Tag: Se questo è un uomo

L’acustica di Auschwitz

La Stagione dei Teatri 2021/2022
Se questo è un uomo, uno spettacolo di e con Valter Malosti
3-6 febbraio 2022, Teatro Alighieri

 

In occasione dello spettacolo di e con Valter Malosti Se questo è un uomo (dall’opera di Primo Levi, pubblicata da Giulio Einaudi editore) vi suggeriamo la lettura del testo L’acustica di Auschwitz di Domenico Scarpa, curatore insieme a Malosti della condensazione scenica dell’opera di Levi. Il testo è stato scritto in occasione del debutto dello spettacolo e pubblicato insieme a altri materiali editoriali su I Quaderni del Teatro Stabile di Torino (Edizioni del Teatro Stabile di Torino, 2019).

1. Uno strano sollievo

Da oltre settant’anni Se questo è un uomo, il libro “primogenito” di Primo Levi, parla ai lettori più diversi in tutto il mondo. Oggi viene portato su un palcoscenico, di fronte al quale non ci saranno lettori bensì spettatori. Quali sono le strade che Valter Malosti e io abbiamo seguito per renderne accessibili in circa due ore le parti essenziali? In che modo abbiamo lavorato sulla voce, anzi, al plurale, sulle voci di Primo Levi?

Le testimonianza d’autore e le ricerche degli studiosi hanno mostrato che Levi giunge a intonare quella pluralità facendo ricorso a molte voci del passato: la sua memoria estetica e affettiva rielabora quelle di scrittori, di scienziati, di testi sacri. La voce ascoltata con maggiore costanza è quella di Dante. Perciò, possiamo raccontare il modo in cui siamo arrivati a costruire la nostra «condensazione scenica» di Se questo è un uomo conducendo sul testo una verifica che riguarda appunto la presenza di Dante. Qual è la prima citazione della Divina Commedia che s’incontra in Se questo è un uomo? In quale punto Primo Levi innesta per la prima volta la voce di Dante nella propria voce? La domanda è essenziale, tanto per un autore che ha deciso di raccontare Auschwitz quanto per chi si arrischia, oggi, a tentarne una sintesi destinata alle scene. La risposta alla domanda sarà differente a seconda che si legga la versione originaria di Se questo è un uomo, uscita a Torino nel 1947 presso De Silva, oppure la definitiva, che ha una trentina di pagine in più e che pure è uscita a Torino, ma da Einaudi e nel 1958. È quest’ultima edizione che abbiamo scelto come base per il testo teatrale. Qui, come vedremo, la presenza di Dante è più cospicua e complessa rispetto alla prima stesura del libro. Nell’edizione del 1947 l’impronta della Commedia, rilevabile fin dal principio, è lampante nei primi capoversi del secondo capitolo, intitolato Sul fondo. Qui il celebre cancello di Auschwitz viene descritto come «una grande porta»; la trasformazione induce il lettore a decifrare, dietro la «scritta vivamente illuminata» che lo sovrasta – ARBEIT MACHT FREI –, le «parole di colore oscuro» che Dante ha iscritto sulla porta dell’inferno: PER ME SI VA NELLA CITTÀ DOLENTE. Poco dopo aver varcato quella porta-cancello Levi sarà perentorio:

Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente.

Il campo di Auschwitz che qui per la prima volta viene dipinto come un inferno è «certamente terribile», ma è un inferno moderno (la camera grande e vuota, il rubinetto che gocciola) e soprattutto insulso, noioso fino alla disperazione: «non succede niente e continua a non succedere niente». Già questo, per chi abbia letto un po’ di Dante e sappia qualcosa dei lager nazisti, non suona banale. Ma le sorprese aumentano se, immediatamente dopo, si va a leggere Se questo è un uomo-1958, da inizio libro fino a questa pagina di apertura del secondo capitolo. Eseguendo la rilettura ci si accorge che l’ultima scena del primo capitolo Il viaggio è nuova: nel 1947 non c’era. Insieme con altri uomini selezionati come lui per il lavoro forzato, Levi è salito su un autocarro che ora viaggia veloce per una strada «con molte curve e cunette». Così, nel 1947, finisce il capitolo, mentre nel 1958 si prosegue per una dozzina di righe:

Eravamo senza scorta? … buttarsi giù? Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giù». D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono più. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.

Di citazioni dantesche ce ne sono addirittura due in questo brano aggiunto, una con tanto di virgolette (che proviene, guarda caso, dallo stesso canto III dell’Inferno dove compare la porta con le parole di colore oscuro) e l’altra, sempre dallo stesso canto, che delle virgolette non ha nemmeno bisogno perché vi domina un personaggio che tutti i lettori italiani conoscono: solo che qui «caronte» ha l’iniziale minuscola e non è uno spaventevole nocchiero con gli occhi di bragia che guida le anime dei dannati all’altra riva, fra le tenebre eterne, in caldo e in gelo. Qui «caronte» è un ladruncolo, uno che si arrangia: a suo modo, è un povero diavolo. Questo episodio che si consuma prima ancora di varcare la «porta» dell’inferno-Auschwitz produce un sussulto nell’animo dei prigionieri. «La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo».

In Se questo è un uomo-1958, Levi e i suoi compagni sul cassone dell’autocarro si accorgono di essere capitati in un luogo che paventavano tremendo, e lo è per davvero. Ma è anche un luogo assurdo. Proprio in questo frangente Levi viene colto per la prima volta dall’impulso di citare Dante alla lettera; così, riporta tra virgolette il verso 84 dal canto III dell’Inferno perché lo sollecita – insieme con la necessità di descrivere un orrore che supera ogni possibilità di espressione – la sorpresa di essersi imbattuto nello squallore morale, nella disonestà della vita quotidiana, là dove si aspettava una malvagità senza crepe e un sadismo da inferno organizzato sul serio. Levi ha appena scoperto che i suoi carnefici sono uomini normali, che sono mediocri burocrati capaci di infliggere un male estremo: un verso di Dante lo aiuta a dirlo.

Gli uomini caricati su quell’autocarro reagiscono così – «collera e riso e uno strano sollievo» – a un istante rivelatore: in Auschwitz ci sono, simultaneamente, l’orrore e il grottesco, la morte violenta e la noia mortale. In Se questo è un uomo – 1958, tra l’ultima scena del primo capitolo e i primi capoversi del secondo capitolo, Primo Levi ce lo mostra (e lo fa entrambe le volte con l’aiuto di Dante) eseguendo un esercizio vocale di alta complessità.

2. Una «zona Se questo è un uomo»

Per restituire in pieno questa complessità in un copione che abbiamo definito «condensazione scenica», Valter Malosti e io abbiamo voluto spingerci oltre il perimetro del libro “primogenito”. Abbiamo circoscritto, entro l’opera di Levi, una «zona Se questo è un uomo» formata dal libro stesso (nella sua versione definitiva 1958), da alcune poesie scritte fra gli ultimi giorni del 1945 e le prime settimane del 1946 (in simultanea con l’opera che andava prendendo forma), infine dal primo capitolo di La tregua (che l’autore pubblica solo nel 1963, ma che scrive tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948) e dalla sua pagina conclusiva: l’incubo di un ritorno in lager, anzi l’incubo che non esistesse e non fosse mai esistito nulla all’infuori di esso. Solo nei testi qui elencati si può ritrovare quella impostazione irripetibile di linguaggio, di tono, di atteggiamento esistenziale e culturale che è caratteristica del romanzo. Nell’opera completa di Levi la «zona Se questo è un uomo» è un modo annichilente di usare la lingua, di secernere ritmo, di piegare e troncare frasi. In seguito, lo scrittore diviene un’altra cosa, anzi molte altre cose di pari grandezza, ma non è il momento di definirle.
La «zona Se questo è un uomo» andava presentata al pubblico nella sua interezza, facendo perno sul testo principale. Difatti, questo nostro lavoro nasce dalla convinzione che il primo libro di Primo Levi sia un’opera acustica.
Con il suo orecchio acuito da un’attenzione assoluta, lo scrittore ci restituisce la babele del campo – i suoni, le minacce, gli ordini, i vocaboli gergali incomprensibili, i rari discorsi chiari e distinti – orchestrandola sulle lingue parlate in quel perimetro di filo spinato: i «barbarici latrati» dei tedeschi, lo yiddish degli ebrei orientali (lingua a lui sconosciuta prima della deportazione), il polacco della regione di Auschwitz, e poi ancora l’ungherese, il greco, l’inglese dei militari prigionieri, l’italiano dei pochi connazionali in grado di non soccombere, il francese adottato come lingua franca…

Le esperienza vissute sono accadute in molte lingue diverse, in molti gerghi particolari, ma anche – molto spesso – nel folto di una sfiancante cacofonia. La lingua in cui i fatti sono raccontati è l’italiano: un italiano illustre e affabile, più volte contrappuntato o stravolto da quel pattume sonoro. Levi riesce a preservare la comunicazione rendendo stereofonicamente percettibile il caos in mezzo al quale ha dovuto farsi strada. Vale perciò la pena, in una presentazione destinata agli spettatori, illustrare brevemente le strategie acustiche (e, di conseguenza, cognitive) praticate da Levi. Nei diciassette capitoli di Se questo è un uomo, più la prefazione, la poesia-epigrafe e gli altri testi della «zona» inclusi nel copione portato in scena, si possono cogliere molti registri e modi espressivi, narrativi, percettivi e di pensiero, con continui stacchi e scambi vicendevoli, e con molti passaggi in fusione polifonica, dentro una voce d’autore che è sempre unitaria, sempre una e salda. Il registro-base, il più semplice, è la descrizione: osservare attentamente una realtà aliena per capirla e poi trascriverla a beneficio di chi non era presente.

Un secondo registro, altrettanto semplice, è però dinamico: è il racconto lineare, un percorso lungo il quale ci si muove vedendo, ascoltando e facendo scoperte. Spesso, lungo questo percorso, Levi cambia la messa a fuoco e blocca delle figure, dei quadri plastici: si avvicina per guardare, raccontare e descrivere meglio, come se usasse la lente o il microscopio. A questa modalità s’intreccia un’ulteriore declinazione della voce, quella dei pensieri che si svolgono a partire dalle cose vedute e narrate: Levi si cala nel proprio animo, ma anche in quello dei suoi simili, vittime o aguzzini che siano. In molti punti poi (e sono fra le pagine che più toccano il lettore nell’intimo) lo scrittore riferisce sogni, suoi personali o collettivi, scendendo in profondità e riportando alla luce, con perfetto controllo, quelle immagini inafferrabili. Con uguale padronanza riesce a offrirci il punto di vista del dopo: Se questo è un uomo è stato scritto in gran parte a più di un anno di distanza dai fatti, e pubblicato solo due anni e mezzo dopo che la peripezia di Auschwitz era cominciata con le 650 persone che il 22 febbraio 1944 lasciarono il campo di Fossoli. Quella finestra temporale è stata messa a frutto per giungere, nei momenti opportuni, a parlare della propria esperienza come dall’esterno, con il distacco dello storico o del ricercatore scientifico, da un punto di vista che non è mai il banale senno del poi. Di tanto in tanto Levi formula dei commenti, arriva cioè a guardare come dall’alto il passato prossimo del lager senza perdere il contatto morale e percettivo con la propria esperienza. Tutto questo gli permette di proferire l’ultima delle sue voci, quella che si rivolge direttamente ai lettori sollecitandoli, ma mettendosi in gioco nel momento stesso in cui chiede loro una reazione: e gliela chiede con toni che possono essere molto diversi, come si può vedere rispettivamente nella prefazione e nella poesia-epigrafe del libro.

Malosti e io abbiamo fatto il possibile per salvaguardare questa polivalenza acustica, questo modo di esplorare, di raccontare, di pensare e ripensare il lager per darsene ragione e restituirne l’impressione.

3. «Oggi, questo vero oggi»

Primo Levi ha offerto due guizzi vocali notevoli, forse i più inattesi, nel capitolo Esame di chimica, quando si trova al cospetto del Doktor Pannwitz. Il lettore si aspetterebbe che si mostri concentrato senza residui, al culmine della tensione, su quella prova dirimente. E invece:

Da quel giorno, io ho pensato al Doktor Pannwitz molte volte e in molti modi. Mi sono domandato quale fosse il suo intimo funzionamento di uomo; come riempisse il suo tempo, all’infuori della Polimerizzazione e della coscienza indogermanica; soprattutto, quando io sono stato di nuovo un uomo libero, ho desiderato di incontrarlo ancora, e non già per vendetta, ma solo per una mia curiosità dell’anima umana.

E poco prima, prima di entrare a sostenere l’esame:

Oggi, questo vero oggi in cui io sto seduto a un tavolo e scrivo, io stesso non sono convinto che queste cose sono realmente accadute.

Quei «molti modi» di aver pensato più tardi – in Auschwitz dopo l’esame, fuori da Auschwitz una volta in libertà – stanno già tutti in quelle brevi pagine di racconto, compatte nell’intreccio delle loro fibre. Stanno nella concentrazione che Levi dedica alle cose che osserva e descrive, e insieme nella distanza che si prende, nel passo indietro che la sua scrittura fa a ogni momento per regolare l’ottica cognitiva, per mettere a fuoco una scena che include chi la va raccontando. «Oggi, questo vero oggi»: il dubbio istantaneo sulla verità delle cose che ha vissuto e che ricorda fin troppo bene, quello stacco dove si ripete due volte il pronome io, è l’atto di nascita di Se questo è un uomo, il momento in cui Levi conquista la posizione di voce che gli permette di scrivere la verità. In questi punti, in questi frangenti, il regista e io abbiamo trovato la conferma che, nel suo essere il più bello e il più atroce libro di avventure del ventesimo secolo, Se questo è un uomo è anche un’opera performativa, una prova di presenza che sembra pensata in anticipo per radicarsi nella voce, nei gesti, nel corpo di un attore. I suoi registri e scarti, la fusione di fatti e pensieri sui fatti che succedono, gli “a parte” meditativi, morali e perfino scientifici, perfino politici, sono altrettante opportunità per un attore, spunti per variare di postura, di voce, d’intonazione, di cadenza; occasioni per aggiungere una quantità di dimensioni, di chiaroscuri, a quella che i francesi chiamano la création di un ruolo. La voce di Levi è una voce una e plurale, ed era appropriato affidarla a un unico attore.

«Oggi, questo vero oggi»; «collera e riso e uno strano sollievo»; «molte volte e in molti modi»: opera acustica, Se questo è un uomo è anche un’opera che si può pronunziare in palcoscenico.

Foto di scena Tommaso Le Pera