Intervista a Daniele Roccato, contrabbassista e compositore che ha realizzato le musiche dello spettacolo Pasolinacci e Pasolini. Quattro movimenti di ascolto, di e con Marco Martinelli e Ermanna Montanari, in scena venerdì 18 e sabato 19 novembre 2022 alle ore 21, domenica20 novembre alle ore 15.30, al Teatro Rasi.
Come ha composto questa drammaturgia sonora?
“La composizione musicale è nata insieme alla drammaturgia vera e propria; in pratica è venuta da sé, insieme al testo. Lo schema da cui siamo partiti è quello della drammaturgia teatrale, su cui ho realizzato una bozza musicale e poi, a mano a mano che si precisava lo scritto, si chiariva anche la musica. Si può dire che siano cresciute insieme”.
Qual è la figura di Pasolini che emerge?
“Da questo spettacolo emerge quello che Pasolini ha significato per i giovani di quella generazione e, più dettagliatamente, quello che ha rappresentato per Marco, Ermanna e per il Teatro delle Albe. Da un lato c’è il peso specifico della sua figura, l’apertura che ha portato e l’immaginario che ha saputo creare, dall’altro c’è la musica, che qui viene influenzata dalla visione e dalla sensibilità stessa di Pasolini”.
Quello con Marco Martinelli e Ermanna Montanari è un rapporto che dura da anni: cosa aggiunge, questo, allo spettacolo?
“Si può dire che Pasolinacci e Pasolini sia la summa del lavoro portato avanti, insieme, nell’ultimo decennio. Qui la musica si presenta come un nuovo personaggio: in un dialogo immaginario rappresenta una sorta di controparte, un interlocutore, è il raccolto di quello che è stato seminato e su cui si è lavorato in questi anni”.
Qual è il suo rapporto con Pasolini?
“È un rapporto molto distratto, non ho mai avuto un ‘periodo Pasolini’, come invece è accaduto con altri scrittori e come succede spesso, in particolare da adolescenti, con film e libri. Posso dire che il mio ‘Periodo Pasolini’ sia questo: sto infatti mettendo insieme tutto quello che ho visto e letto negli ultimi anni. Ricordo con grande piacere una trasmissione di Enzo Biagi in cui questo intellettuale è stato ospite e in cui, citando implicitamente McLuhan, spiegava come, chi parli attraverso il medium televisivo, influenzi lo spettatore anche solo per il mezzo stesso che utilizza. Mi piace ricordare il Pasolini che ‘rompeva’ il giocattolo della comunicazione televisiva, che guardava la realtà negli occhi e la svelava senza pudore. Per me Pasolini era questo”.
In occasione di Canto Primo: Miasma-Arsura, che ha debuttato in streaming durante la pandemia per l’apertura del festival Transmissions, vi proponiamo l’intervista a Stefania Pedretti e Bruno Dorella (OvO) e a Marco Valerio Amico (gruppo nanou), a cura di Alessandro Fogli.
La compagnia gruppo nanou (Rhuena Bracci e Marco Valerio Amico) e la band OvO (Bruno Dorella e Stefania Pedretti) riscrivono i loro due ultimi progetti, l’album Miasma e il lavoro coreografico in divenire Arsura, per scatenare un immaginario personale che si avvale della forza dei linguaggi radicali delle due realtà artistiche. Canto Primo di una collaborazione che qui si manifesta tra suoni e immagini infernali, onirici e dirompenti.
Qual è la genesi della collaborazione gruppo nanou-OvO? Bruno Dorella: «Io avevo già lavorato con i nanou nello spettacolo We want Miles, in a silent way e poi nel nuovo Paradiso, ma tra i due spettacoli è nata questa collaborazione di cui si fantasticava da anni, la “scusa” buona è stata lo sviluppo del solo di Rhuena, Arsura. La libertà che si può avere con un suo solo è veramente potente, a un certo punto lo abbiamo provato con Miasma, l’ultimo album degli OvO, e funzionava molto bene, anche perché lei ha un modo di lavorare molto personale. L’affinità estetico-poetica con i nanou è risultata impressionante». Marco Valerio Amico: «L’incontro, da un certo punto di vista, è stato casuale, perché non eravamo sicuri che tutto alla fine coincidesse in maniera così completa, dall’altro invece l’operazione, già iniziata con la presenza di Bruno in Miles – e con l’aver seguito da tempo il lavoro di Bruno e Stefania – grazie al lockdown, dunque al non potersi muovere e avere tempo a disposizione per poter provare delle idee, ha trovato il momento giusto per dirci “proviamo a fare questa cosa insieme”, stimolati anche dalla collaborazione con Ravenna Teatro, di Bronson Produzioni col festival Transmissions Waves che ha ospitato il lavoro nella versione in streaming l’anno scorso e dal supporto di E production». Stefania Pedretti: «La sfida di Marco Valerio, quello che lo intrigava, era che non componessimo qualcosa appositamente per Arsura ma che utilizzassimo il nostro disco già fatto, cioè le musiche che avremmo eseguito in un nostro concerto. L’intuizione vincente è stata capire che la musica, così com’era, poteva dialogare perfettamente e naturalmente con la danza. Praticamente son quasi due spettacoli che combaciano, che si complementano, due fotografie sovrapposte».
Sembra davvero un incontro destinato. MVA: «Il moto per coinvolgere proprio gli OvO – oltre alla stima, l’amicizia e la voglia di collaborare che era già nell’aria – è stata la qualità del lavoro di Rhuena, in cerca di quella ruvidezza che il loro suono poteva offrirle, e su cui mi ha trovato subito molto d’accordo. Quella densità di suono, il mischiare i linguaggi artistici, è stato, per me, un ritorno a una visione degli anni novanta in cui i concerti erano performativi, non solo musicali, con una coscienza chiaramente oggi diversa. Il suono così d’impatto degli OvO, che è quasi il contrario rispetto al tema di Arsura –l’arido, il vuoto – è perfetto perchè raggiunge un vuoto attraverso un pieno: una situazione assolutamente densa che si ribalta nel suo opposto. La canzone Miasma, che dà il titolo al loro disco, è il brano che, secondo me, è il punto esatto d’incontro tra OvO e Nanou». BD: «In particolare Rhuena ha avuto un ruolo cardine nelle scelte, perché è lei che si sarebbe poi mossa sul palco, e tutto è partito appunto dal fatto che una volta ha fatto una prova sul pezzo Miasma e sia lei che Marco Valerio si son resi conto che funzionava molto bene. Da lì è nata l’idea».
Qual è l’aspetto fondamentale che ha permesso un connubio così efficace tra musica e coreografia? MVA: «Nella musica degli OvO c’è uno spazio, c’è una composizione nel loro suono in cui noi entriamo molto volentieri; nell’impatto dirompente che hanno c’è un varco. Una composizione sapiente e raffinata, ed è proprio lì che il corpo della coreografia si innesta, non per entrare in competizione e neanche per appoggiarvisi, ma per andare a dialogare con quello spazio compositivo che loro lasciano nel lavoro. Questa collaborazione è stata la cosa più divertente del mondo. E poi sì, io mi trovo particolarmente bene con Bruno e Stefania per la precisione e l’esattezza che mettono nelle cose. Siamo riusciti a trovare un bilanciamento (mai un compromesso), nel senso che loro hanno rimesso in discussione la scaletta del disco, hanno messo in discussione proprio anche i passaggi tra un brano e l’altro, data la nostra richiesta di una compattezza del suono più da colonna sonora che da concerto (con gli stop, gli applausi…). E trovando quell’equilibrio per cui, anche da un punto di vista visivo, tanto il corpo emerge quanto sparisce per fare emergere il suono e la performance musicale». SP: «In effetti abbiamo cambiato il live set a seguito dello spettacolo, che ci ha dato alcuni spunti per cambiare la scaletta. Ci siamo resi conto che l’ordine dei brani utilizzato per Canto Primo rendeva più fluido anche il concerto, scostandolo dalla dinamica di un nostro live tipico, in cui tendiamo a partire molto forte». BD: «Marco Valerio poi partiva da un punto di vista di connessione tra i pezzi, perché nell’ottica di nanou l’aspetto musicale deve essere un flusso unico, dall’inizio alla fine, mentre noi, da gruppo rock che suona su un palco, avevamo sempre avuto l’esigenza che ci fossero dei picchi e dei bassi, che un pezzo finisse, anche di botto. È la dinamica live. L’aver impostato il lavoro come una colonna sonora ci ha dato nuove visioni della dimensione live».
La versione finalmente in presenza di Canto Primo al Rasi risulterà molto diversa da quella in streaming? SP: «Credo che vivere Canto Primo dal vivo sarà molto diverso per lo spettatore, perché le immagini della versione streaming quasi sempre si concentrano su una o l’altra delle tre figure che sono sul palco, quando invece tutte e tre stanno facendo qualcosa contemporaneamente. Inoltre il montaggio delle immagini ha dovuto calibrare la lentezza della danza con la musica rock. Poi tante parti in cui Rhuena danza nell’abside del Rasi per forza di cose non sono rese al meglio nelle immagini video, non si percepisce la profondità di quel luogo incredibile, anche perché dal vivo Rhuena nell’abside apparirà come un fantasma, un’essenza, aspetto molto difficile da restituire in video. Poi le luci: per quanto si sia provato a rimanere il più possibile fedeli agli effetti luminosi, la telecamera certi tipi di sfumature e intensità proprio non riesce a captarle a pieno, mentre dal vivo si vedrà esattamente cosa è stato creato a livello cromatico, sia per la parte musicale che per quella coreografica, visto tra l’altro che la questione luci e colori è una di quelle su cui Marco Valerio sta lavorando con più attenzione». MVA: «Quello che sicuramente dal vivo è assicurato è che le vibrazioni, sia sonore che corporee – o comunque percettive anche della luce e delle immagini – arrivano davvero dappertutto, cosa che chiaramente un monitor non può offrire. Lo streaming però ci ha permesso di poter fare una riflessione su quello che oggi può essere un prodotto digitale, o comunque online, e quindi cercare di capire cosa significhi, linguisticamente, misurarsi con quell’oggetto, sapendo che la musica si è già sdoganata in tv, per quanto ne so io almeno dagli anni ’80. Adesso si possono fare altri ragionamenti, e li faremo sicuramente». BD: «La visione live cambia tantissimo la fruizione dello spettacolo rispetto al video. Dal punto di vista coreografico i nanou lavorano moltissimo sull’assenza, quindi i momenti in cui Rhuena non c’è o non si vede o è in penombra o se ne vede soltanto un pezzettino perché è stesa in terra, hanno la stessa valenza poetica di quelli in cui fa le sue incredibili acrobazie, quindi, ovviamente, avere una visione d’insieme per tutto il tempo dà totalmente un altro sapore allo spettacolo. E anche dal punto di vista dell’impatto sonoro sarà tutta un’altra cosa, perché per quanto noi si sia fatto il lavoro al meglio possibile per lo streaming, non sarà mai la stessa cosa quando ti ritrovi lì sotto le casse. Soprattutto per un gruppo come gli OvO, per il quale la potenza gioca un ruolo importante, esserci in presenza, per il pubblico, sarà molto diverso. Posso immaginare che anche l’azione di Rhuena cambierà rispetto a questi parametri, perché comunque è un solo, c’è una parte scritta e una improvvisata, non fatico a immaginare che la condizione live cambierà anche la scrittura dei suoi movimenti. Dal vivo poi, dove rispetto allo streaming facciamo un paio di pezzi all’inizio da soli, prima dell’ingresso di Rhuena, si percepirà bene l’idea del misto tra concerto e danza».
Torniamo un attimo sulla questione cromatica. MVA: «I colori che noi usiamo nella riproduzione video vengono sempre falsati per la loro natura di quasi irriproducibilità digitale, quindi dal vivo si avrà un colore molto più vibrante. Lo spazio del Rasi è il luogo in cui il lavoro è nato, per cui il 19 e 20 maggio sarà “a casa”, ed è uno spazio perfetto, tanto che con Alessandro Argnani (direttore di Ravenna Teatro), ridendo, dicevamo che dovremmo portare l’abside in tournée».
Marco Valerio, gruppo nanou si era mai confrontato prima con suoni simili a quelli degli OvO?
«Proprio col noise-metal non avevamo avuto esperienze, qualcosa con dei pezzi di Trent Reznor ma non credo si possano paragonare agli OvO. Quello che è stato veramente l’incontro, al di là della pasta sonora che loro propongono, è la capacità compositiva, su cui Rhuena si è ben misurata, si è trovata a suo agio. Noi non crediamo molto nei generi, nelle etichette, se una cosa è fatta bene può essere fatta in qualsiasi modo, quindi non c’è mai stato per noi un tabù nei confronti di un suono rispetto a un altro, e per questo progetto, che comunque si inseriva nell’atmosfera dell’anno dantesco e nella vera e propria infernalità di quel momento, il suono degli OvO era sicuramente il più adatto. Il lockdown ci ha permesso di guardarci attorno e di cogliere l’occasione dietro casa».
Gli OvO sono sempre stati una band di forte impatto anche fisico sul palco, probabilmente anche questo è un elemento importante per la dimensione live di Canto Primo. BD: «Le presenze di Stefania e mia sul palco sono abbastanza forti, non sono neutre, e infatti Rhuena, praticamente, si trova a confrontarsi con un palco molto più complesso di quello che sembra. C’è un fondale molto semplice ma intenso, le luci sono parte integrante della narrazione, e hai comunque le nostre due presenze che sono elementi piuttosto precisi e forti. Non stiamo semplicemente suonando».
Il titolo Canto Primo lascia intravedere altre collaborazioni tra OvO e nanou? MVA: «Fatto il primo, bisognerà fare qualcos’altro! Ne abbiamo già parlato con Bruno e Stefania e c’è il desiderio di proseguire, smarcandoci anche dalla tematica infernale o dai canti danteschi, non è quello il punto. C’è sicuramente un’intesa. Con Bruno stiamo collaborando sul nostro Paradiso. Sicuramente c’è una direzione che ci accomuna e che ci fa ritrovare insieme su più fronti e più progetti. Diciamo che ci auguriamo di andare avanti per continuare a indagare questo ibrido tra performance-danza, performance musicale e performance coreografica. È un territorio che ci sta dando grandi soddisfazioni».
Meredith Monk, celebre compositrice, cantante, regista, coreografa, creatrice di opere di teatro musicale, film e installazioni, riconosciuta come una delle artiste più influenti del nostro tempo, pioniera di quella che oggi viene chiamata “tecnica vocale estesa” e “performance interdisciplinare”, sarà a Ravenna per un appuntamento speciale, unica tappa in Italia della sua tournée in Europa in questo aprile 2022.
L’artista newyorchese è ospite di Malagola Scuola di vocalità e centro studi sulla voce – diretto da Ermanna Montanari insieme a Enrico Pitozzi – con un workshop all’interno del corso di alta formazione Pratiche di creazione vocale e sonora insieme alle artiste Ellen Fisher e Katie Geissinger, e con un dialogo aperto al pubblico al Teatro Rasi con Bonnie Marranca, co-fondatrice e editrice di PAJ: A Journal of Performance and Art.
A conclusione del dialogo, la Monk eseguirà alcuni “solo” dal vivo. La conversazione avverrà in inglese con un interprete italiano.
Il dialogo prende l’avvio dal libro (edito nel 2021 da PAJ Publications) Conversations with Meredith Monk, in cui Bonnie Marranca offre un affascinante ritratto della compositrice, interprete e regista di fama internazionale, dai suoi primi anni fino al presente.
La Monk – che a conclusione del dialogo eseguirà alcuni “solo” dal vivo – parlerà con Marranca delle sue creazioni di teatro-musica, delle sue opere e film. «Uno dei miei passaggi preferiti in queste conversazioni – scrive Bonnie Marranca – è la descrizione che Meredith Monk fa del suo modo di lavorare; queste le sue parole: “Mi sono sempre permessa di pensare alle mie forme come a delle bottiglie, al mio processo come a un liquido. Quando c’era qualcosa della bottiglia di cui prima non mi ero completamente resa conto, allora mi permettevo di metterlo nella bottiglia successiva. Forse l’avrei sviluppato ulteriormente”. Queste parole riflettono molto del suo modo di operare: la cura per la forma, la massima chiarezza, il processo prima del prodotto, l’economia del fine, la fiducia. Nella sua essenza, un fare arte per accumulo, un percorso svolto passo dopo passo. Qual è la qualità di quell’impegno che chiamiamo arte? In che modo un artista descrive tutti quegli elementi di se stesso e del mondo che danno vita a un’opera d’arte? In Conversations with Meredith Monk ci lasciamo guidare da queste domande, esplorando ambiti inaspettati». Celebrata a livello internazionale, la Monk ha ricevuto, in decenni di carriera, numerosissimi e importanti premi e onorificenze in tutto il mondo, tra i quali il prestigioso MacArthur Fellowship, due Guggenheim Fellowships, il Yoko Ono Lennon Courage Award for the Arts nel 2011, la National Medal of Arts da Barack Obama nel 2015 e il John Cage Award nel 2020.
Uno dei miei passaggi preferiti in queste conversazioni è la descrizione che Meredith Monk fa del suo modo di lavorare; queste le sue parole: “Mi sono sempre permessa di pensare alle mie forme come a delle bottiglie, al mio processo come a un liquido. Quando c’era qualcosa della bottiglia di cui prima non mi ero completamente resa conto, allora mi permettevo di metterlo nella bottiglia successiva. Forse l’avrei sviluppato ulteriormente”. Queste parole riflettono molto del suo modo di operare: la cura per la forma, la massima chiarezza, il processo prima del prodotto, l’economia del fine, la fiducia. Nella sua essenza, un fare arte per accumulo, un percorso svolto passo dopo passo.
Qual è la qualità di quell’impegno che chiamiamo arte? In che modo un artista descrive tutti quegli elementi di se stesso e del mondo che danno vita a un’opera d’arte? In Conversations with Meredith Monk ci lasciamo guidare da queste domande, esplorando ambiti inaspettati.
Sedevamo per lo più al suo tavolo da cucina o a quello della mia sala da pranzo e iniziavamo a parlare, guardando dove ci portavano i nostri pensieri. Accingendomi a questo volume, ho avuto la fortuna di trovare un interlocutore davvero eloquente, il cui lavoro in cinquant’anni ha interessato musica, teatro, performance art, arti visive, movimento, video e film, portando le nostre discussioni a individuare eredità storiche e contemporanee all’interno degli ampi contorni di una lunga carriera. Cosa mai si può capire senza considerare passato e presente? Come fa un artista a valutare a che punto si trova ora se non in relazione a dove ha iniziato molti anni prima?
La saggezza è l’altro lato della virtuosità, un attributo che accolgo avendo conosciuto il lavoro dell’artista per decenni. Chi è la donna che siede di fronte a me nel XXI secolo, è colei che ho visto per la prima volta recitare a metà degli anni ‘70, quando ero un giovane scrittore? Come fa a fare quello che fa?
Monk apparve sulla scena artistica newyorkese nel 1964, dopo essersi diplomata al Sarah Lawrence College. Parte della nostra conversazione si riallaccia a ciò che ha visto, ciò in cui si è esibita, alle sue letture, ai primi lavori che ha realizzato. Un’artista multidisciplinare sin dall’inizio, che ha interrogato la natura della percezione sperimentando performance dal vivo e nuove tecnologie in tante forme quante poteva svilupparne. Si parla anche della sua infanzia e della preparazione ricevuta al college che l’ha portata a questi risultati. Ha sempre vissuto nell’arte. Tra i racconti più significativi vi sono quelli in cui Monk parla delle difficoltà di una giovane artista nel trovare una sua identità e nell’imparare a lavorare con gli elementi della perfomance e dei media. Talvolta la gioia della scoperta si mescolava alla paura del fiasco.
Quel che è evidente sin dall’inizio di queste conversazioni è il suo metodo primario di interrogarsi. Ciò che apprezzo particolarmente è che i nostri scambi fossero punteggiati dalle diverse domande che lei si poneva lungo i decenni nei diversi lavori. Monk dice che riguardo a un lavoro una volta individuata la domanda a cui rispondere è già sulla buona strada. Per il più recente On Behalf of Nature la domanda è stata: “Come si può produrre un lavoro artistico ecologico, considerando tutti i materiali fisici senza creare scarti?”. Per Education of the Girlchild era: “Come realizzare un ritratto non verbale della vita di una donna?”. Per Songs of Ascension ha considerato: “Come far sì che le persone da meri ascoltatori diventino una congregazione?”. La sua domanda di fondo: “Avremo bisogno di oggetti?”. Gli oggetti hanno una sintassi, un linguaggio, come ogni altro elemento in una performance.
Monk ha fiducia in questo processo basilare: scoprire ciò di cui il mondo di questo lavoro necessita e quali siano i suoi principi. Poi, comprendere ciò che è dovuto a questo mondo e attuarlo. Lei parla di “mente vuota o del principiante”: affrontare il progetto con mente aperta affinché qualcosa di nuovo possa emergere. Questo non significa che non vi siano paure o rischi. Monk ha molto da offrire nel confrontarsi con l’ignoto e nella ricerca di un percorso verso un’opera, a dispetto del “liquido disponibile”. Ciò non di meno i lavori teatrali non sono gravati da alcun senso di pesantezza. Ho sempre apprezzato la loro leggerezza e il loro humor, indipendentemente dal contenuto: svolte inaspettate dei performers, canzoni spiritose, strumentisti sdraiati sul pavimento. Deve essere stato un grande piacere per i membri di questa splendida compagnia – molti dei quali hanno lavorato con Monk per decenni – sedersi lungo il margine dello spazio della performance, guardandosi gli uni gli altri, prima di alzarsi per il proprio turno. Si consideravano più come una comunità che come un cast. “Il mio gruppo è ancora parte del mio corpo” osserva l’artista.
Ciò che si comprende da queste conversazioni è quanto sia difficoltoso portare a termine ogni lavoro. La precisione di Monk nel descrivere come sviluppa lo spazio in un evento teatrale o in un film è pressoché formidabile per accuratezza di dettagli, specialmente nei commenti sui primi lavori come 16 Millimeter Earrings, Juice e Quarry. Le strutture spazio-temporali definiscono le fondamenta, l’idea della messa in scena spesso viene prefigurata in disegni, mappe e grafici. Lo sforzo è un aspetto fondamentale del processo. Oggigiorno l’aspetto musicale influisce su quello teatrale, al punto da far diventare la composizione musicale sempre più protagonista. La musica sta diventando sempre più libera di percorrere nuove dimensioni di suono e sentimento. Ciò che ammette di dover ancora immaginare è una messa in scena meno complessa che sia il risultato di quello sviluppo di pensiero.
Come ogni artista con decenni di esperienza, Monk apprezza l’essenza, il necessario. Lavoro e risultati. Allo stesso modo parla di una sua speciale condizione visiva, nota come strabismo, la quale rende l’esperienza retinica diversa facendo percepire gli oggetti in modo più tattile, tridimensionale. Questo modo di vedere si riflette in una certa sovrapposizione dei suoi pezzi.
Al cuore vi è l’idea di tessere. Tale metafora si riferisce non solo alla frequente commistione di musica, teatro, media e movimento ma ancor più alla nozione buddista di compenetrazione tra percezione ed esseri senzienti. Monk fa spesso riferimento nei suoi lavori ai principi buddisti, in particolare al legame tra pratica artistica e pratica spirituale. Per lei lo spazio della performance è un luogo sacro, un luogo di meditazione. Un’offerta agli uditori. Il suo teatro è una deliberata alternativa al modo frenetico e distratto della vita contemporanea che, secondo lei, impedisce alle persone di fruire dell’esperienza diretta. Monk, al contrario, invita alla consapevolezza e alla bellezza della quiete. La musica, la voce umana, diventa sempre più sorprendente nella varietà della sua presenza, dando vita a un nuovo tipo di teatro musicale che celebra il passato e il contemporaneo, il liminale e l’hic et nunc. Parlando del mondo, Monk si chiede quale sia il senso, il valore del lavoro del singolo. Questa visione filosofica del mondo si trasforma in performance etica, un sentimento di grazia che abbraccia questo e altri mondi a noi ignoti. Un’ultima domanda. “Parte della strategia dell’essere un artista consiste nel chiedersi come creare un’esperienza per la gente che permetta loro di vedere e sentire in un nuovo modo. Questo dischiude possibilità inedite di percezione, così che tornando alla propria vita ci si possa aprire al momento presente vedendo cose che non si sarebbero viste prima”. Chiedo, cosa?
Attore sensibile e armonioso cantante, Maurizio Rippa dà vita in Piccoli Funerali – in scena al Teatro Socjale di Piangipane sabato 13 novembre alle 21 – a una partitura drammaturgica e musicale dedicata a coloro che ci hanno lasciato. È un atto d’amore, un dono, un saluto; un momento intimo e personale che trova forza nella musica. È uno spettacolo che – in dodici movimenti – si fa strumento di memoria affettiva e di elaborazione del lutto, creando uno spazio poetico e sottile per il tema della morte in una società che ne esercita la rimozione. Ogni brano – da “Love me tender” di Elvis Presley a “Moon river” di Johnny Mercer e Henry Mancini, da “In the end” di Scott Matthew al traditional “Oh Danny boy” – è un gesto che riporta a una memoria. Ogni funerale è raccontato da di chi se ne va e attraversa una vita appena vissuta. Piccoli Funerali è uno spettacolo commovente e dolcissimo capace di accogliere il dolore e trasformarlo in rinascita. Rippa ha avuto una carriera molto particolare, tra musica e teatro, e ha lavorato, tra gli altri, con Carmelo Bene, Armando Punzo, Antonio Latella, Roberto De Simone, Vincenzo Pirrotta e cantato con direttori del calibro di Alan Curtis e René Clemencic. Piccoli Funerali ha vinto nel 2019 la VI edizione de “I Teatri del Sacro” di Ascoli Piceno.
Rippa, il suo metodo per eliminare la paura e l’ansia nell’esibirsi in pubblico, ossia dedicare ciò che fa sul palco a qualcuno, sembra, a posteriori, una sorta di “uovo di Colombo”. Come si è accorto che la dedica ha un potere catartico enorme?
«Ho iniziato dalla seconda replica del mio primo spettacolo (credo nell’86) a dedicare il mio lavoro sul palco a qualcuno. Devo ammettere che all’inizio per me era solo un escamotage per superare l’ansia di prestazione, poi una sorta di rito scaramantico, poi ho sentito che questa era una vera necessità, l’ingrediente fondamentale non per fare una buona performance, ma per sentire che il mio lavoro avesse sempre come motore principale l’affetto, e non una semplice esibizione di un mio presunto talento. Negli anni ho capito che ogni “performer” si esibisce con motivazioni e modi diversi: chi per dimostrare le proprie abilità, chi per egocentrismo, chi per sentirsi amato, chi per un “fuoco sacro”, chi per sfuggire alla realtà. Per quel che mi riguarda ho capito quasi subito che soffrivo molto a esibirmi davanti a un pubblico “generico”, inteso come insieme indistinto di persone che mi osservavano fare cose. Lo trovavo estremamente egoistico da parte mia, e soprattutto mi facevo sempre la stessa domanda: ma perché tutte queste persone dovrebbero stare qui ferme e zitte ad ascoltare e vedere me? Trovo molto più onesto per me, forse banalmente, esibire quello che è il risultato di prove, esercizio, imposizioni registiche, paure e gioie dirigendo il mio pensiero e affetto verso qualcuno, e “offrire” questo al pubblico, quasi come una confidenza, come quando si confessa a un amico che ci siamo innamorati. Sono cose non facilissime per me da spiegare razionalmente, ma credo che abbiano a che fare con l’intimità tra me le persone presenti».
E, a maggior ragione in uno spettacolo come Piccoli Funerali, vien da pensare che il dedicare il lavoro a qualcuno si sia trasformato in una grande forza lirica e creatrice, quasi un elemento drammaturgico…
«È stato come mettere le carte in tavola, svelare il trucco di un gioco di prestigio, in maniera talmente semplice che credo possa anche spiazzare. Ho capito subito che se volevo fare un lavoro del genere avrei dovuto essere chiaro dall’inizio, spiegare cose avrei voluto fare (che fin dalle prime lezioni di teatro ti dicono tutti che non va mai fatto). Per me rivelare la mia modalità di esibirmi è come se mi denudassi davanti al pubblico, per questo direi che la dedica è forse l’unico elemento drammaturgico».
Anche le canzoni che accompagnano ogni episodio dello spettacolo creano quasi una narrazione a sé. È stato difficile arrivare alla loro scelta?
«In realtà sono canzoni che mi sono venuto in mente già mentre scrivevo il testo, quasi come colonna sonora, e la cosa in comune di tutte le canzoni è che volevo che fossero in un’altra lingua, per non aggiungere testo al testo parlato. Il fatto che io parli malissimo lingue straniere mi fa vivere le parole delle canzoni più come suono che come significato. Per me Piccoli Funerali ha come protagonisti delle persone che si raccontano accompagnati da suoni, e ho la fortuna di essere accompagnato da Amedeo Monda, che è un musicista molto sensibile, capace di ascoltare e assecondare tutte variazione che il mio stato emotivo della sera gli propone».
Cosa ha rappresentato Piccoli Funerali per la sua vita artistica? Penso anche all’intimissimo contatto con il pubblico prima dell’ultima canzone…
«In generale sono terrorizzato dal “pubblico”, inteso come insieme di persone indistinte. Soprattutto guardare i visi. Nella maggior parte degli spettacoli le luci creano una barriera che non ti permette di vedere il pubblico; non lo vedi ma sai che c’è. In Piccoli Funerali trovo fondamentale guardare le persone, vedere gli sguardi, guardarle negli occhi, è una cosa che mi terrorizza ma la trovo necessaria, è una questione di onestà. In qualche modo penso che potrebbe essere il mio ultimo spettacolo, dove lo stare in scena è una dedica a ogni singola persona presente. Per me rappresenta il mio modo di espormi in tutta la mia fragilità e imperfezione. L’ultima canzone e quello che accade prima sono tra le cose più intime ed emotivamente forti che ho mai provato in scena. Come se ogni persona presente venisse a darmi un bacio».
Ci sono differenze tra il porsi sulla scena per uno spettacolo teatrale e un concerto?
«È una domanda che meriterebbe una risposta lunghissima. Il mio primo testo (con un moto di orgoglio e narcisismo dico che ho vinto una menzione speciale alla prima edizione del premio Dante Cappelletti) si chiamava “Nella musica c’è tutto, meglio stare fermi”, dove mi esibivo in un vero concerto ma tra una canzone e un’altra dicevo ad alta voce tutti i pensieri, i dubbi, le paure di un cantante durante un concerto. Le differenze fondamentali sono per lo più fisiche: un attore sa non solo cosa dire ma anche come deve muoversi, fosse anche come imposizione registica. Il cantante in genere sa come cantare, ma il più delle volte si barcamena per gestire piedi, mani, corpo, attingendo spesso a convenzioni e stereotipi. Direi, per banalizzare, che recitare è molto corporeo, cantare è molto etereo. Essendo sia attore che cantante spesso dico che quando canto penso da attore, e quando recito penso da cantante, che potrebbe sembrare una cosa fantastica, ma in realtà è solo un modo mio per mettermi a disagio, perché credo che la comodità non si adatti al palco e perché credo di essere bravissimo a complicarmi la vita».
Intervista di Alessandro Fogli.
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