduta, arrivando a supporre che possa essere stato addirittura il figlio stesso a spingerla, magari per la distrazione e la fretta che lo contraddistinguono: quel suo veder solo se stesso che gli impedisce di ascoltare tanto gli altri quanto le cose che gli stanno intorno. Come le calle che lei tanto ama e che lui finisce, noncurante, per calpestare ogni volta che entra nel suo orto, o come gli alberi e le piante d’ogni genere e famiglia che estirpa e abbatte senza riconoscerne il valore e l’inestimabilità e senza comprendere la gravità di simili azioni.
Le ipotesi e le recriminazioni lasciano improvvisamente il posto, però, nelle parole della madre, a un misterioso, enigmatico racconto. Una sorta di fiaba, di leggenda che richiama il Borges di Animali degli specchi[12] e che narra di un tempo in cui ogni specchio era una sorta di passaggio tra un mondo e un altro. Mondi che si scontrarono in una guerra della quale si sarebbero perse origine e ragioni e che si concluse con la prigionia degli individui di là dagli specchi e con la condanna, per loro, a ripetere per sempre, come schiavi, azioni e forme del mondo di qua. Una fiaba raccontata a nessuno, a un’assenza, a un figlio che non c’è più, un farsi suono senza destinatario. Suono che svela qualcosa su questo attraversamento di identità per tramite del pozzo-portale alle spalle di Montanari. Quello specchio che sfida dunque la dimensione meramente mimetica e rappresentazionale – speculare appunto – del teatro, per recuperarne una originaria, nella quale la scena torni a essere un campo nel quale ciò che è lì evocato possa combattere ancora la propria battaglia contro il reale e l’ordine delle cose e non limitarsi a imitarlo assoggettandosi a esso.
E questo momento di Madre, tanto ermetico quanto essenziale nell’intero schema dell’opera, è anche l’unico nel quale Stefano Ricci sospende la propria incessante attività, smette temporaneamente di disegnare per fissare Montanari, rimanendo lì in ginocchio proprio come un bambino, un figlio, che abbandoni i propri giochi per ascoltare una verità, una rivelazione vitale. Perché è uno svelamento, questo, che chiama in causa un equivalente doppio regime possibile dell’immagine, una sua dimensione differente, anch’essa originaria e seminale, svincolata dalla mera rappresentazione. Uno svelamento che evoca la natura stessa dello scontro tra immaginario e acustinario, condotto qui in seno all’immagine stessa.
«VEDERE SIGNIFICA UCCIDERE LE IMMAGINI»,[13] scriveva Heiner Müller in uno dei commenti innestati lungo la drammaturgia del suo Anatomia Tito Fall of Rome. L’occhio rappresenterebbe infatti l’organo imperialistico dell’autorità, spiegherà più giù.[14] E proprio questo strapotere dello sguardo, rimarcato tanto da Müller quanto da Barbanti, pare essere messo radicalmente in crisi, sulla scena di Madre, anche e soprattutto dall’intervento di Ricci. Malgrado alla sua arte sia affidata la dimensione visuale dell’opera, che riempie gran parte dello spazio scenico, il suo procedere sembra muoversi proprio nella direzione di una decostruzione del potere dell’occhio, nel regno stesso dell’immagine. I suoi disegni – che si susseguono ininterrottamente –, piuttosto che ricondurre, addomesticandola, la dimensione uditiva dell’opera a quella visiva, paiono operare all’opposto: contaminando l’immagine e la sua aspirazione alla stabilità della forma con la natura stratificata e multiforme del suono impossibile da fissare in una fisionomia finita e invariabile.
Ciò che di questi disegni vediamo, infatti, è solo il loro farsi, il loro prodursi alla vista, un processo di generazione che si ripete senza sosta, non appena un’immagine, che apparirebbe compiuta, viene gettata da Ricci nel pozzo nero dal quale era sorta, senza che si abbia il tempo di osservarla e dominarla con lo sguardo. Esattamente come avviene per le parole e per i suoni, il cui nascere e svanire coincidono in un fluire incessante.
Forme soltanto nascenti e mai costituite davvero, in un bianco su nero che pare richiamare i negativi fotografici, il loro essere la promessa di un’immagine ancora di là da venire. Ricci uccide l’immagine prima che possa farlo l’occhio appropriandosi di essa e, in questo modo, mina il paradigma retinico in modo ancor più radicale, facendolo nell’ambito che gli è proprio. Pare volerci far vedere, per l’intera opera, proprio quest’impossibilità di vedere; voler ribadire sempre e soltanto l’illusorietà di ogni inalterabile acquisizione dell’occhio e dello sguardo, dentro e fuori l’opera. D’altronde, è importante sottolineare, contro ogni riduzione semplicistica, che in Barbanti stesso l’opporsi dell’acustinario all’immaginario non equivale ad «affermare una priorità dell’orecchio sull’occhio», bensì, in un «modello […] inclusivo e non selettivo […] indurre fattualmente la trasformazione del modello dominante».[15] Una trasformazione, quella dell’assetto visivo di Madre attraverso il suo corrispettivo sonoro, che permette una funzione antillustrativa dell’immagine, che appare ancor più evidente nei passaggi in cui essa non nasce a partire dalle parole di Ermanna Montanari ma, al contrario, le anticipa, le previene. Momenti nei quali sembra generarsi una sorta di cortocircuito, uno sfasamento in cui il visivo si svela come già pervaso della multisensorialità del sonoro, come sua parte integrante, come una delle sue possibili ‘sfere d’ascolto’ che soppiantano l’idea dei ‘punti di vista’.[16]
Fino al finale dell’opera, in cui ‘sfera d’ascolto’ è proprio ciò che la madre auspica per il figlio, unica possibilità perché possa davvero raggiungerla e salvarla. Sporcandosi le mani in prima persona, senza ulteriori aiuti, senza alibi o scuse, affrontando le proprie responsabilità, che gli si presenterebbero se solo si mettesse davvero in ascolto, appunto:
«aprile bene le orecchie
in ascolto del più piccolo rumore
di ogni fremito di vento!
Nel pozzo sentirai
la voce del giuggiolo
e quella dell’acacia
la voce del noce e del melograno
e sentirai anche le grida dei boschi
di tutte le foreste che hai segato
di tutti i fiumi che hai avvelenato
oh sì
dovrai ascoltarli tutti quei lamenti
se no qua giù
in fondo
non ci arrivi!»[17]
Ugualmente sonora è la ‘bisciolina’ che con lei vive quel fondo oscuro e che ormai le è entrata dentro, come un male che scava e dal quale non potrà mai liberarsi davvero. La madre, infatti, dopo l’invocazione al figlio che pare perdersi nel vuoto, nel silenzio dell’ormai definitiva assenza di lui, si abbandona all’ascolto di quella, che canta e «dice delle cose»,[18] che guida ormai i suoi movimenti, la dirige attraverso un suono al quale lei si abbandona con una sorta di rassegnata disperazione. La stessa con la quale, incalzata dal «ziraaaa / ziraaaa… / ziraaaa…»[19] che le ingiunge la bisciolina, abbandona per la prima volta la propria immobilità dietro al leggio per lasciarsi andare a una lenta danza con la quale, roteando, guadagna il centro della scena. Uno spezzarsi della fissità e una perdita delle parole che coincidono con il dissolversi finale dell’opera, con la conclusione di Madre.
A rimanere da questa parte, però, in quel reale da modificare e da mettere in crisi così come Madre intendeva fare già nella sua vocazione originaria, è una piccola traccia tangibile, un’orma. Un quadernetto che richiama quelli di scuola di molti anni fa. Nessun ordinario libretto di sala per Madre: Stefano Ricci ha dato vita a quello che pare essere piuttosto un oggetto di scena rimasto impigliato tra le maglie del mondo reale al dissolversi di quello della finzione artistica.
Un quaderno interamente nero come il pozzo che si è chiuso alle nostre spalle ma che pare quasi schiudersi nuovamente ogni volta che ne sfogliamo le pagine sulle quali, tracciati con i medesimi gessetti bianchi, tanto i disegni di Ricci quanto le parole di Martinelli rinnovano le stratificazioni e gli enigmi che Madre ha generato. Anzi, li moltiplicano ancora. Le domande e le possibilità si disseminano: chi ha perso quel quadernetto? Di chi è la grafia che, come fossero appunti o memorie, ha tracciato quei versi bianco su nero? Della madre, come un racconto scritto per il figlio come monito o promemoria? Del figlio, come ricordo o esorcismo attraverso la scrittura delle proprie responsabilità? Un oggetto che sopravvive non come testimonianza e documentazione di uno spettacolo, ma come un frammento di esso, come un segno del suo essere tutto finto e insieme tutto assolutamente reale. Come un passaggio di testimone che, finito adesso nelle nostre mani, ci forza a non eludere quel manifestarsi delle immagini in suono, delle parole in ascolto, quello straziante «T’am sent?»,[20] il ‘Mi senti?’ al quale dare risposta, prima che sia troppo tardi.
Note
[1] C. Lispector, Un soffio di vita (pulsazioni) [1978], trad. it. di R. Francavilla, Milano, Adelphi, 2019, p. 18.
[2] In tedesco, infatti, i due rispettivi termini sono ‘Trauma’ e ‘Traum’.
[3] M. Martinelli, Madre, Ravenna, Ravenna Teatro, 2020, p. 6.
[4] Cfr. M. Kommerell, Il poeta e l’indicibile, Macerata, Giometti&Antonello, 2020.
[5] G. Agamben, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005, p. 237.
[6] M. Martinelli, Madre, p. 2.
[7] Ivi, pp. 2-3.
[8] Cfr. R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario. Prolegomeni a un’ecosofia sonora, Giulianova (TE), Galaad Edizioni, 2020.
[9] Ivi, p. 21.
[10] Ivi, p. 23.
[11] Ivi, p. 93.
[12] Cfr. J.L. Borges, M. Guerrero, Manuale di zoologia fantastica [1957], trad. it. di F. Lucentini, Torino, Einaudi, 1979, pp. 19-20.
[13] H. Müller, Anatomia Tito Fall of Rome. Un commento shakespeariano [2002], trad. it. di F. Fiorentino, Roma, L’orma editore, 2017, p. 70.
[14] Cfr. Ivi, p. 145.
[15] R. Barbanti, Dall’immaginario all’acustinario, pp. 97-98.
[16] Cfr. ivi, p. 86.
[17] M. Martinelli, Madre, p. 17.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Ibidem.
[20] Ivi, p. 19.
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