di Marco Martinelli
Gli anni passano. Passano anche i decenni. E così, se si vuole guardare alla storia del teatro ravennate degli ultimi 40 anni, ecco che ci si trova davanti a una significativa mutazione. Il teatro della città ha scommesso sul fare spazio a un teatro “della città futura”. Come è potuto accadere?
Alla fine degli anni Settanta, dal punto di vista della creazione teatrale, Ravenna era un deserto. Sottolineo: dal punto di vista della creazione. Sul piano dell’ospitalità invece no, perché Mario Salvagiani, alla direzione dei teatri cittadini, aveva sempre riempito le sue stagioni di artisti: Carmelo Bene, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Franco Parenti, Mariangela Melato i nomi di eccellenza. Aveva quindi “nutrito” i giovani attori e registi che, alla fine di quel decennio, in maniera testarda, anarchica e autodidatta, a Ravenna e lontano da Ravenna, avevano cominciato a praticare il teatro. Testa bassa, disciplina quotidiana: creazione. Si arriva all’inizio degli anni Novanta, Salvagiani deve andare in pensione, ma non intende cedere il suo ruolo a chi non ha la passione della scena: perché questo prima di tutto è stato Mario Salvagiani, un ammalato di teatro sotto le vesti del funzionario. “In ogni artista c’è un ramo di follia”, sentenziava Aristotele: è consolante sapere che lo stesso ramo lo si può trovare anche in un dipendente comunale. La sua “follia” è stata lungimirante, ha fatto storia: da una parte convoca Cristina Muti e dall’altra il sottoscritto. Nascono Ravenna Festival e Ravenna Teatro, fusione quest’ultima del Teatro delle Albe e della Drammatico Vegetale.
Tale “mossa”, per usare la terminologia degli scacchi, ha consegnato la cultura scenica della città in mano agli artisti. Onere e onore. Il “programmatore” Salvagiani ha passato il testimone ai “creatori”. E i creatori hanno creato, con pazienza, stagione dopo stagione, opere e drammaturgie e spettacoli che hanno portato nei cinque continenti il nome della nostra città. Ma i creatori non si sono limitati a questo. Hanno fatto quello che altrove, e non solo in Italia, accade assai raramente. Hanno portato avanti l’idea di un tessuto culturale che riesca a viversi come una collettività: un gesto politico. In altri termini: non si sono rinchiusi nel la loro fortezza. Non hanno guardato dall’alto in basso le nuove generazioni, le hanno ascoltate, hanno trovato i modi più diversi per sostenerle, anche materialmente, e spesso le hanno fatte nascere attraverso la fucina della non-scuola, fucina che ha tenuto a battesimo tanti nuovi attori, registi, critici teatrali, organizzatori, cineasti. Hanno firmato (nei cuori) una sorta di patto intergenerazionale, come quello che motivava i costruttori di cattedrali del Medioevo, il “cathedral thinking” di cui oggi scrive Roman Krznaric, un filosofo tra i più influenti dell’area anglosassone: quei costruttori sapevano che avrebbero iniziato qualcosa che avrebbero forse finito i loro nipoti o pronipoti. O qualcosa che non sarebbe finito mai, come la Sagrada Familia di Anton Gaudì. Ravenna Festival e Ravenna Teatro hanno fatto dialogare la città con i suoi germogli senza guardare a raccomandazioni di nessun genere. “Tutti è una parola sacra” scriveva Aldo Capitini, e per “tutti “le porte dei teatri cittadini sono rimaste aperte. E così lo spazio vuoto di 40 anni prima si è popolato: è quello che vedo, leggendo i nomi di questo programma di Ravenna viso-in-aria, e nel riassumerne gli estremi prendo i Fanny e Alexander, tra i primi frutti di questa fioritura, gruppo di eccellenza artistica a livello internazionale, e le Anime Specchianti, gruppo tutto al femminile di giovanissima e entusiastica formazione.
Noterete tra loro grandi diversità: è un dato di cui si può andare orgogliosi. Diversità generazionale, diversità di poetiche, diversità di condizione (professionisti e non): tutti accomunati dalla passione della scena, tutti con eguale dignità di essere accolti, ascoltati, criticati, amati.
Li abbiamo chiamati a raccolta, in vista delle celebrazioni dantesche del 2021. Nel farlo ho ripensato alle parole di Walt Whitman, quando nel 1885 presenta il suo Leaves of grass:
Passato e presente e futuro non sono disgiunti ma congiunti. Il poeta sommo forma la consistenza di ciò che ha da essere da ciò che è stato ed è. Egli trascina i morti fuor dalle bare e li rimette in piedi… egli dice al passato, Alzati e cammina davanti a me affinché io possa attuarti. Egli impara la lezione… si pone dove il futuro diventa presente.
Onorare i morti significa proprio questo: trascinarli fuori dai musei e rimetterli in piedi. E per farlo ci vogliono i vivi.
Questo “prologo ravennate” alla stagione 20-21 approfitta dell’occasione del centenario dantesco per intessere un nuovo capitolo del dialogo della città con le sue energie. Sotto il nome di un ribelle, di un poeta condannato a morte dalla politica del suo tempo, capace con la sua arte di legare cielo e terra, fanghi del mondo e desiderio di Assoluto. E in questa trama, a partire dall’Inferno dell’estate 2017, e poi ancora nel Purgatorio del 2019, stanno entrando anche i tantissimi cittadini che si sono messi in gioco, correndo ogni giorno al Rasi dopo una sfiancante giornata di lavoro per diventare arpia o avaro, diavolo o serpente, Paolo e Francesca o Pia de’ Tolomei. Accanto a questo dialogo cittadino, come Comitato dantesco abbiamo chiamato e chiameremo nel triennio a venire alcuni protagonisti della scena internazionale. La scelta di questi artisti non deriverà dal fatto che abbiano o meno lavorato sull’opera dantesca, ma dal loro essere intellettuali radicalmente danteschi. Alla radice: là dove l’impegno etico non lo si può separare dalla temperie estetica, là dove il discorso del sacro coinvolge visceralmente il discorso politico. Resteranno in città per una settimana, con i loro film e spettacoli, con la loro presenza: e con loro i gruppi, se vorranno, potranno dialogare. Spero per conto mio che lo desiderino: incontrare chi sa volare alto, aiuta a rafforzare le ali.
Cosa resta, alla fine del Candido di Voltaire, scritto nel cuore di un’epoca buia e segnata da guerre e pestilenze, cinica e indifferente come la nostra? Candido lo ripete più volte come un mantra: “il faut cultiver notre jardin”.
Dobbiamo coltivare il nostro giardino: fuor di metafora, la nostra anima, la nostra arte, la nostra famiglia, la nostra comunità, la nostra città, la nostra nazione, la nostra fragile democrazia, e infine l’universo mondo. Tutto è giardino, tutto ci riguarda, quello che accade davanti al nostro balcone come le tragedie che avvengono in un mare lontano, come la catastrofe ambientale che rischia di travolgere il pianeta. Là dove arriva il nostro ascolto. Là dove arriva il nostro grido.