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Premio ANCT per Chiamata pubblica

Ermanna Montanari e Marco Martinelli hanno ricevuto il premio dell’Associazione Nazionale dei critici di Teatro per il progetto Chiamata pubblica per La Divina CommediaIeri, lunedì 14 novembre, si è tenuta al Teatro Nuovo di Napoli la cerimonia di consegna dei premi ANCT (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

Ermanna Montanari e Marco Martinelli in una foto di Marco Caselli Nirmal durante Purgatorio

I due fondatori e direttori artistici del Teatro delle AlbeErmanna Montanari e Marco Martinelli – hanno ideato il Cantiere Dante, nel 2017, progetto che ha coinvolto migliaia di cittadini e cittadine di Ravenna, ma non solo, accanto agli attori e alle attrici della compagnia.

Un lavoro di scavo e approfondimento intorno a Dante, in occasione dei sette secoli della sua morte, che è stato scandito dalla musica di Luigi Ceccarelli, che si è avvalso delle scene e dei costumi degli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Brera Milano – Scuola di Scenografia e Costume – guidati da Edoardo Sanchi e Paola Giorgi, delle luci di Francesco Catacchio e Fabio Sajiz e del suound design di Marco Olivieri.

Una reale e palpitante “messa in vita” della Commedia dantesca, che si è conclusa nel 2022 (un anno dopo, causa interruzioni pandemiche) con la realizzazione di Paradiso, ogni volta a partire dal luogo simbolo, il tempietto dove il poeta è sepolto a fianco della Basilica di San Francesco, dove si sono celebrati i funerali del sommo poeta nel 1321.

Il premio al progettoproduzione di Ravenna Festival, con il sostegno del Comune di Ravenna e della Regione Emilia-Romagna, e di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 per Purgatorio – valorizza quindi un lungo lavoro di tessitura di rapporti locali, nazionali e internazionali, che vedono in Ravenna il proprio punto di partenza.

Caratteristica del progetto, forte di una mescolanza tra alto e basso, tra la sacra rappresentazione medievale e il “teatro di massa” di Majakovskij, è quella di calare lo spettatore nei panni di Dante e di rendere protagonista la sostanza corale, insieme spirituale e politica, del teatro.

Da questa creazione sono nati altri progetti nel segno del sommo poeta, tra cui Dante nei cinque continenti, sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dall’Istituto italiano di Cultura di Buenos Aires e di New York, che ha debuttato nel mese di ottobre al Teatro San Martín/Complejo Teatral di Buenos Aires, uno tra i più importanti e iconici teatri della capitale argentina.

“Le mie più sincere congratulazioni a Marco Martinelli ed Ermanna Montanari per questo importante e meritato riconoscimento che ci riempie di orgoglio e soddisfazione – è il commento del sindaco di Ravenna, Michele De Pascale -. Questo premio coglie l’assoluta straordinarietà dell’esperienza Chiamata Pubblica per La Divina Commedia che ha rappresentato molto più di una bellissima opera teatrale. È stata la dimostrazione concreta di una comunità capace di unire le proprie energie per dare vita a una meravigliosa avventura collettiva di cui ci siamo sentiti tutti e tutte protagonisti. L’arte di Ermanna Montanari e Marco Martinelli ha saputo raccogliere i versi del Poeta per esaltarne il legame con la contemporaneità, in una profonda connessione con lo spirito della Divina Commedia. Ancora una volta il Teatro delle Albe porta il nome di Ravenna nelle eccellenze nazionali e internazionali della produzione teatrale contemporanea”.

Ravenna Festival, che ha fortemente voluto questo straordinario progetto di Ermanna Montanari e Marco Martinelli, non può che essere molto felice ed orgoglioso per questo ulteriore riconoscimento al ‘Cantiere Dante’– osservano congiuntamente il sovrintendente Antonio De Rosa e il direttore artistico Franco Masotti -. Se la Divina Commedia è stata ‘messa in vita’ dal Teatro delle Albe e da tutti coloro che hanno così sapientemente e generosamente collaborato, anche la città stessa è tornata a vivere, nel suo festival, dopo il lungo silenzio provocato dalla pandemia, con un Paradiso tripudiante, luminoso e catartico. Ora Ravenna può dirsi ancora più di prima la città di Dante, la città della Commedia che si è fatta palcoscenico rendendo i suoi cittadini protagonisti di un grande affresco teatrale che ricorderemo a lungo”.

“Marco Martinelli e Ermanna Montanari – scrive Giulio Baffi, presidente ANCT, nella motivazione del Premio – sono i costruttori infaticabili di questa cattedrale dello spirito, sono gli artigiani al servizio della parola del poeta, sono gli architetti che hanno deciso di sfidare il cielo, di erigere questa loro cattedrale nel segno di un’urgenza: ridare corpo alla comunità attraverso la poesia. È infatti la vita, il suo flusso energetico, che Martinelli, Montanari e il Teatro delle Albe vanno cercando, sempre e comunque, con l’obiettivo, da rabdomanti della bellezza, di scoprire il fuoco nascosto di un’umanità che ha la potenzialità di essere connessa all’universale, di darsi per trasformare il mondo, renderlo migliore nell’attenzione dell’altro, nel contatto con l’altro”.

 

Breve cronologia dei premi ricevuti nel corso delle Chiamate pubbliche:

INFERNO – PURGATORIO  – PARADISO (2017 < 2022) 

La consegna dei premi della critica, manifestazione con cui l’Associazione nazionale dei critici di teatro segnala ogni anno gli spettacoli, i personaggi e le iniziative di particolare importanza registrate nella stagione precedente, si è tenuta quest’anno nel capoluogo campano lo scorso 14 novembre ed è stata ospitata dal Teatro Pubblico Campano nello storico Teatro Nuovo di Napoli.

Per INFERNO, Marco Martinelli e Ermanna Montanari hanno ricevuto altri prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali: Premio Ubu 2017 (“miglior progetto curatoriale”); Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro-ANCT; Lauro Dantesco ad honorem e Premio Culturale della VDIG-Vereinigung Deutsch-Italienischer Kultur-Gesellschaften.

Per fedeli d’amore: Premio Ubu 2018 “miglior attrice” a Ermanna Montanari

Per PURGATORIO al Teatro delle Albe è stato assegnato il PREMIO AWARDS 2019 PER LA CULTURA dall’Ordine dei Dottori e degli Esperti Contabili di Ravenna per avere restituito ai cittadini di Ravenna l’opera del sommo poeta in chiave corale.

Una Chiamata Pubblica lunga sei anni

Un percorso lungo sei anni, mai sperimentato prima, che ha reso protagonisti migliaia di cittadine e cittadini accomunati dalla curiosità e dalla voglia di mettersi in gioco. Chiamata Pubblica è stata tutto questo: persone di età diversa, con attività differenti che, per dirla con le parole di un cittadino, “si sono svestiti dei propri panni per indossare quelli di un corpo unico”. “Non importa cosa tu faccia nella vita – incalza un’altra cittadina: lì eri chiamato a realizzare un progetto e non contava chi tu fossi”.

Un filo rosso si snoda tra le tante testimonianze di chi, dal 2017 ad oggi, ha “attraversato” Inferno, Purgatorio e Paradiso, ed è riassunto in alcune potenti frasi che ricorrono: “grande umiltà di Marco Martinelli e Ermanna Montanari”, “forte capacità di ascolto”, “profondo rispetto per noi semplici cittadini”, “attenzione all’altro”, “gratitudine”. E in quell’esserci ricordato da una giovane cittadina, Caterina De Lorenzo, che all’inizio di quest’avventura era in seconda elementare: “Ermanna e Marco stavano molto insieme a noi, ‘facevano’, erano partecipi dell’azione teatrale e questo è stato molto stimolante”. Il senso di appartenenza che un progetto di questo tipo sviluppa in chi vi partecipa è  tracciato da Anna Finelli, cittadina che dal Flegetonte è salita all’Empireo complice uno spettacolo frequentato dalla figlia: “Ho visto un signore tutte le sere, per quindici giorni di fila alla Tomba di Dante, durante il canto iniziale – racconta -: ancora non conosco il nome di quell’uomo, ma l’ultima sera ci siamo salutati con un abbraccio”.

 

Ivana Franchini si è avvicinata alla Chiamata nel 2017 spinta da curiosità. “Abbiamo sempre stimato Marco Martinelli e Ermanna Montanari – spiega -, ma frequentandoli tutti i giorni abbiamo potuto misurare la loro grandissima umanità: ci hanno fatto entrare nel progetto e hanno fatto in modo che lo sentissimo nostro. C’è però un aspetto che mi ha sempre colpito, fin dalla costruzione di Inferno: ogni volta che li incontravamo, ci salutavano con il nostro nome. Può sembrare normale, ma ricordo che eravamo in ottocento”. Ripensando a tutto il percorso, Franchini spiega: “Non è tanto quello che noi abbiamo dato a loro, bensì il contrario. E non parlo solo di Marco e Ermanna, ma anche di tutti gli attori, le attrici e le guide. Anche per questo, credo, abbiamo proseguito fino ad oggi. Certo, Inferno è stato incredibile. Ricordo che nel cortile improvvisammo l’Osteria del Rabbuffo: io ero nel gruppo degli Avari – Scialacquatori e abbiamo perfino creato una chat whatsapp che prendeva spunto dalle parole pronunciate da Ermanna, ‘Fatica vana’, in cui ci sentiamo ancora. Non è da tutti vivere un’esperienza del genere: io ho 67 anni, da 40 sono abbonata a teatro e da sette sono clown di corsia, ma devo dire che quanto vissuto è stato potente”. Ora, come per tanti “colleghi” e “colleghe”, lo sguardo di Franchini è rivolto a gennaio, quando toccherà al Cantiere Malagola. “Ci siamo già dati appuntamento, siamo sicuri che sarà un nuovo percorso costruito con il cuore e con l’amore per l’esserci”. 

Anche nel caso di Sabrina Sergi quello che l’ha indotta a partecipare alla Chiamata è stata semplice curiosità. “Si è trattata di un’esperienza meravigliosa, un lungo percorso di crescita dal 2017 a oggi. Non avevo mai partecipato a niente di simile: Marco e Ermanna sono state vere e proprie guide, ma ci hanno lasciato anche molta libertà espressiva e, insieme, abbiamo costruito un percorso per capire il modo più adatto per esprimere quello che avevamo dentro. Personalmente sono stata molto toccata dai racconti delle Pie in Purgatorio, perché alcuni partivano dal vissuto personale delle partecipanti, di conseguenza è stato molto intenso. Il merito di questo cammino è anche stato quello di averci riportato a studiare Dante per conto nostro. E il fatto che venisse riconosciuta tanta importanza a noi profani credo sia stato un elemento fondamentale, che ci ha accresciuto nella responsabilità. Ora aspettiamo con ansia nuovi progetti”. 

Barbara Brusoni si è invece avvicinata alla Chiamata “perchè il teatro è sempre stata la mia passione. Era emozionante poter far parte del progetto, anche se ero consapevole di essere una goccia nel mare, ma era interessante vedere da vicino come nasce un’opera teatrale. Marco Martinelli è dotato di una grande forza che ti fa sentire importante anche se in scena ci stai per pochi minuti. Ti dedica tempo. Ti fa sentire parte di questo meccanismo”. Nella vita Brusoni lavora con i computer e nell’Inferno vestiva i panni di un’usuraia in mezzo a video spenti e a cassetti vuoti, condannata a ripetere, invano, la stessa parola. “Da allora ho continuato a partecipare e a sentirmi parte di quadro che si muove. L’impegno è stato costante per mesi: nulla è rimasto al caso, dai vestiti, scelti con cura dalle costumiste, allo smalto, a cui ho dovuto rinunciare. Dietro a due ore in scena ci sono tre mesi di lavoro intenso, oltre a quello che è servito per l’ideazione. E le domande, quelle che avete sentito in Paradiso, sono partite davvero da noi: Alessandro Renda e Marco Martinelli non hanno fatto altro che aggiustarle in poetica e sintassi. Ognuno si è guardato dentro e ha attinto alla propria esperienza personale”. 

 

Anna Finelli si definisce “Troppo vecchia per la non-scuola, ma conoscevo Le Albe tramite mia figlia, che aveva preso parte allo spettacolo Pinocchio”. Quando uscì la Chiamata, Finelli aderì immediatamente. “L’idea di una città intera che si mette in marcia per un progetto corale mi sembrò geniale. Il primo aspetto, quello che mi spinse, fu il voler dare il mio contributo: volevo ‘mettermi a servizio’ e solo dopo ho riflettuto sul fatto che avrei calcato un palcoscenico. Per fortuna ci si arriva per gradi, non è che uno che non ha mai fatto niente si trovi d’un tratto a recitare l’Otello. In Inferno la preparazione è stata lenta, ricordo che Marco introdusse dettagliatamente i cori e questo tempo permise di imparare a fidarsi e dire: ‘mi metto nelle loro mani, andrà bene’. Ecco, penso sia stato questo il filo conduttore che ha legato tutti noi. Credo che Inferno sia stato il più entusiasmante perché  è stato il primo. Purgatorio è stato un bellissimo spettacolo in sé, ma per noi che lo abbiamo vissuto è stato meno coinvolgente proprio per com’era strutturato, in quanto c’era una minore partecipazione di massa. Paradiso è andato in scena quasi subito, ma è riuscito a creare legami potenti ed è stata la chiusura di un bellissimo cerchio. In generale, devo dire che l’esperienza nata nel 2017 mi ha insegnato come, con un minimo sforzo da parte di tutti, si sia potuto fare moltissimo indipendentemente da chi siamo. Un altro aspetto importante è stato quello di avermi portato ad amare Dante, di cui avevo un ricordo scolastico non proprio affettuoso. Ora, invece, partecipo alle letture perpetue e con un’amica ci siamo prefissate di leggere tutti i canti. Infine, proprio grazie al cammino intrapreso dalle Albe, ho spinto colleghe mosaiciste a realizzare opere dedicate alla trilogia dantesca: per Inferno e Purgatorio, Cna nazionale ha realizzato un documentario che è stato in mostra a Firenze per ben due volte e che oggi è a Roma, mentre in ottobre presenteremo l’opera completa qui a Ravenna. Oggi, insieme a queste colleghe, lavoriamo anche su altri progetti e anche questo è stato un merito che va attribuito alla Chiamata Pubblica. Non vedo l’ora che sia gennaio per frequentare il Cantiere Malagola”.

Quando l’esperienza è partita, nel 2017, Marco Turchetti era consigliere del Comune di Ravenna. “Mi avvicinai al progetto in virtù della carica che ricoprivo: sei anni fa facevo parte del consiglio comunale e quando arrivò il progetto sono stato uno di quelli che più entusiasticamente lo ha portato avanti. Ho sempre creduto nel lavoro di Martinelli e mi ci sono ‘buttato’ subito con entusiasmo. Faccio l’architetto e ho partecipato a progetti di urbanistica aperti ai cittadini, ma la frequentazione era data soprattutto da professionisti e addetti ai lavori. Qui, invece, sono stati tutti protagonisti, dai ragazzini agli anziani, e nessuno ci ha mai chiesto di chi fossimo figli o cosa facessimo nella vita. Sono state tre esperienze diverse, vissute in modo differente: la prima è stata travolgente, anche per il clima che si era creato. Forse la si ricorda come più di impatto dal punto di vista emotivo, ma anche Purgatorio non è stata da meno, e lo dico anche alla luce dell’esperienza fatta a Matera. Paradiso, infine, ha sublimato tutto, avvicinando molti a una cantica che si conosce meno”.

Roberta Fraiese è grafica pubblicitaria e si è avvicinata alla trilogia perché il figlio frequentava la non-scuola a Castiglione. “Per prima cosa posso dire che è stato bello vedere la professionalità di chi ci ha guidato, il rapporto che si è cercato di instaurare è stato funzionale a quello che si è andati a realizzare. C’è stata una bella relazione con gli altri, di tipo paritario: quando si iniziava a recitare non si era più un singolo, ma uno dei tanti che facevano quello che facevi tu. Vivevamo il fascino del teatro senza però averne la responsabilità. Era come stare dentro a un contenitore dove succedono cose magiche; non è un corso, non impari a recitare, bensì a metterti a servizio. Impari quale spazio occupare anche grazie all’energia di Marco e Ermanna, che riesce ad imbrigliare tutte le altre”.

Sara Plazzi ha conosciuto Ermanna e Marco da bambina, quando diede voce a una stellina in Nosferatu. “Ho avuto la fortuna di incontrarli tramite mio padre, tanti anni fa, e il fatto di vivere l’arte fin da piccola, di ‘respirarla’ in casa, mi ha lasciato un interesse che nel tempo ho approfondito e quando c’è stata l’opportunità della Chiamata, l’ho colta al volo. Sono entrata quindi in questo vortice nel 2017 e non mi è stato più possibile uscirne. C’è stata una cura, da parte di Marco, di Ermanna, delle guide, degli attori e delle attrici che non ci si aspetta. C’era un continuo sentirsi parte e questo è stato molto bello anche per noi profani: la loro gratitudine era palpabile, anche se eravamo noi a dover essere grati”.

“Siamo tutti volontari e se non ci divertissimo non saremmo certo qui” spiega Gianni Mazzotti, anche lui in prima linea dal 2017. “Siamo talmente entusiasti che stiamo già pensando a Cantiere Malagola, anche se personalmente ho 83 anni e quest’anno mi sono dovuto occupare esclusivamente dell’organizzazione”. Ma contribuire al buon funzionamento dello spettacolo da dietro le quinte, per Mazzotti, non è stata certo una novità. “Vengo da 25 anni di ‘militanza’ nel teatro Socjale di Piangipane, mi sono sempre adeguato a quello che c’era da fare. Durante Inferno  ho guidato un pulmino che accompagnava i ragazzi che interpretavano i soldati: erano in ramadan e quando finivano di recitare avevano una fame assurda, per questo cercavo sempre di fare il più in fretta possibile. Di sicuro Inferno è stata l’esperienza più comunitaria di tutte, dove abbiamo imparato il teatro di Marco, Ermanna, Gigio, Marcella e di tutti gli altri. Purgatorio è stato entusiasmante, Paradiso è stato forse meno aggregante, per noi, perché si era sempre in scena, ma di sicuro è stato uno spettacolo potente”.

Il debutto di Caterina De Lorenzo nella prima anta dell’opera dantesca pensata da Ermanna e Marco è avvenuto quando lei era in quarta elementare. “Ero timida – spiega – e la mamma ha pensato potesse essere una bella idea quella di farmi partecipare. In effetti mi sono ambientata subito e ho stretto molte amicizie. Per me, fin dall’inizio, è stato come entrare in una sorta di famiglia, era come se ci fosse una connessione magica che teneva insieme le persone. Successivamente ho partecipato anche a Purgatorio e a Paradiso: dalla seconda elementare frequento il coro Ludus Vocalis e quindi, oltre a recitare, ho potuto anche cantare. Spesso il coro e il teatro si mescolano ed è sempre bello partecipare con più vesti. Pur non essendo la prima volta che andavo in scena, ho scoperto una tipologia di teatro tutta nuova: Ermanna e Marco stavano molto insieme a noi, ‘facevano’, erano partecipi dell’azione teatrale fin dall’inizio, e questo è stato molto stimolante”. 

“Ho cominciato – spiega Roberto Catalano – perché ero curioso di vivere un progetto di questa portata dall’interno, anche se all’inizio non era chiaro ciò che sarebbe successo. Sono spettatore di teatro da anni, ma non ho mai studiato Dante: non nascondo di avere avuto qualche difficoltà, però poi ho apprezzato il modo in cui la regia è riuscita a far convivere attori professionisti con gli ‘animali’ che eravamo: poco a poco abbiamo imparato a stare in gruppo. È stato bello essere parte di questo spettacolo e vedere come una bambina di 5 anni e un signore di 80 si impegnassero allo stesso modo con una serietà di fondo che forse non avrebbero mai pensato di avere. Quando termina una ‘costruzione’ di questo tipo, più che la tristezza per ciò che non c’è più, rimane la bellezza di un ricordo che ha legato e che continua a legare migliaia di persone”.

Da scettica – “non pensavo si riuscisse a gestire un progetto con così tante persone” – Rosi Galanti è diventata una di quelle dello zoccolo duro, “come ci chiama Marco”, tanto che ha partecipato alla messa in scena degli spettacoli sia a Calitri che a Matera. “Mi pareva una follia, invece è stato messo insieme un progetto travolgente. In Inferno siamo stati ‘buttati’ dentro noi per primi: lì si sono creati momenti anche conviviali favoriti dagli spazi, ed era quello che ci voleva per partire. Una volta finito lo spettacolo, alcuni di noi sono anche stati a Calitri, allo Sponz Fest, e da allora ci andiamo tutti gli anni. E proprio pensando all’ideatore dello Sponz, Vinicio Capossela, ricordo che venne a vedere lo spettacolo al Rasi. Sapevamo di dover rimanere nel nostro ruolo fino a che l’ultimo degli spettatori non avesse girato l’angolo, ma lui non se ne andava più. Eravamo già nel secondo turno ed eravamo stanche, ma abbiamo mantenuto le posizioni nonostante tutto. Fu faticoso, ma molto divertente. Se penso a Purgatorio e a Paradiso posso invece dire che sono stati una crescita, in quanto a noi è stato chiesto uno sforzo in più. A parte avere avvicinato più persone a un’opera di cui si spesso si conoscono solo alcuni canti, questo progetto ha avuto il merito di far sentire tutti i partecipanti un corpo unico. E una volta iniziato è difficile tornare indietro”. 

Proprio come lo è stato per Dante, Ermanna e Marco.

L’acustica di Auschwitz

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Se questo è un uomo, uno spettacolo di e con Valter Malosti
3-6 febbraio 2022, Teatro Alighieri

 

In occasione dello spettacolo di e con Valter Malosti Se questo è un uomo (dall’opera di Primo Levi, pubblicata da Giulio Einaudi editore) vi suggeriamo la lettura del testo L’acustica di Auschwitz di Domenico Scarpa, curatore insieme a Malosti della condensazione scenica dell’opera di Levi. Il testo è stato scritto in occasione del debutto dello spettacolo e pubblicato insieme a altri materiali editoriali su I Quaderni del Teatro Stabile di Torino (Edizioni del Teatro Stabile di Torino, 2019).

1. Uno strano sollievo

Da oltre settant’anni Se questo è un uomo, il libro “primogenito” di Primo Levi, parla ai lettori più diversi in tutto il mondo. Oggi viene portato su un palcoscenico, di fronte al quale non ci saranno lettori bensì spettatori. Quali sono le strade che Valter Malosti e io abbiamo seguito per renderne accessibili in circa due ore le parti essenziali? In che modo abbiamo lavorato sulla voce, anzi, al plurale, sulle voci di Primo Levi?

Le testimonianza d’autore e le ricerche degli studiosi hanno mostrato che Levi giunge a intonare quella pluralità facendo ricorso a molte voci del passato: la sua memoria estetica e affettiva rielabora quelle di scrittori, di scienziati, di testi sacri. La voce ascoltata con maggiore costanza è quella di Dante. Perciò, possiamo raccontare il modo in cui siamo arrivati a costruire la nostra «condensazione scenica» di Se questo è un uomo conducendo sul testo una verifica che riguarda appunto la presenza di Dante. Qual è la prima citazione della Divina Commedia che s’incontra in Se questo è un uomo? In quale punto Primo Levi innesta per la prima volta la voce di Dante nella propria voce? La domanda è essenziale, tanto per un autore che ha deciso di raccontare Auschwitz quanto per chi si arrischia, oggi, a tentarne una sintesi destinata alle scene. La risposta alla domanda sarà differente a seconda che si legga la versione originaria di Se questo è un uomo, uscita a Torino nel 1947 presso De Silva, oppure la definitiva, che ha una trentina di pagine in più e che pure è uscita a Torino, ma da Einaudi e nel 1958. È quest’ultima edizione che abbiamo scelto come base per il testo teatrale. Qui, come vedremo, la presenza di Dante è più cospicua e complessa rispetto alla prima stesura del libro. Nell’edizione del 1947 l’impronta della Commedia, rilevabile fin dal principio, è lampante nei primi capoversi del secondo capitolo, intitolato Sul fondo. Qui il celebre cancello di Auschwitz viene descritto come «una grande porta»; la trasformazione induce il lettore a decifrare, dietro la «scritta vivamente illuminata» che lo sovrasta – ARBEIT MACHT FREI –, le «parole di colore oscuro» che Dante ha iscritto sulla porta dell’inferno: PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE. Poco dopo aver varcato quella porta-cancello Levi sarà perentorio:

Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.

Il campo di Auschwitz che qui per la prima volta viene dipinto come un inferno è «certamente terribile», ma è un inferno moderno (la camera grande e vuota, il rubinetto che gocciola) e soprattutto insulso, noioso fino alla disperazione: «non succede niente e continua a non succedere niente». Già questo, per chi abbia letto un po’ di Dante e sappia qualcosa dei lager nazisti, non suona banale. Ma le sorprese aumentano se, immediatamente dopo, si va a leggere Se questo è un uomo-1958, da inizio libro fino a questa pagina di apertura del secondo capitolo. Eseguendo la rilettura ci si accorge che l’ultima scena del primo capitolo Il viaggio è nuova: nel 1947 non c’era. Insieme con altri uomini selezionati come lui per il lavoro forzato, Levi è salito su un autocarro che ora viaggia veloce per una strada «con molte curve e cunette». Così, nel 1947, finisce il capitolo, mentre nel 1958 si prosegue per una dozzina di righe:

Eravamo senza scorta? … buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.

Di citazioni dantesche ce ne sono addirittura due in questo brano aggiunto, una con tanto di virgolette (che proviene, guarda caso, dallo stesso canto III dell’Inferno dove compare la porta con le parole di colore oscuro) e l’altra, sempre dallo stesso canto, che delle virgolette non ha nemmeno bisogno perché vi domina un personaggio che tutti i lettori italiani conoscono: solo che qui «caronte» ha l’iniziale minuscola e non è uno spaventevole nocchiero con gli occhi di bragia che guida le anime dei dannati all’altra riva, fra le tenebre eterne, in caldo e in gelo. Qui «caronte» è un ladruncolo, uno che si arrangia: a suo modo, è un povero diavolo. Questo episodio che si consuma prima ancora di varcare la «porta» dell’inferno-Auschwitz produce un sussulto nell’animo dei prigionieri. «La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo».

In Se questo è un uomo-1958, Levi e i suoi compagni sul cassone dell’autocarro si accorgono di essere capitati in un luogo che paventavano tremendo, e lo è per davvero. Ma è anche un luogo assurdo. Proprio in questo frangente Levi viene colto per la prima volta dall’impulso di citare Dante alla lettera; così, riporta tra virgolette il verso 84 dal canto III dell’Inferno perché lo sollecita – insieme con la necessità di descrivere un orrore che supera ogni possibilità di espressione – la sorpresa di essersi imbattuto nello squallore morale, nella disonestà della vita quotidiana, là dove si aspettava una malvagità senza crepe e un sadismo da inferno organizzato sul serio. Levi ha appena scoperto che i suoi carnefici sono uomini normali, che sono mediocri burocrati capaci di infliggere un male estremo: un verso di Dante lo aiuta a dirlo.

Gli uomini caricati su quell’autocarro reagiscono così – «collera e riso e uno strano sollievo» – a un istante rivelatore: in Auschwitz ci sono, simultaneamente, l’orrore e il grottesco, la morte violenta e la noia mortale. In Se questo è un uomo – 1958, tra l’ultima scena del primo capitolo e i primi capoversi del secondo capitolo, Primo Levi ce lo mostra (e lo fa entrambe le volte con l’aiuto di Dante) eseguendo un esercizio vocale di alta complessità.

2. Una «zona Se questo è un uomo»

Per restituire in pieno questa complessità in un copione che abbiamo definito «condensazione scenica», Valter Malosti e io abbiamo voluto spingerci oltre il perimetro del libro “primogenito”. Abbiamo circoscritto, entro l’opera di Levi, una «zona Se questo è un uomo» formata dal libro stesso (nella sua versione definitiva 1958), da alcune poesie scritte fra gli ultimi giorni del 1945 e le prime settimane del 1946 (in simultanea con l’opera che andava prendendo forma), infine dal primo capitolo di La tregua (che l’autore pubblica solo nel 1963, ma che scrive tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948) e dalla sua pagina conclusiva: l’incubo di un ritorno in lager, anzi l’incubo che non esistesse e non fosse mai esistito nulla all’infuori di esso. Solo nei testi qui elencati si può ritrovare quella impostazione irripetibile di linguaggio, di tono, di atteggiamento esistenziale e culturale che è caratteristica del romanzo. Nell’opera completa di Levi la «zona Se questo è un uomo» è un modo annichilente di usare la lingua, di secernere ritmo, di piegare e troncare frasi. In seguito, lo scrittore diviene un’altra cosa, anzi molte altre cose di pari grandezza, ma non è il momento di definirle.
La «zona Se questo è un uomo» andava presentata al pubblico nella sua interezza, facendo perno sul testo principale. Difatti, questo nostro lavoro nasce dalla convinzione che il primo libro di Primo Levi sia un’opera acustica.
Con il suo orecchio acuito da un’attenzione assoluta, lo scrittore ci restituisce la babele del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, i vocaboli gergali incomprensibili, i rari discorsi chiari e distinti – orchestrandola sulle lingue parlate in quel perimetro di filo spinato: i «barbarici latrati» dei tedeschi, lo yiddish degli ebrei orientali (lingua a lui sconosciuta prima della deportazione), il polacco della regione di Auschwitz, e poi ancora l’ungherese, il greco, l’inglese dei militari prigionieri, l’italiano dei pochi connazionali in grado di non soccombere, il francese adottato come lingua franca…

Le esperienza vissute sono accadute in molte lingue diverse, in molti gerghi particolari, ma anche – molto spesso – nel folto di una sfiancante cacofonia. La lingua in cui i fatti sono raccontati è l’italiano: un italiano illustre e affabile, più volte contrappuntato o stravolto da quel pattume sonoro. Levi riesce a preservare la comunicazione rendendo stereofonicamente percettibile il caos in mezzo al quale ha dovuto farsi strada. Vale perciò la pena, in una presentazione destinata agli spettatori, illustrare brevemente le strategie acustiche (e, di conseguenza, cognitive) praticate da Levi. Nei diciassette capitoli di Se questo è un uomo, più la prefazione, la poesia-epigrafe e gli altri testi della «zona» inclusi nel copione portato in scena, si possono cogliere molti registri e modi espressivi, narrativi, percettivi e di pensiero, con continui stacchi e scambi vicendevoli, e con molti passaggi in fusione polifonica, dentro una voce d’autore che è sempre unitaria, sempre una e salda. Il registro-base, il più semplice, è la descrizione: osservare attentamente una realtà aliena per capirla e poi trascriverla a beneficio di chi non era presente.

Un secondo registro, altrettanto semplice, è però dinamico: è il racconto lineare, un percorso lungo il quale ci si muove vedendo, ascoltando e facendo scoperte. Spesso, lungo questo percorso, Levi cambia la messa a fuoco e blocca delle figure, dei quadri plastici: si avvicina per guardare, raccontare e descrivere meglio, come se usasse la lente o il microscopio. A questa modalità s’intreccia un’ulteriore declinazione della voce, quella dei pensieri che si svolgono a partire dalle cose vedute e narrate: Levi si cala nel proprio animo, ma anche in quello dei suoi simili, vittime o aguzzini che siano. In molti punti poi (e sono fra le pagine che più toccano il lettore nell’intimo) lo scrittore riferisce sogni, suoi personali o collettivi, scendendo in profondità e riportando alla luce, con perfetto controllo, quelle immagini inafferrabili. Con uguale padronanza riesce a offrirci il punto di vista del dopo: Se questo è un uomo è stato scritto in gran parte a più di un anno di distanza dai fatti, e pubblicato solo due anni e mezzo dopo che la peripezia di Auschwitz era cominciata con le 650 persone che il 22 febbraio 1944 lasciarono il campo di Fossoli. Quella finestra temporale è stata messa a frutto per giungere, nei momenti opportuni, a parlare della propria esperienza come dall’esterno, con il distacco dello storico o del ricercatore scientifico, da un punto di vista che non è mai il banale senno del poi. Di tanto in tanto Levi formula dei commenti, arriva cioè a guardare come dall’alto il passato prossimo del lager senza perdere il contatto morale e percettivo con la propria esperienza. Tutto questo gli permette di proferire l’ultima delle sue voci, quella che si rivolge direttamente ai lettori sollecitandoli, ma mettendosi in gioco nel momento stesso in cui chiede loro una reazione: e gliela chiede con toni che possono essere molto diversi, come si può vedere rispettivamente nella prefazione e nella poesia-epigrafe del libro.

Malosti e io abbiamo fatto il possibile per salvaguardare questa polivalenza acustica, questo modo di esplorare, di raccontare, di pensare e ripensare il lager per darsene ragione e restituirne l’impressione.

3. «Oggi, questo vero oggi»

Primo Levi ha offerto due guizzi vocali notevoli, forse i più inattesi, nel capitolo Esame di chimica, quando si trova al cospetto del Doktor Pannwitz. Il lettore si aspetterebbe che si mostri concentrato senza residui, al culmine della tensione, su quella prova dirimente. E invece:

Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.

E poco prima, prima di entrare a sostenere l’esame:

Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

Quei «molti modi» di aver pensato più tardi – in Auschwitz dopo l’esame, fuori da Auschwitz una volta in libertà – stanno già tutti in quelle brevi pagine di racconto, compatte nell’intreccio delle loro fibre. Stanno nella concentrazione che Levi dedica alle cose che osserva e descrive, e insieme nella distanza che si prende, nel passo indietro che la sua scrittura fa a ogni momento per regolare l’ottica cognitiva, per mettere a fuoco una scena che include chi la va raccontando. «Oggi, questo vero oggi»: il dubbio istantaneo sulla verità delle cose che ha vissuto e che ricorda fin troppo bene, quello stacco dove si ripete due volte il pronome io, è l’atto di nascita di Se questo è un uomo, il momento in cui Levi conquista la posizione di voce che gli permette di scrivere la verità. In questi punti, in questi frangenti, il regista e io abbiamo trovato la conferma che, nel suo essere il più bello e il più atroce libro di avventure del ventesimo secolo, Se questo è un uomo è anche un’opera performativa, una prova di presenza che sembra pensata in anticipo per radicarsi nella voce, nei gesti, nel corpo di un attore. I suoi registri e scarti, la fusione di fatti e pensieri sui fatti che succedono, gli “a parte” meditativi, morali e perfino scientifici, perfino politici, sono altrettante opportunità per un attore, spunti per variare di postura, di voce, d’intonazione, di cadenza; occasioni per aggiungere una quantità di dimensioni, di chiaroscuri, a quella che i francesi chiamano la création di un ruolo. La voce di Levi è una voce una e plurale, ed era appropriato affidarla a un unico attore.

«Oggi, questo vero oggi»; «collera e riso e uno strano sollievo»; «molte volte e in molti modi»: opera acustica, Se questo è un uomo è anche un’opera che si può pronunziare in palcoscenico.

Foto di scena Tommaso Le Pera